Da dove viene la barbarie
L’onda lunga della “guerra globale infinita” continua a provocare le sue vittime. Questa volta a Parigi, dove 132 persone sono morte sotto il fuoco di diversi attentati “jihadisti”. Usiamo le virgolette non per minimizzare il ruolo possibile dell’islamismo politico nella guerra globale o perché non ci convincano le rivendicazioni di Daesh; lo facciamo perché ormai i termini jihadismo, islamismo, terrorismo – oltre ad essere usati comunemente come avessero lo stesso significato – hanno perso un riferimento concreto a soggetti reali, a politiche effettive, per diventare tipi ideali di un discorso ideologico di potere. Il potere di chi vuole controllare la sua guerra infinita.
Le ragioni di fondo, le cause politiche di questi attentati ci sembra possano essere ritrovate in due eventi fondamentali degli ultimi decenni: il ritorno alla guerra come fattore primario della politica estera voluto dalle amministrazioni statunitensi negli anni ’90 e 2000 e la sconfitta delle rivoluzioni arabe di questo decennio.
Qualsiasi sia il giudizio storico e il bilancio che si vuole fare delle guerre statunitensi in quello che loro amavano chiamare Grande Medioriente – e a noi pare un bilancio fallimentare visto la frettolosa fuga dall’Iraq e la continuazione di una guerra senza risultati, se non migliaia di morti, in Afganistan – ci pare evidente che l’epicentro della crescita del terrorismo jihadista e la nascita dello stesso sedicente “Stato Islamico” sia l’Iraq del dopo Saddam Hussein e del dopo invasione statunitense e alleata. Quella guerra, quella invasione e l’occupazione prolungata – senza sbocchi di pacificazione reale nella società irachena – hanno rotto l’equilibrio interno e regionale garantito dalle autocrazie e dittature dell’area senza produrre un nuovo equilibrio stabile.
All’interno dell’Iraq si è così assistito da una parte ad una crescente autonomia della regione curda e dall’altra ad un’egemonia dei partiti sciiti alleati (e sostenuti) dall’Iran, che è in gran parte il vero vincitore della guerra irachena.
Nasce così tra i gruppi sunniti – spesso frutto della dissoluzione delle forze di sicurezza irachene – la stella di Al Qaeda prima e poi, ancora più forte, quella di Daesh. Con una differenza fondamentale: Daesh ha una strategia politica in primo luogo territoriale, che sfrutta con intelligenza per conquistare risorse e per attrarre settori sociali regionali e soggetti da ogni parte del mondo. Non c’è quindi solo terrore in Daesh, ma costruzione di una base territoriale per porsi come soggetto della guerra globale.
Un soggetto però che fa politica soprattutto attraverso il terrore e che colpisce in primo luogo le popolazioni civili e fino ad ora sono soprattutto arabi e musulmani a cadere sotto questo terrore “islamista”. Un terrore con una forte caratteristica mediatica, attraverso una diffusa e sapiente produzione cinematografica e gli appelli a musulmani di tutto il mondo.
La “guerra globale al terrorismo” ha così un nemico nuovo e più credibile, perché più feroce e più capace di proporsi come soggetto mediaticamente efficace, per allargarsi e rilanciare interventi neocoloniali davvero mai terminati.
Alla strategia attendista e meno improntata da velleità interventiste di Obama, che vorrebbe evitare di dover inviare ancora soldati Usa nella regione e allo stesso tempo non manca di sostenere autocrazie e regimi del mondo arabo, si accompagna una politica di guerra mai interrotta da parte dei governi francesi, protagonisti in questi ultimi anni di molteplici interventi diretti in medioriente e nell’Africa del nord.
Guerra imperiale e neocoloniale da una parte e guerra terroristica dall’altra si alimentano e rafforzano a vicenda. E’ lo scontro dei fondamentalismi, lo scontro delle barbarie
Tra parentesi, non ci ha mai convinto la teoria del “cui prodest?” per spiegare eventi come quello di Parigi. Interessante però notare che chi oggi sembra avvantaggiarsi maggiormente da questi attentati siano il dittatore siriano Bashar el Assad e il suo regime e il presidente russo Vladimir Putin: il primo può oggi dichiarare “ve lo avevo detto che sono il vero e unico baluardo contro il terrorismo” e il secondo può gigioneggiarsi di fronte ai leader occidentali richiamandoli all'”unità contro il terrore” a cui li avrebbe già invitati con il suo intervento in Siria.
