Crisi, quando a crescere è solo la stagnazione
Quell’araba fenice della crescita
Non tutti si accodano al coro enfatico sul ritorno della ripresa[1]. Il Sole 24 Ore, ad esempio, commentando i recenti dati dell’Istat e del Centro studi di Confindustria sulla produzione (-0.2% a febbraio su base annua e +0,1% a marzo rispetto al mese precedente), scriveva che la ripresa «per l’economia italiana, assomiglia in modo preoccupante alla descrizione fatta dallo scrittore Edoardo Galeano a proposito dell’utopia: “Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là»[2]. Insomma i risicati decimali positivi o negativi non ci dicono un bel niente se non vengono contestualizzati in una serie di lungo periodo e soprattutto se non vengono incasellati nel quadro generale dell’economia mondiale. O meglio, non stanno a indicare una precipitazione della crisi, che sarebbe insostenibile, ma neppure un’inversione di tendenza. In Italia sempre Confindustria ha certificato all’inizio del 2014 un crollo della produzione in termini fisici del 24.6% (cioè tornata ai livelli del 1986), del Pil del 9.1% e di quello procapite dell’11.5%, concludendo che i danni subiti dall’apparato socio-economico «sono paragonabili solo con quelli di una guerra»[3]. Per quanto attiene la ripresa, invece, il costante oscillare intorno allo zerovirgolaqualcosa descrive un contesto di sostanziale stallo. Tale contesto non è solo una prerogativa delle difficoltà italiane, nonostante esse siano indubbiamente croniche e più gravi della media dei paesi avanzati. Un recente testo di Luca Ricolfi ha descritto gli andamenti della crescita dei paesi Ocse come una sorta di modulo di gioco calcistico: il 4-3-2-2-1, dove per 4 si intendono i punti in percentuale di crescita del Pil di questi paesi durante gli anni Sessanta, 3 durante i Settanta, 2 per gli Ottanta e Novanta, 1 per il primo decennio del XXI secolo. Ricolfi aggiunge che tale sequenza parrebbe annunciare una crescita intorno allo zero per quanto riguarda l’attuale decennio e sottolinea come la crisi del 2008 non debba trarre in inganno, in quanto ben prima della sua esplosione «le economie dei paesi avanzati erano pericolosamente vicine a un regime di stagnazione»[4]. Non è un caso che oltreoceano in questi anni in molti abbiano utilizzato il concetto di «secular stagnation», a partire dall’ex ministro del Tesoro di Clinton ed economista Larry Summers. Tale stagnazione è ipotizzata soprattutto per le economie dei paesi maturi. Cioè si prevede un periodo prolungato in cui il fattore mancante sarà proprio la crescita. Il ciclo acuitosi con la crisi globale non pare concluso, ma semplicemente attenuato. Summers pone il problema partendo da un assunto, per molti discutibile, di un presunto calo demografico dei paesi più ricchi, per concludere che da tale parabola provenga in definitiva l’ingolfamento del sistema economico. Ne conseguono modesti tassi di investimento e consumo che obbligano il sistema a ricorrere a espedienti estremi di tipo finanziario per consentire la sopravvivenza dei meccanismi di accumulazione. Questi espedienti, dopo l’euforia irrazionale iniziale, hanno condotto a dei risultati sproporzionati e deludenti. La crescita media degli Usa, capofila delle nazioni interventiste, negli ultimi cinque anni è stata appena del 2% nonostante si provenisse da una situazione estremamente depressa. Nessun effetto rimbalzo dunque. Il gigante economico dopo la caduta si è rialzato, ma da lì a riprendere a correre ce ne passa.
