Come l’Italia sta rinunciando a cercare la verità sul caso Regeni
Pensavo che tutta quella spazzatura complottista relativa alle vicende che si sono sviluppate attorno alla tortura e all’assassinio del dottorando italiano Giulio Regeni fosse finalmente finita in discarica. E invece no.
Nel corso dell’ultima settimana è riaffiorato tutto di nuovo, in forme ancora molto virulente. Addirittura un generale in pensione — Leonardo Tricarico, consigliere militare durante il governo D’Alema e oggi presidente della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis) — è arrivato ad affermare che il responsabile dell’omicidio Regeni sarebbe l’Università di Cambridge “che ha mandato al Cairo un giovane ricercatore come Giulio senza chiarire confini e rischi del suo mandato.”
Non è mia intenzione parlare di questo, però. All’origine del reprise stucchevole ci sono una serie di eventi politici (abbastanza vergognosi) e mediatici (abbastanza rilevanti) dei quali è importante tracciare il profilo, perché contengono elementi di novità. Ci aiuteranno a rinnovare un ricordo “pulito” e a fare il punto sul paese in cui viviamo.
Il punto di partenza è il 14 agosto 2017, quando le agenzie battono la notizia che gli egiziani hanno inviato ai magistrati italiani un faldone di documenti riguardanti l’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Un minuto dopo arriva la notizia che il ministro degli esteri Angelino Alfano — alla luce di questo fatto — ha deciso di ristabilire in tutto e per tutto le relazioni diplomatiche con l’Egitto, inviando al Cairo il nuovo ambasciatore Giampaolo Cantini. Maurizio Massari, il precedente ambasciatore, era stato ritirato ad aprile come strumento di pressione nei confronti del governo egiziano, che non stava collaborando con le autorità giudiziarie italiane sul caso Regeni.
Da mesi era in piedi l’ipotesi di rimandare l’ambasciatore. Alcuni giornalisti (tra cui Ugo Tramballi su Affari Internazionali) e esponenti di varie forze politiche (come Nicola Latorre del Partito Democratico) ne avevano fatto in qualche modo cenno. Sembravano cose buttate lì, opinioni non supportate da intenzioni.
Ma la campagna di Amnesty, di concerto con la famiglia Regeni, aveva sempre puntualmente reso noto — in quei frangenti — che questa opzione non sarebbe stata sul tavolo fino al momento in cui davvero non si fosse fatta piena luce su chi, e ubbidendo a chi, ha ucciso il dottorando italiano.
Il 3 febbraio 2017, esattamente un anno dopo il ritrovamento del corpo, Paola e Claudio Regeni, insieme alla loro legale Alessandra Ballerini, erano stati abbastanza chiari: c’è una lista di nomi su cui indagare, siamo a un passo dalla verità. Ma quel passo non è stato fatto. E nessuno, tantomeno Angelino Alfano un minuto dopo la notizia del loro arrivo in Italia, può conoscere il contenuto delle carte arrivate qualche giorno fa dall’Egitto, tutte in arabo — le quali, come è già successo, potrebbero anche contenere nulla.
Dunque, di che stiamo parlando? Parliamo di una decisione: la piena riabilitazione del dittatore al-Sisi, presa dal Governo italiano nonostante il caso Regeni sia ancora in alto mare — e non il contrario. Le considerazioni che ci sono dietro, come hanno spiegato da più parti, hanno a che vedere con quella che si definisce realpolitik. Non è tanto dovuta a un fattore economico. Gli affari con l’Egitto, infatti, non sono mai andati così bene come in questi mesi. Per gestire il lato economico, all’estero, basta il consolato. La cosa è puramente politica, ha a che vedere — questa non è solo la mia ipotesi — con i recenti sviluppi in Libia e con le politiche del nostro governo in materia di migrazioni.
L’Italia, con metodi che non sto qui a discutere ma che ritengo illegali, sta bloccando gli sbarchi di migranti dalla Libia (condannando alla morte o alla tortura migliaia di persone) e per far questo ha bisogno di appoggi politici per non rischiare che coloro cui si affida in Libia, o altri attori libici, usino creativamente quelle che la studiosa americana, Kelly Greenhill, ha definito efficacemente “armi di migrazione di massa“.
