Appuntamento a Roma, al palo della morte
Per capire meglio in che razza di città viviamo, abbiamo seguito il consiglio di Giuliano Santoro e siamo andati all’appuntamento Al palo della morte (Storia di un omicidio in una periferia meticcia, edizioni Alegre). Da quest’affaccio abbiamo ricostruito la filiera della povertà, delle speranze e della violenza che fanno da quinte alla morte di Shahzad, cittadino pakistano ucciso nel settembre del 2014 a Tor Pignattara, in un giorno di banale furore razzista.
Tor Pignattara, semiperiferia popolare e meticcia, a due passi dalla gentrification spuria del Pigneto by night. O meglio, Torpigna, per chi non vuole rovinarsi lo spritz serale, quartiere di origini sottoproletarie, zona ribelle e partigiana durante il fascismo, destinazione obbligata per la gente del sud in cerca di fortuna, al riparo nella grande città, negli anni ’50 e ’60.
Un episodio misconosciuto, derubricato velocemente a mero fatto di cronaca nera, viene illuminato da una meticolosa inchiesta giornalistica che mescola piglio storiografico e cultura pop, in grado di riconsegnare un pezzo di miseria (e di possibile riscatto) del presente urbano. Un’operazione di igiene discorsiva che prende a (gran) pretesto l’immaginario verdoniano doc, quello ispirato dal genio di Sergio Leone, dualistico per vocazione, che disegna una città allo stesso tempo coatta e accogliente, sorniona e cattiva, malinconica e cinica.
Al palo della morte, metafora vivente delle vene aperte dell’esclusione sociale, fotografia con i bordi consumati ma capace, ancora oggi, di restituire i nodi di fondo, le contraddizioni di una metropoli mai del tutto compiuta. L’ultimo affresco riconoscibile di una “romanità” popolare che inizia a fare i conti con la distopia neoliberale, trama storica della stessa morte di Shazad. Il mondo di sotto, vivido e violento, che nessuna Grande bellezza è riuscita a cogliere.
L’escamotage narrativo del libro parte dalla Roma che si affaccia agli anni ’80 sulle ali del riscatto istituzionale del sindaco Luigi Petroselli, arrivato sullo scranno più alto dell’aula Giulio Cesare con la nomea di grigio funzionario del Pci, anche se la storia dice altro: a soli 19 anni, dirigente della provincia di Viterbo, è in prima fila nelle lotte contadine per l’assegnazione delle terre incolte. Durante l’occupazione della tenuta “Colonna” di Bomarzo, nell’ottobre 1951, viene arrestato, trattenuto in carcere per quaranta giorni ed infine condannato a dieci mesi di prigione.
È questa la biografia del sindaco che tira giù le ultime baracche, nel solco ambizioso di un’urbanistica collettivista, in seguito rivelatasi a dir poco problematica. I palazzoni anonimi di via Giovanni Conti, la location della ineffabile partenza per Cracovia, sono i fratelli gemelli delle case popolari di Tor Bella Monaca e del serpentone di Corviale, cugini di secondo grado dei moduli abitativi contemporanei di Ponte di Nona. Il borghetto prenestino è a un tiro di schioppo da via Acqua Bullicante, ma già su via Formia, sua perpendicolare, un nugolo di baracche, venti anni prima, avevano ospitato le riprese di Accattone, il capolavoro di Pasolini.
La morte di Shahzad non è una morte accidentale, è il pezzo di un mosaico più grande attraverso il quale leggere le trasformazioni delle nostre città. È la risultante di una serie di condizioni sociali e culturali, politiche e urbanistiche, che hanno macerato nel profondo l’anima di una metropoli provinciale e globalizzata.
Il viaggio senza tempo di Santoro serve, innanzitutto, a svelare l’ideologia che presiede il razzismo quotidiano, fatto di livore e odio orizzontale, quello che grida all’invasione straniera, al furto dei diritti, all’illegalità degli altri, “arabi e negri”. Basterebbe la memoria orale dei padri e delle nonne per capire che l’identità moderna di Torpigna ha sempre mescolato il noi con il loro, il dentro con il fuori, il legale e l’illegale. Shazad è probabilmente un discendente indiretto dei Salvatore o delle Carmela, poveri e “clandestini”, che per decreto fascista non potevano ottenere la residenza a Roma. Braccia necessarie nei cantieri edili per costruire la maestosità posticcia della capitale dell’impero e mani ricercate per servire le case altolocate, ma corpi invisibili come proletari in cerca di diritti.