I limiti sono globali
I rischi però attualmente non provengono più solo dalle economie cosiddette avanzate. La logica estensiva della globalizzazione in questi decenni ha reso effettivamente il mondo un po’ più piccolo, aumentando decisamente i gradi di interconnessione. Le delocalizzazioni produttive alla ricerca di un contenimento dei costi e dei prezzi nei mercati interni dei principali paesi hanno condotto, secondo una sorta di eterogenesi dei fini, a uno sviluppo molto significativo di un numero crescente di paesi periferici. La distinzione tra centro e periferia è andata sbiadendo, intrecciando sempre più un numero crescente di paesi, legati da relazioni prima produttive, poi sempre più di natura finanziaria. Oggi la Cina, per semplificare, non è solo la fabbrica del mondo: attraverso l’avanzo interno ha dirottato risorse finendo per diventare il primo paese straniero che detiene titoli del debito pubblico statunitense (oltre 1300 miliardi di dollari all’inizio del 2014[5]). L’interdipendenza globale, che ovviamente non esclude tensioni e contrapposizioni specifiche anche di una certa gravità, ha reso più preoccupanti gli effetti della crisi originata nel mondo anglosassone. La crisi, infatti, è dilagata in Europa e nel suo indebolire le principali economie ha avuto ricadute immediate sui paesi emergenti. È sufficiente riflettere sul famigerato Bric. La Cina ha visto ridurre i suoi poderosi tassi di crescita, anche l’India nonostante recenti espedienti contabili ha rallentato, Brasile e Russia vivono addirittura un momento di seria difficoltà. L’economista Michel Husson parla addirittura di processi di «deindustrializzazione precoce»[6] per alcuni di questi paesi. La crisi, nata e sviluppatasi al centro, ha retroagito su tutti i paesi periferici che in qualche misura si erano legati a quel modello di sviluppo, assumendone il profilo e non unicamente sotto il segno dell’economia reale. Per la Cina si parla di un costante rischio bolla immobiliare, ma anche di un crescente e forse insostenibile livello di indebitamento dell’economia. Reimpostare una crescita autocentrata non sarà affare semplice nè veloce. L’ipotesi che la periferia possa salvare il centro invertendo flussi economici e finanziari oggi appare poco credibile. Non si invertono relazioni commerciali, produttive e finanziarie di quest’entità in breve tempo, magari per essere utili ai paesi occidentali. Se e quando (in qualche misura il processo è già iniziato) i paesi periferici intraprenderanno una strada di sviluppo autonomo, ciò sarà dettato dalle loro necessità piuttosto che da quelle di salvare le vecchie e ricche economie del mondo. Il XIX Rapporto sull’economia globale di Ubi Banca e Centro Einaudi mette in evidenza come sia in corso persino l’affermazione di un nuovo «protezionismo di fatto»[7], non più basato su tariffe e barriere doganali, ma su una dimensione eminentemente finanziaria, in cui si protegge la propria competitività attraverso guerre valutarie, si proteggono le proprie imprese considerate strategiche, si fanno pressioni per evitare l’ingresso di imprese non gradite. Un protezionismo, quindi, che ha sostituito i vecchi muri invalicabili con dei cancelli chiusi, socchiusi o aperti a seconda dell’occorrenza.
A confermare la tendenza a una certa condivisione globale della fase stagnante giunge un rapporto del Fondo monetario internazionale in cui si sostiene per la prima volta una sorta di coincidenza delle difficoltà tra paesi ricchi e mercati emergenti: i primi nella prossima fase non riuscirebbero a crescere oltre i ritmi degli ultimi anni post-crisi, mentre i secondi vedrebbero contrarre i loro ritmi di crescita. In entrambi i casi i problemi sarebbero causati da bassa produttività del capitale, invecchiamento della popolazione e crescente tendenza alla deflazione. Problemi che complicherebbero il panorama economico in maniera strutturale, tanto da far direal FMI che i problemi di crescita più bassa sarebbero «una nuova realtà» in via di affermazione[8]. In Cina il tentativo di ribilanciare la propria economia verso la domanda interna è stato praticato attraverso immissione di liquidità, poderosi pacchetti di stimolo alla crescita, espansione del credito e politiche monetarie accomodanti, un insieme di misure che ora preoccupano per la loro modesta profittabilità, con un deterioramento della redditività dei capitali investiti a rischio di trasformarsi in debiti inesigibili. A ciò va aggiunto il profondo processo di invecchiamento della popolazione, processo che fa chiedere al già citato Rapporto Ubi-Einaudi se «la Cina possa invecchiare prima di arricchirsi»[9]. Come si vede le tappe dello sviluppo non ricalcano tempi e ritmi dei paesi all’avanguardia di tali processi. Non esiste un modello evolutivo efficace per tutti. E non è unicamente un problema di ritmi. La crescita dei paesi emergenti avviene dopo e sul modello già affermatosi in quelli occidentali, così come per un effetto inerzia si incarta prima, assumendo molto repentinamente oltre che i vantaggi anche i difetti del tradizionale modello che ha fatto da apripista.