Se poi gli appoggi politici non bastano ci vuole la forza bruta, un esempio della quale Reuters racconta con dovizia di particolari in un’esclusiva dello scorso 21 agosto: a Sabratha, cittadina a ovest di Tripoli conosciuta per il traffico di esseri umani, una nuova milizia, composta da “centinaia di civili, poliziotti, militari” nata dopo una campagna lanciata da un “ex boss della mafia” locale, si adopera in tutti i modi per evitare che le navi di migranti salpino verso l’Italia.
Ad ogni modo si tratta di un’arma molto affilata in una guerra asimmetrica, ossia in un contesto in cui le forze in campo sono impari. Chi la possiede può dire: “Ti mando i migranti e genero il caos nel tuo paese.” Fra questi attori c’è il generale Haftar, che regna sulla Tripolitania e, per dirne una, ha minacciato di attaccare le navi italiane che entrassero nelle acque territoriali libiche. Haftar è un sodale di al-Sisi, il dittatore egiziano, il quale a sua volta possiede in una certa misura quell’arma di migrazione di massa. Affinché gli sbarchi si fermino bisogna assicurarsi che il ricatto non lo faccia nessuno.
Con quella minaccia Haftar e al-Sisi hanno lanciato all’Italia un messaggio, che più o meno recita: “Vogliamo una fetta della torta; guardate che anche noi possiamo mettervi i bastoni tra le ruote.” La fetta della torta è anche la normalizzazione dei rapporti diplomatici con l’Egitto.
La realpolitik chiama, dunque, e il governo italiano risponde. Il calice amaro dell’ipocrisia, tornando agli eventi del 14 di agosto, finisce per traboccare quando apprendiamo che, prima del comunicato di Alfano, arriva la telefonata del presidente del consiglio alla famiglia Regeni. Gentiloni assicura: si arriverà alla verità. La famiglia Regeni reagisce esprimendo la sua indignazione, in un comunicato molto puntuale. Ad essa si associa la campagna di Amnesty con le migliaia e migliaia di persone che questa causa l’hanno presa a cuore, giustamente, usando l’hashtag #VeritàperGiulioRegeni e il colore giallo. Altri, come prevedibile, festeggiano. Arriva poi Ferragosto e avviene qualcos’altro, stavolta proveniente dal mondo dei media.
Il New York Times pubblica una lunga inchiesta sul caso Regeni. I suoi contenuti sono solo parzialmente già noti. Siamo nel campo delle “rivelazioni,” che riguardano soprattutto il versante italiano. La prima di esse recita più o meno: a pochi giorni dal ritrovamento di Giulio Regeni l’intelligence americana aveva avvertito gli italiani, non entrando tuttavia nei particolari, di avere le prove di un coinvolgimento dei servizi di sicurezza egiziani nell’assassinio. Di questi avvertimenti nessuno sapeva nulla — parliamo di fonti aperte — perché evidentemente gli italiani decisero di non darli in pasto all’opinione pubblica.
Su questo punto vanno fatte alcune considerazioni: la maggior parte dell’opinione pubblica italiana sapeva benissimo da subito di quel coinvolgimento. Immagino che gli americani avessero offerto alle autorità italiane le “prove provate.” E immagino che gli italiani abbiano deciso che non era quella la strada da seguire. Infatti, come ho ripetuto più volte qui su VICE, la scelta è stata quella di seguire la strada della collaborazione giudiziaria, non quella politica. Il provvedimento — tutto sommato blando — del richiamo dell’ambasciatore dal Cairo avvenne molto tardi, nell’aprile 2016, e non fu seguito da altre pressioni.
Bisognerebbe averle disponibili, quelle prove, in tutta la loro estensione; eppure, non sembra che le autorità italiane abbiano voglia di divulgarle. O che, volendo essere un po’ complottisti, abbiano deciso di inviare l’ambasciatore al Cairo prima che quelle prove fossero divulgate dagli americani. A questo proposito bisogna ricordare che l’inchiesta del New York Times non nasce ieri.
Come racconta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, su Radio Popolare: “Io posso dire che su questo articolo il New York Times stava lavorando da mesi, almeno da gennaio quando ha contattato anche Amnesty International. Sapevo che l’articolo sarebbe stato pubblicato in questo periodo. È il governo italiano che, riprendendo oggi le relazioni diplomatiche con l’Egitto, ha fatto sì che ci fosse questa coincidenza.”
