Chi incendia il Kirghizistan
Quando in aprile era esplosa una nuova crisi del Kirghizistan sembrava la semplice ripetizione di quanto era accaduto cinque anni prima. Il “rivoluzionario” Kurmanbek Bakaev, arrivato al potere nel 2005, è stato cacciato come il suo predecessore Askar Akayev. Bakaev ha cercato per qualche settimana di tornare, approfittando dell’instabilità del nuovo regime, poi si è rifugiato nel bastione della conservazione, la Bielorussia di Lukashenko, aspettando l’occasione propizia per rientrare. Secondo il nuovo governo è lui che soffia sui conflitti interetnici, ma è una spiegazione insufficiente.
La crisi era iniziata con gli incidenti di Talas, nati da una richiesta di dimissioni del governatore locale, molto impopolare, ma la protesta si era sviluppata poi contro il regime di Bakaev, a cui veniva imputato un uso personale e familistico del potere e un generale decadimento delle condizioni economiche in cui si trova la maggior parte della popolazione. Già almeno un paio di volte negli anni scorsi si erano verificati scontri e disordini sia nella capitale Bishkek che in alcune città di provincia. Nel 2007 il partito di Bakaev aveva conquistato la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento, nel corso di elezioni che però erano state subito contestate e avevano provocato altre proteste.
In aprile si sono viste nei video persone armate di soli bastoni mettere in fuga poliziotti armatissimi (anche se il reddito medio del Kirghizistan è di soli 130 dollari al mese, l’equipaggiamento dei corpi di sicurezza non ha nulla da invidiare a quello dei nostri rambo). E a bastonate o a calci in faccia, a volte erano riusciti a procurarsi un mitra strappandolo a poliziotti terrorizzati. Gente furiosa, per l’aumento della benzina, delle bollette di elettricità e gas, per la brusca riduzione delle rimesse degli emigranti, per il calo del PIL, che in un anno è passato da un + 8,41% di crescita nel 2008 a una flessione del – 2,3% nel 2009. Ma una volta conquistate le armi, non sono state riconsegnate, e il bilancio dei morti è stato subito ben più grave che nel 2005. E la situazione è diventata sempre più tragica, con molte centinaia di morti.
Il carosello di questa strana alternanza in cui chi è stato sconfitto ritorna al governo dopo qualche anno, è una costante di quasi tutti i paesi dell’ex “socialismo reale”, dall’Albania al Kirghizistan, ed è facilitata dall’assenza di alternative reali. La nuova dirigente, Roza Otumbayeva, era già stata protagonista insieme a Bakaev della “rivoluzione dei tulipani gialli” del 2005. Sono tutte persone formatesi nella vecchia società sovietica e particolarmente segnate da quell’esperienza, quale che sia il nome che assume il loro partito (quello della Otumbayeva oggi è la coalizione Ata-Zhurt, ma i nomi contano poco). Alcuni commentatori, eredi dei “cremlinologi” di un tempo, hanno cercato di collegare questo o quel dirigente alla Russia (la Otumbayeva) o agli Stati Uniti (Bakaev), solo perché chiedevano un sostegno dall’uno o dall’altro. Ma bisogna capire perché non l’hanno ottenuto: evidentemente la situazione era così instabile da scoraggiare un impegno più diretto. La Russia, non lo ha fatto perché conosce meglio i problemi e teme complicazioni con le altre repubbliche dell’area. Gli Stati Uniti sono preoccupatissimi perché dal Kirghizistan passano la maggior parte dei rifornimenti via terra alle loro truppe in Afghanistan, e perché l’esplosione dell’Unione Sovietica ha lasciato pesanti contenziosi in ciascuna delle repubbliche asiatiche con rischi di esplosioni a catena, come si è puntualmente verificato con i pogrom antiuzbeki e di conseguenza con centinaia di migliaia di rifugiati in fuga nel paese vicino. Intervenire direttamente è stato quindi considerato molto pericoloso.
L’inviato Usa nella zona, Robert Blake, parlando dal vicino Uzbekistan, ha descritto la situazione nel sud del Paese come una «crisi umanitaria», e si è detto molto preoccupato per la violenza interetnica che continua, ma non ha fatto proposte precise. Blake ha visitato alcuni campi dei rifugiati e ha espresso la “grande preoccupazione” degli Stati Uniti. Blake, dopo aver esortato il governo provvisorio a fare “passi immediati per fermare le violenze”, ha chiesto un’inchiesta indipendente sugli scontri etnici tra uzbeki e kirghizi. “Credo che sia importante che ci sia un’inchiesta, ma considerato l’enorme numero di rifugiati uzbeki in Uzbekistan, i cui racconti devono essere ascoltati, l’inchiesta kirghiza deve essere accompagnata dall’indagine di un organismo indipendente”, ha detto Blake, che è vice-segretario di Stato per l’Asia centrale e meridionale. Anche il rappresentante russo nel Kirghizistan, Vladimir Rushailo, che si trova a Bishek da quattro giorni, ha chiesto al governo provvisorio di trovare e punire i colpevoli delle violenze, ma ha rifiutato di pronunciarsi su quella che sarebbe una “questione interna” del Kirghizistan. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) lancia intanto dati allarmanti: ritiene che si debba «lavorare su uno scenario di un milione di persone, tra cui 300 mila profughi, coinvolti direttamente o indirettamente» nelle violenze.