Innovazione senza crescita
Sempre il rapporto del FMI sottolinea come nell’immediato futuro non vi sarà neppure la spinta dovuta all’effetto delle innovazioni tecnologiche intervenuta a cavallo del secondo millennio. Il tema delle innovazioni tecniche è piuttosto controverso, ma ormai in modo crescente emergono dubbi e perplessità sul potere di rilancio attraverso una via tecnologica del capitalismo. Il potere di cambiamento economico preannunciato dall’avvento delle Information and Comunication Technology è stato paragonato all’avvento della macchina a vapore. Si è parlato di terza rivoluzione industriale, di era immateriale come segno distintivo di un’epoca nuova oppure, secondo la definizione di Manuel Castells, di «capitalismo informazionale», cioè di una specifica forma di organizzazione sociale in cui «lo sviluppo, l’elaborazione e la trasmissione delle informazioni diventano fonti basilari di produttività e potere grazie a nuove condizioni tecnologiche emerse in questo periodo storico»[10]. Inizialmente si è sostenuto che se comunicazione e conoscenza diventavano la fonte propulsiva, tali nuove forme di ricchezza non avrebbero condotto al loro stesso degrado, come avvenne per i commons durante la prima rivoluzione industriale. La conoscenza costituisce un bene originale sul piano economico, un bene «non esclusivo e non competitivo, nel senso che chi trasmette una conoscenza non se ne priva»[11]. Successivamente però si è compresa l’ambivalenza delle nuove tecnologie, ad esempio «Internet è libera e democratica, ma allo stesso tempo consente la più accesa competizione di mercato[12]». Si afferma così una parabola interpretativa in cui si parte da tecno-entusiasti per finire critici che evidenziano contraddizioni della nuova epoca.
É appena uscito un testo di Andrew Keen[13], guru di internet, ex imprenditore vittima della bolla, che riflette sul carattere trasversale dell’information tecnology e sulla sua capacità pervasiva che attraversa oltre che la vita di noi tutti anche settori nevralgici dell’economia, quali istruzione, trasporti, sanità, commercio e manifattura.. La critica, però, di Keen alla nuova economia è feroce. Per lui è sempre più evidente come sia un’economia basata non sulla condivisione, ma su un sistema piramidale, con un potere di concentrazione delle grandi compagnie, dove conseguentemente la ricchezza è polarizzata tra un’aristocrazia dell’1% e il restante 99% di utilizzatori/produttori. La grande espansione commerciale di Internet si è fondata sul criterio del «chi vince piglia tutto», con nuovi e potenti monopoli che forniscono un’offerta standardizzata di prodotti, ridimensionando persino il famoso concetto di «coda lunga» di Chris Anderson[14], cioè un sistema in cui una moltitudine di prodotti a bassa popolarità supera complessivamente quei pochi prodotti con un successo di massa. Il lavoro, inizialmente pensato come qualificato gratificante, diventa tale per un segmento piuttosto circoscritto di addetti, mentre per i più si rivela parcellizzato, ripetitivo e dequalificato. I tassi di sfruttamento sono elevati, il predominio dell’impresa sul lavoro determina forme nuove di terziarizzazione e di autosfruttamento, fino a giungere a forme di lavoro gratuito. Per riassumere Keen afferma che «le regole di questa nuova economia sono perciò le stesse della vecchia economia industriale, potenziate però dagli steroidi»[15]. Persino le modalità e i tempi con cui a cavallo del nuovo millennio si è affermata la bolla della new economy, cioè una tipica crisi per eccesso di capacità produttiva esplosa dopo una breve parentesi di ascesa, fanno pensare che non siamo di fronte a un modello che metta in forse i meccanismi più profondi di funzionamento dell’economia di mercato e che, soprattutto, il portato innovatore delle ITC non sia stato in grado di cambiare il verso del capitalismo contemporaneo. Il punto difficilmente opinabile del nuovo ciclo tecnologico è che non riesce a produrre crescita sufficiente. Neppure l’ubiquità e la diffusione delle innovazioni sono state capaci di aprire un nuovo ciclo di espansione, paragonabile a quelli precedenti. Il livello di criticità e di sofferenza dell’attuale sistema sembra fagocitare anche le spinte modernizzatrici e ridimensiona persino l’assunto che individua negli investimenti in ricerca e innovazione la via maestra per uscire dalla crisi. Quella che è in corso è una tale stagnazione sistemica che persino le capacità tecniche e le risorse umane intellettuali sembrano in eccesso rispetto alla possibilità di un loro impiego produttivo.