La seconda rivelazione racconta di uno scontro interno agli apparati italiani, nei quali è coinvolta anche l’ENI, il gigante energetico italiano che il New York Times spiega bene essere — visto il suo potere economico — un vero e proprio carico da dodici in tema di politica estera. Specie in Egitto, dove ha investimenti per almeno 15 miliardi. In sostanza: i servizi segreti, dice il NYT, non dicevano tutto al Ministero degli esteri. E l’ENI gestiva le relazioni col dittatore egiziano. Il quadro è quello di una politica estera italiana che si attorciglia attorno a interessi patenti (ENI) e obliqui (servizi segreti), barcamenandosi per non perdere consenso.
La terza rivelazione ha a che vedere con questo intreccio:
I diplomatici [del Ministero degli esteri italiano] sospettarono che le spie italiane, nel tentativo di chiudere il caso, avessero intermediato per un’intervista del giornale italiano Repubblica con Sisi, sei settimane dopo la morte di Regeni (l’editore di La Repubblica afferma che la richiesta di un’intervista è arrivata dal quotidiano).
Se il fatto fosse confermato bisognerebbe associarlo a un altro di quei peculiari “eventi a raffica” che ogni tanto capitano in questo paese: l’allora Presidente del consiglio, Matteo Renzi, a pochi minuti dall’uscita di quell’intervista, la salutò come un grandissimo passo avanti nella ricerca della verità. Era invece, a tutti gli effetti, il goffo delirio complottardo di un dittatore debole e spietato.
Le reazioni del Governo all’inchiesta, nella quale si affermava che i vertici dello Stato egiziano sapessero quello che stava succedendo, non sono mancate. Palazzo Chigi ha spiegato di non aver percepito, nel relazionarsi con gli americani, la presenza di alcuna notizia esplosiva riguardo alla vicenda. E Renzi, rivolgendosi a Gentiloni, avrebbe detto che “mai una volta il presidente degli Stati Uniti [Barack Obama] mi ha fatto rivelazioni o fornito documenti.”
Resta il dubbio che queste segnalazioni non siano circolate a dovere, stante il fatto che — come sottolinea il NYT — le informative erano passate attraverso gli organismi di intelligence. Insomma, ritorniamo alla possibile non completa collaborazione fra servizi italiani e governo. Oppure, altra possibilità, Gentiloni e Renzi stanno semplicemente negando, non potendo essere smentiti.
A livello mediatico, comunque, le reazioni ci sono state anche nella forma raccontata in principio: riversando badilate di fango sulla memoria di Giulio Regeni. Diverse testate, però, hanno cercato di andare più a fondo, rintracciando fonti titolate fra chi lavorava nell’amministrazione americana al tempo dei fatti, cioè quando Obama era presidente.
Fra queste è notevole l’intervista de La Stampa, in cui una fonte (anonima) conferma a chiare lettere e punto per punto quanto spiegato dal New York Times anche in relazione alle comunicazioni con l’Italia, aggiungendo particolari riguardo al livello di conoscenza dei fatti da parte di al-Sisi e dei suoi sodali: “La nostra fonte sostiene che l’ordine di colpire Regeni ‘era venuto dall’alto’. Non pensa che il presidente al-Sisi avesse chiesto il suo omicidio, ma aveva espresso con chiarezza la volontà di dare un esempio agli stranieri. A quel punto ‘i gorilla dei servizi di sicurezza hanno preso in mano la situazione, facendola sfuggire a qualunque controllo’.”
Insomma: una storia di sgherri che vogliono apparire bravi di fronte al loro capo e finiscono per combinare un guaio. E se ciò rappresenta in ultima analisi un’accusa diretta al dittatore, responsabile di ciò che i suoi sottoposti — stupidi o meno non importa — fanno, non risponde a una domanda che ancora attende risposta: in quale fase del sequestro al-Sisi è venuto a conoscenza di ciò che stava succedendo.
Ecco, tralasciando la marea putrescente del commentario sui social e bypassando allegramente tutti quegli analisti politici — e sono tanti — che legando gli ultimi sviluppi della vicenda ad altre agende, ad esempio quella sui migranti, hanno perso un’occasione per stare zitti, questo è quanto è successo dal 14 agosto a oggi.
Di fatto ora il dittatore al-Sisi è un poco più forte di prima, e questa non è affatto una buona notizia per l’Italia. Dal canto loro, i genitori di Giulio Regeni (che hanno rilasciato un’intervista molto intensa ad Avvenire) annunciano che andranno al Cairo prima del ritorno dell’ambasciatore. Si aspettano di ricevere il supporto che il loro ennesimo atto di coraggio merita.
Fonte: Vice