La situazione è confusa, e non aiuta tentare di spiegarla solo con le ingerenze dell’uno o dell’altro paese. Bakaev ad esempio, che alcuni commentatori avevano definito nel 2005 un fantoccio degli USA, in questi anni ha più volte tentato di cacciare gli USA dalla base di Manas, indispensabile per i rifornimenti alle truppe in Afghanistan; ma ha finito solo per alzare il prezzo, triplicando il canone d’affitto. Bakaev non era e non è un “agente”, né di Washington, né di Mosca, né di Pechino (che pure segue con attenzione la situazione, per la contiguità con la sua regione più inquieta dopo il Tibet, il Xinjang, in cui i nazionalisti ujguri parlano la stessa lingua dei kirghisi). Era solo un mediocre dittatorello locale, che aspirava, come un po’ tutti i rampolli del “socialismo reale”, a crearsi una “dinastia”. Uno come tanti altri. Sintomatico che l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) ha invitato Governo e oppositori kirghizi a cercare il dialogo, per porre fine ai sanguinosi scontri. Sembra di sentire Napolitano. “Speriamo che entrambe le parti diano prova di saggezza e volontà politica di risolvere le vertenze, nell’interesse del popolo”, ha detto il ministro degli esteri del Kazakistan Kanat Saudabaiev, il cui paese ha assunto la presidenza di turno dell’OSCE. “Siamo pronti ad agevolare il dialogo”, ha aggiunto Saudabaiev, prima di esprimere “profonda preoccupazione” all’omologo kirghizo Kadyrbek Sarbaiev. Domani potrebbe toccare anche a lui…
E infatti l’instabilità e la forte circolazione di armi in mano alla popolazione ha finito per facilitare chi voleva spostare i conflitti dalla politica agli odi interetnici, costringendo centinaia di migliaia di persone a rifugiarsi nel vicino Uzbekistan. Può essere siano stati i sostenitori di Bakaev, ma non è escluso che ci siano stati gruppi già pronti a prendersela con i vicini per accrescere la loro influenza.
A Osh è stato bruciato il 70% delle case, per lo più quelle dell’etnia uzbeka. Lo ha detto a Ginevra Giuseppe Annunziata, responsabile del coordinamento degli aiuti di emergenza dell’OMS. Secondo Annunziata 700 mila sarebbero i profughi all’interno del paese, mentre 300 mila sarebbero riusciti ad attraversare il confine per sfuggire alle violenze. Sembra che le case risparmiate siano state quelle “marchiate” con un KG per segnalare l’appartenenza a famiglie kirghise. Qualcosa che ricorda i massacri del Ruanda e di molti altri conflitti etnici. Il bilancio delle vittime del massacro etnico in Kirghizistan potrebbe però essere «dieci volte» superiore delle stime ufficiali secondo il capo del governo ad interim Rosa Otunbayeva, mentre si dirigeva verso la città meridionale di Osh. Anche a Jalalabad ci sono stati stupri e devastazioni, e gli hotel che affacciavano su una delle piazze centrali si sono sbriciolati negli incendi appiccati durante gli scontri. Interi palazzi sono rasi al suolo, molte case inagibili. Secondo quanto riferito dal corrispondente della France Presse, l’accesso alla città e alle zone circostanti è diventato molto difficile e la situazione della sicurezza è totalmente fuori controllo.
Le dimensioni della tragedia spingono a non fermarsi a guardare solo i diretti responsabili. Come troppe altre volte nelle repubbliche ex sovietiche, ci possono essere stati anche singoli sobillatori incendiari più o meno identificabili, ma il problema è che c’era un materiale infiammabile pronto dovuto alla stagnazione, alla crisi economica, alle visibili sperequazioni economiche tra i nuovi ricchi e la massa della popolazione sempre più povera e senza assistenza. E, come nella Jugoslavia del dopo Tito, in cui veniva alla luce l’enorme debito accumulato e nascosto per anni, i pessimi governanti di ogni repubblica, incapaci di presentare un bilancio positivo del loro operato, hanno puntato sullo sciovinismo e sull’odio per le minoranze. Creare un capro espiatorio è più facile che affrontare razionalmente le cause della crisi. È il lascito più terribile della lunga agonia del sistema staliniano in tutte le sue varianti.