Debito e crescita: un circolo vizioso
Un ultimo aspetto che va considerato è dettato dalle caratteristiche morfologiche dell’attuale impianto economico. Se come evidenzia Ricolfi la decrescita giunge da lontano, in questi ultimi decenni si sono quasi invertite le proporzioni tra profitti e rendite da un lato e salari dall’altro, ma non è avvenuto un cataclisma generale nei paesi maturi. La dematerializzazione dell’economia è andata a braccetto con una costante sua finanziarizzazione, per mantenere accettabili i consumi si è dato vita a un crescente indebitamento con l’intento di compensare il nuovo corso di bassi salari. Il segno di questi tempi è caratterizzato da un’economia a debito, fondata sui debiti prima privati e poi pubblici. Questo castello si è seriamente incrinato con la crisi esplosa nel 2008. Lì è emerso che la strutturale mancata chiusura del circuito creditore-debitore non può procedere in maniera infinita. Cioè, se la crescita è l’orizzonte che quanto più mi avvicino tanto più si sposta, allora il meccanismo dominante ha dei problemi alla radice. La mancata crescita ha dato vita a una crescente economia fondata sul debito, ma al medesimo tempo per onorare il debito è necessaria la crescita. Anzi la crescita è in qualche misura il presupposto stesso del debito, cioè si contrae e si concede debito poiché si ipotizza successivamente crescita. Un cane che tenta di mordersi la coda. Come sostiene Andrew Ross «il denaro, creato appositamente come debito fruttifero, prende vita solo nel momento in cui un prestatario firma un contratto e promette di ripagare alla banca ancora di più. Quella promessa è credibile solo nel contesto di una crescita generale. È questo il motivo per cui la crescita è così centrale per l’attività creditizia»[16]. Abbiamo contratto un debito perché le nostre economie sarebbero dovute crescere quindi ora per colpa di questo debito dobbiamo crescere. Ma ciò non avviene. Nel frattempo la trappola del debito si diffonde. L’austerità serve per ripagare il debito, ma per il momento scarica il prezzo di tale sforzo unicamente sulle spalle dei soggetti più deboli, modifica ulteriormente i già sperequati rapporti sociali, indebolisce il tessuto sociale. Concede nuova linfa al sistema che garantisce i profitti e le rese delle rendite.
Siamo giunti a un punto di svolta epocale? Esistono dei limiti all’attuale modello fondato sulla crescita infinita? Un testo di Mauro Bonaiuti[17] spiega molto lucidamente come si sia aperta un’epoca di «rendimenti decrescenti» in cui la resa del capitale si riduce e i tassi di produttività vanno diminuendo. Società mature che sono cresciute molto riducono il ritmo della loro crescita, fino a far prefigurare una fase transitoria verso modelli inediti di sviluppo. Il problema è complesso e per un’adeguata comprensione si tratta di mettere in moto molteplici approcci interpretativi. Gli stessi tassi di produttività sono importanti, ma non hanno un ruolo esclusivo nello spiegare la crescita. Tra gli ottimisti della tecnologia è stata avanzata una lettura dei processi in cui viene sottolineato non solo il potere innovatore delle nuove tecnologia, ma anche quello di «ricombinazione»[18], cioè la capacità di poter far ricombinare alcune invenzioni dandogli un potenziale innovatore quasi infinito, grazie alle loro capacità polivalenti. Il problema, però, non è di natura tecnica, nessuno esclude che vi sia un futuro di ulteriori innovazioni, quanto se queste saranno in grado di avere effetti economici, stante il quadro statico generale che ho provato a descrivere, un quadro costituito da un panorama sempre più globale, dove non esistono nuove “terre vergini” da colonizzare, dove il turbocapitalismo sembra non riuscire a superare le sue intrinseche contraddizioni. Gli ultimi vent’anni di stagnazione in Giappone non possono certo essere addebitati all’assenza di innovazioni in quel paese. La fine di una civiltà, di un modello socio-economico, non ha necessariamente comportato il blocco dello sviluppo scientifico o l’inibizione del progresso tecnico, piuttosto è stato il prodotto dell’impossibilità di una società di crescere. Queste dinamiche, dunque, non sono riconducibili unicamente a una dimensione eminentemente tecnica, e non esistono soluzioni esclusivamente tecniche. Tale riduzionismo rischia di far scivolare in una sorta di «illusione tecnocratica»[19].