E’ chiaro invece che anche Assad e Putin sono corresponsabili di questa guerra di barbarie, e la popolazione siriana ne sta facendo le spese da 5 anni.
E la loro strategia, grazie anche al clima di “unità globale contro il terrorismo”, sembra oggi raggiungere importanti risultati, come mostra il probabile accordo tra Putin e Obama sulla “transizione” in Siria. Un’ipotesi che conferma la tendenza ad una soluzione concordata già evidente da almeno due anni, e che viene favorita dall’accordo tra Iran e Usa sul nucleare e dal criminale intervento russo in Siria Altro che “nuova guerra fredda”.
Dicevamo che l’altro evento che spiega in parte quanto si sta muovendo in medioriente e nord Africa è la sconfitta delle rivoluzioni arabe. Quelle sollevazioni, la partecipazione di massa dei settori sociali più poveri e delle/dei giovani scolarizzati e senza futuro nelle stagnanti società governate dalle autocrazie nazionaliste aveva alluso e mostrato l’esistenza di un’alternativa alle stesse autocrazie e al terrore jihadista.
Da una parte l’incapacità dei partiti legati alla Fratellanza musulmana di proporsi come forza egemone ma aperta alla dialettica democratica e dall’altra la reazione controrivoluzionaria dei settori militari (come in Egitto) sostenuti da paesi come l’Arabia Saudita, o delle stesse dittature come in Siria ha chiuso gli spazi – almeno momentaneamente – al radicamento e consolidamento di forze sociali davvero democratiche e rivoluzionarie (laiche o di origine religiosa).
Ancora una volta è interessare guardare alla Siria, che rappresenta il terreno di scontro attuale: in quel caso il governo di Assad sembra essere riuscito persino a scegliersi il nemico, colpendo in maniera pesante la generazione di giovani democratici e tendenzialmente nonviolenti che hanno dato vita alle prime manifestazioni contro il regime (finiti in carcere a migliaia, torturati, scomparsi e molti fuggiti all’esterno del paese), mentre liberava leader e militanti jihadisti, oggi ancora alla guida dei settori islamisti e dello stesso Daesh. Naturalmente queste responsabilità sono accompagnate dalla volontà dei diversi governi della regione di controllarne le dinamiche attraverso la costituzione di gruppi armati al loro servizio (vale per Qatar, Arabia saudita, Turchia, Iran….).
E all’isolamento e indebolimento delle rivoluzioni del mondo arabo hanno contribuito non solamente gli ipocriti governi occidentali, pronti a acclamare le folle che chiedevano libertà, salvo poi schierarsi con transizioni ordinate, reazioni e altre forme di espropriazione della volontà di quelle stesse masse. Responsabilità gravi sono anche quelle di una “sinistra” europea incapace di solidarizzare con quei tentativi rivoluzionari perché troppo occupata a guardare al proprio ombelico e alle proprie certezze eurocentriche (“quelle non sono rivoluzioni, le rivoluzioni non si fanno così e poi non ci sono le condizioni materiali…”) oppure al grande gioco della geopolitica, in base al quale le rivoluzioni possono accadere solamente nei paesi alleati agli Usa, altrimenti sono certamente e oggettivamente al servizio dell’imperialismo.
Per fortuna i/le rivoluzionari/e del mondo arabo non hanno aspettato il via libera di queste sinistre da salotto, ma la mancanza di un sostegno concreto, politico e materiale, nei paesi del centro imperiale ha certamente reso più deboli quelle rivoluzioni – e i settori laici e democratici al loro interno.