La retorica dolente dello “stavamo meglio prima” si scontra con le storie reali, striate e mai risolte, degli anni ’70 e ’80. Quando lo spaccio italico di eroina inizia a prendere piede nella zona di piazza della Marranella, segnata dal gioco d’azzardo e usura, dove si gioca la martingala sulle corse dei cavalli o il picchetto sulle partite di calcio; al riparo in qualche bisca o, all’aperto, dal mitico Angelino, appoggiato perennemente al nasone della piazza del mercato. I pischelli hanno ben poco, oltre i muretti senza orario, l’eroina e le partite di pallone infinite. Tra le fughe a basso costo, il campo di tennis in cemento delle suore di via Acqua Bullicante, dove per 5 mila lire l’ora ci si scorda della vita sognando le gesta di Lendl e McEnroe.
E poi gli anni ’90, con la rinascita culturale e produttiva del Pigneto e le sue diramazioni verso Tor Pignattara alta, con la prima ondata di massa di migranti: per lo più marocchini nella zona interna attorno alla Marranella; indiani, pakistani e bengalesi, nel cuore caotico e insonne della Casilina. Fino agli anni zero, ai nostri giorni, in cui Torpigna diventa il termometro di una città sull’orlo di una crisi di nervi, che fa della migrazione terreno privilegiato di nuova accumulazione economica, di sfruttamento neo-schiavistico, di valorizzazione immobiliare e culturale, nuovo distretto del commercio e della somministrazione all’altezza delle tasche precarie, ma senza offrire in cambio uno straccio di compromesso post-fordista, di cittadinanza, di servizi culturali e religiosi, di welfare locale.
Shazad muore in via Ludovico Pavoni, ucciso dalla frustrazione plebea, dagli incubi di ritorno del non risolto coloniale, che nutre la banalità del razzismo quotidiano dei nuovi poveri, di chi non riconosce (o non vuole riconoscere) il vero responsabile della propria miseria. A pochi metri da lì, il paradosso sgambetta sfrontato sul campo in cemento dell’oratorio, popolato ogni giorno da una miscela di pischelli migranti di chissà quale generazione, uniti da un vigoroso e sincretico dialetto romanesco.
La sfida delle diversità, nella crisi strutturale di questi anni, da ricchezza sociale e produttiva si trasforma nel suo fantasma, nel contrappasso di una guerra tra poveri e contro i poveri che non ha nulla di spontaneo, di improvviso, di inaspettato.
Gli imprenditori della paura hanno puntato bene le loro fiches, le istituzioni nazionali e locali dimostrano tutta la loro subalternità culturale e programmatica, la rappresentanza politica sancisce la fine della sua missione storica. Dal dopoguerra e per oltre 30 anni, il Partito comunista italiano ha rappresentato innanzitutto un’agenzia di ascolto e di intervento sul territorio, capace di agire le contraddizioni, anche pesanti, con una pratica politica riformista ma capace di mordere il presente, a volte sospesa sul crinale della legalità, a partire dai rapporti con alcune frange della malavita romana. Le sezioni come antenne sensibili sul quartiere, luoghi di alfabetizzazione politica e pedagogica, spazi di organizzazione e vertenza verticale per una qualità milgiore della vita.
Oggi, quella funzione vive, trasformata e polverizzata, in una serie di piccole e grandi esperienze di autorganizzazione meticcia, di interventi minuti, singolari: scuole interculturali, corsi di italiano, associazioni antirazziste, comitati contro gli sfratti e per la difesa dei beni comuni, studentati occupati, esperienze commerciali pilota con una vocazione sociale e inclusiva. Una microfisica delle resistenze e dell’alternativa possibile che fatica però a imporsi come discorso generale, come interlocutore riconoscibile tra la gente e le istituzioni.
Riconoscere la genesi della povertà e dei drammi esistenziali, ricostruire il filo delle possibili vie di fuga, è quello che ci lascia in dote il lavoro di Santoro. Un vademecum per resistere alla dittatura della stupidità social e del fascismo neoliberale. Il palo della morte non è un traliccio isolato, non è l’imponderabile segno del destino, ma una cartografia sofferente e viva della città di sotto. Quella che non vuole più morire come Shazad.
L’immagine in copertina è un’opera di Lucamaleonte e Nic Alessandrini il-muro nel quartiere meticcio di Torpignattara, foto di Giorgio Benni.
* http://www.dinamopress.it/news/appuntamento-a-roma-al-palo-della-morte