I dibattiti su come far tornare la crescita, invece, nel non prendere in considerazione i deficit strutturali appaiono infiniti e piuttosto inconcludenti. Ogni corrente di pensiero economico avanza le proprie ricette. Taglio delle tasse oppure politiche monetarie ancor più espansive, ulteriori riforme strutturali del mercato del lavoro oppure privatizzazioni e liberalizzazioni. C’è chi la prende dal lato dell’economia reale, dando priorità a un piano di investimenti pubblici per salvaguardare il pianeta oppure per ottenere una ripresa consueta, in entrambi i casi tali come volano per un rilancio complessivo degli investimenti. Idee e progetti già applicati perlomeno da alcuni decenni, benché a vario grado e in forma sempre più spuria. La stessa crisi ha contribuito a rimescolare le carte, fino a far sbiadire il confine netto tra politiche economiche di impronta neo-liberista e neo-keynesiana, confermando una volta di più l’estrema duttilità del capitalismo quando è in forse la sua stessa sopravvivenza. Basti pensare al concetto di «keynesismo finanziario», una specie di ossimoro se guardato con gli schemi ereditati dal pensiero economico tradizionale.
Riassumendo ci si potrebbe chiedere, visto che tutte le ricette finora adottate non hanno condotto alla crescita, perché una loro assunzione in dosi più massicce dovrebbe portare risultati più significativi? È solo un problema di coerenza interna? Se l’indirizzo delle politiche economiche fosse conseguentemente neoliberista oppure neokeynesiano si otterrebbero i risultati sperati? Oppure esistono dei nodi che nelle economie contemporanee non sono risolvibili perseguendo la crescita che è stata perseguita negli ultimi secoli? Non si tratta di inneggiare alla decrescita felice, poiché il termine appare piuttosto fuorviante, poiché perlomeno di una certa crescita il pianeta avrà ancora bisogno, ma di prendere atto che con l’obiettivo teorico della crescita felice da decenni pratichiamo la decrescita infelice. Negli Usa tra i più avveduti che ipotizzano un quadro stagnante di tipo secolare esiste una corrente d’impronta conservatrice che si definisce new normal, secondo cui sarà appunto la normalità con cui dover fare i conti, ovviamente per salvaguardare i privilegi dominanti. Almeno fanno un po’ di chiarezza sul senso storico di marcia. Il problema è come ribaltare tale assunto, evitando che siano i soliti soggetti a pagare il prezzo dello stallo, e come iniziare a pensare percorsi di fuoriuscita strutturale da un sistema che sembra aver già dato il meglio di sé.
*Fonte articolo: http://temi.repubblica.it/micromega-online/crisi-quando-a-crescere-e-solo-la-stagnazione/
NOTE
[1]L’Economist mette in guardia dall’euforia che sta prendendo campo anche in Europa, cfr. The euro-zone revival. Don’t get europhoric, in «The Economist», 11 aprile 2015.[2]Finotto C.A., La ripresa è sempre due passi più in là, in «Il Sole 24 Ore», 14 aprile 2015.
[3]Centro studi Confindustria, Scenari economici. La difficile ripresa, in www.confindustria.it, dicembre 2013.
[4]Ricolfi L., L’enigma della crescita, Mondadori, Milano 2014, pp.20-21.
[5]In Cina il debito pubblico degli Stati Uniti, in «la Repubblica», 16 gennaio 2014.
[6]Husson M., la fin de l’èmergence du Sud?, in www.alencontre.org, 22 marzo 2015.
[7]Deaglio M. (a cura di), Un bisogno disperato di crescere, Guerini, Milano 2014, pp. 25-27.
[8]Blagrave P., Furceri D., Lower Potential Growth: A New Reality, IMF Research department, in www.imf.org, 7 aprile 2015.
[9]Deaglio M., Op. cit., pp. 43-44.
[10]Castells M., La nascita della società in rete, Bocconi editore, Milano 2002, p. 21.
[11]Grazzini E., L’economia della conoscenza oltre il capitalismo. Crisi dei ceti medi e rivoluzione lunga, Codice, Torino 2008, p. XVII.
[12]Ibidem, p. 215.
[13]Keen A., Internet non è la risposta, Egea, Milano 2015.
[14]Anderson C., La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice, Torino 2007.
[15]Keen A., Op. cit., p. 34.
[16]Ross A., Creditocrazia e rifiuto del debito illeggittimo, Ombre corte, Verona 2015, p.174.
[17]Bonaiuti M., La grande transizione, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 98-137.
[18]Brynjolfsson E., Mc Afee A., La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano 2015, pp. 80-98.
[19]Easterly W., La tirannia degli esperti, Laterza, Bari 2015.