Se questi sono le ragioni di fondo della crescita del terrorismo jihadista e della spinta ad una nuova tendenza alla guerra imperiale e neocoloniale – come mostrano anche le dichiarazioni di Hollande e di altri leader occidentali dopo gli attentati di Parigi – non vanno certamente dimenticati anche fattori più interni e di fondo di società in crisi, dove aumenta la frammentazione e la volontà di marginalizzazione sociale; dove il movimento globale delle/dei migranti viene vissuto e trattato come fenomeno di ordine pubblico e quindi spinge a nuove chiusure; dove settori populisti, nazionalisti e razzisti aumentano il loro consenso in particolare tra i settori sociali colpiti dalla crisi dell’ultimo decennio; dove la differenza tra i più ricchi e i più poveri cresce e dove i governi diventano amministratori e garanti di questa differenziazione e stratificazione sociale.
La propaganda fondamentalista si nutre di questa crisi, non è una risposta alla stessa. E la perpetua perché vive della frammentazione e dello scontro. Il terrorismo jihadista non nasce nelle banlieu, e le rivolte nelle stesse periferie urbane non sono il terreno di coltura del terrorismo. Al contrario è nel loro isolamento, nell’incapacità e mancanza di volontà della politica di rispondere a quelle rivolte che chiedono cambiamenti radicali che si crea la frustrazione, la disillusione, il rifiuto di un destino già scritto. E su quelle disillusioni possono far leva i soggetti politici che usano il terrore e il fondamentalismo anche come fattore identitario (individuale e collettivo). Fattore identitatrio che richama anche soggetti non necessariamente appartenenti agli strati sociali più svantaggiati, ma comunque alla ricerca di un loro spazio nella società, giudicando quello che vivono come non sufficientemente accettabile.
Siamo spaventati da questa ondata di terrore, siamo spaventati dalla reazione pavloviana di chi si auto-assolve e ripropone la guerra e l’emergenza come “soluzione”, o meglio come quotidianità della politica, continuazione della guerra con altri mezzi.
Prendiamo per questo in prestito le parole delle/dei compagne/i spagnoli di Anticapitalist@s: “Chiudere frontiere, sospendete le libertà civili, indurire il Codice penale e agitare l’odio razziale è il vero programma del terrorismo. La riproposizione dello stato d’emergenza o i presunti patti antiterrorismo che non affrontano le cause ma solo gli effetti, sono solamente soluzioni cosmetiche di fronte all’opinione pubblica, quando non giri di vite nella spirale globale del terrore.
La solidarietà è la tenerezza dei popoli, non la connivenza con coloro che provocano l’orrore e alimentano la spirale della violenza”
Per questo esprimiamo la nostra solidarietà alla popolazione francese colpita dal terrorismo, così come ribadiamo la nostra vicinanza ai rifugiati e profughi da tutte le guerre e miserie, la nostra complicità con chi lotta per la libertà e la giustizia. Per questo rilanciamo la nostra solidarietà a chi in Medioriente lotta per la libertà, la giustizia, la democrazia politica – ai democratici curdi e siriani, ai palestinesi e ai movimenti rivoluzionari che cercano di resistere alla reazione nel mondo arabo. Per questo crediamo che un nuovo Medioriente e un mediterraneo di pace possano esistere solamente senza regimi dittatoriali, autocrazie e governi militari.
Per questo siamo impegnati a stabilire relazioni dirette, paritarie e dal basso con le donne e gli uomini che da tutto il mondo vengono nei nostri paesi a cercare una vita degna e con loro ci battiamo contro lo sfruttamento e ogni tentazione e politica fondamentalista. Per questo rifiutiamo ogni chiamata all’unità nazionale che viene dai corresponsabili del terrore, dai mercanti d’armi, dai propagandisti dell’emergenza e della guerra.
Per richiamare ancora le parole di Anticapitalist@s, “Contro il l’odio, il terrore, il razzismo e la repressione è necessario rispondere con più democrazia e più diritti, creando comunità, reti sociali vive, aperte e solidali, perché dove c’é società autorganizzata, non c’è margine per l’odio ed il fanatismo (“jhadista” o neofascista)”.
*Fonte: http://www.communianet.org/polis/da-dove-viene-la-barbarie