de Magistris, Ada Colau e la città in comune
Uno degli indiscussi exploit elettorali del primo turno di queste amministrative, è senza dubbio quello del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che ha raccolto il 42% e ben 30mila voti in più del primo turno delle elezioni di 5 anni fa, distanziando centrodestra, Pd e anche Movimento Cinque stelle. Una delle cose più interessanti degli ultimi anni della sua amministrazione è il rapporto dialettico costruito con i movimenti sociali, ispirandosi ad esperienze come quella di Ada Colau a Barcellona. Non a caso la postfazione del libro “Ada Colau, una città in comune” è proprio un’intervista a de Magistris, che ha anche presentato il volume con gli autori due settimane fa a Napoli (nella foto). Di seguito riportiamo un breve stralcio della lunga intervista presente nel libro, proprio dove racconta l’inedito rapporto che si è creato con i movimenti sociali.
Passiamo però anche alle differenze tra voi. Ada Colau proviene dai movimenti sociali, lei era un pm…
È evidente, abbiamo biografie e storie diverse. Ma sono maggiori gli elementi affini che le differenze. Io, come lei, non provengo da partiti e non sono un politico di professione, né mi entusiasmano le forme organizzative tradizionali. Mentre in Italia persino il M5S si sta caratterizzando per rigidità formali e settarismi. Siamo convinti, entrambi, che la centralità dei movimenti sia il motore per un reale cambiamento. Inoltre, altro tassello importante, crediamo entrambi nel radicamento nel territorio e nell’idea di una liberazione che passa per l’appartenenza alla propria terra – a Barcellona del resto è molto sentito l’indipendentismo catalano. Bisogna sprigionare una sana spinta identitaria verso i propri luoghi. Riscoprire l’orgoglio per le proprie radici. Io parlo spesso di “zapatismo napoletano”, sono affascinato dalle esperienze storiche che parlano di liberazione, autonomia, appartenenza e autogoverno: da Che Guevara ai modelli latinoamericani, fino appunto allo zapatismo.
I movimenti popolari a Barcellona si sono posti il problema delle istituzioni. Una volta al governo hanno deciso di abbattere la dicotomia privato/pubblico aprendo alla categoria del “comune”. È d’accordo con questa impostazione?
Durante il mandato da sindaco ho già attaccato il “privato” senza ricadere nella retorica del pubblico e nelle imposizioni originarie di tipo veterocomunista. Siamo l’unica città d’Italia che ha attuato il referendum sull’acqua pubblica aprendo all’idea del “comune” e trasformando una società per azioni in una società di diritto speciale. Siamo andati in controtendenza rompendo sia il processo di svendita dei diritti costituzionali – quel processo di privatizzazioni selvagge tipico delle politiche liberiste – che le commistioni tra il pubblico e l’oligarchia. Abbiamo lavorato per l’autogoverno, l’autogestione, le proprietà collettive democratiche e il bene comune. Scelte condivise con esperienze di assemblee popolari. Senza imposizioni dall’alto, con una grande capacità di ascolto dei cittadini che animano i quartieri: siamo entrati in connessione con loro, dialogando e arrivando a produrre delibere comunali nelle quali si sanciscono gli usi civici e gli affidamenti di beni pubblici a soggettività territoriali. Mi spiego meglio: se gruppi di cittadini – associazioni, movimenti, studenti, precari, disoccupati – occupano posti vuoti, privati o pubblici che siano, per prassi viene richiesto lo sgombero. Noi invece abbiamo sovvertito il dispositivo: chi si prende cura di beni privati che sono stati abbandonati – e ricordiamo che l’articolo 41 della Costituzione tutela la proprietà privata soltanto se non è in contrasto con l’utilità sociale – è legittimato a farlo perché compie un’azione di riappropriazione. Il mio è un atto rivoluzionario.
Lei è uomo di legge, ex pm. Non compie una violazione del codice penale tutelando un’occupazione abusiva? Secondo lei, in questa fase storica, si può distinguere tra legalità e legittimità?
Noi abbiamo procedimentalizzato un percorso di liberazione popolare. La nostra delibera è innovativa proprio perché si è andati oltre la tolleranza dell’occupazione, siamo alla legalizzazione – in senso costituzionalmente orientato – di un processo politico. E la stessa Costituzione non vive esclusivamente di leggi ma anche di prassi, comportamenti, condotte e atti amministrativi. Il diritto deve coincidere sempre di più con la giustizia, e la legge se è illegittima va denunciata, così come l’uso illegittimo del diritto o l’abuso di potere dell’ordine costituito. A Napoli stiamo provando a dare dignità alla nostra Carta costituzionale e con la delibera sull’ex Asilo Filangeri – occupato da lavoratori e lavoratrici della cultura e dello spettacolo – ci siamo rifatti a un principio costituzionale basato sull’importanza del profitto sociale: se in un luogo abbandonato sorge un laboratorio teatrale, una palestra popolare o un campetto sportivo si esercita un’attività con una valutazione economica. Abbiamo ribaltato l’idea liberista, e mercificatoria, secondo cui una cosa ha valore solo se si realizza uno scambio di moneta. Quegli spazi producono servizi e socialità dal basso, per questo bisogna legittimare forme di cogestione. Inizialmente magari si tratta di atteggiamenti di resistenza al sistema ma poi si tramutano in governo della città, in modo propositivo, con potere e responsabilità diffuse.