Decreto Bankitalia, miliardi regalati alle banche
Come già accaduto nel recente passato, con il decreto salva Roma contestato persino dal Presidente della repubblica, il governo ci sta abituando a proporre decreti-contenitori dentro i quali si trovano materie molto eterogenee tra loro. Il decreto Imu-Bankitalia, come si può facilmente comprendere dal suo stesso nome, racchiude materie prive di un nesso. Si utilizza poi lo spauracchio di far tornare l’intera tassa sulla prima casa per far approvare al contempo un provvedimento di ricapitalizzazione della Banca d’Italia, tutt’altro che innocente. Le proteste parlamentari su tali modalità sono ineccepibili. Mentre le scelte d’ordine a cui sottopone il Parlamento la presidente Boldrini, con una procedura mai utilizzata prima d’ora e definita in maniera illuminante «ghigliottina», per interrompere l’ostruzionismo parlamentare, servono a far approvare d’urgenza questo provvedimento-minestrone.
Per comprendere la natura a-democratica delle riforme elettorali in predicato in questi giorni, è sufficiente contestualizzare procedure parlamentari di tal genere, all’insegna della fattiva costruzione di istituzioni separate dalla società, autonome dal dibattito e dal confronto pubblico, all’insegna della volontà di non disturbare il manovratore.
Con l’approvazione del decreto viene autorizzato l’aumento di capitale della Banca d’Italia per un valore di 7.5 miliardi di euro. Questa operazione è resa possibile attraverso l’utilizzo delle riserve valutarie di Banca d’Italia, cioè di denaro conservato dalla nostra ex banca centrale. Assieme a tale ricapitalizzazione vengono approvate alcune norme per impedire l’accentramento della proprietà di Banca d’Italia, consentendo l’acquisto di quote in via temporanea. Per favorire i limiti di partecipazione, si regolamenta la distribuzione dei dividendi annuali e si specificano meglio i soggetti autorizzati a detenere quote della Banca d’Italia stessa. In effetti non tutti sanno che la nostra vecchia banca nazionale ha avviato un processo di snaturamento e privatizzazione che risale al 1981, quando con il famoso divorzio tra Tesoro e Banca centrale fu impedito a quest’ultima di acquisire direttamente titoli di Stato, cioè di essere prestatore di ultima istanza. Da lì il cambio di proprietà, la vendita della gran parte delle quote al sistema bancario e la riduzione fino al 5% della quota-parte in mano a enti pubblici. Tutto ciò nel pieno della sbornia liberista che teorizzava come una banca centrale sottratta al controllo politico fosse maggiormente autonoma. Formalmente anche altre banche centrali sono diventate enti privati in quegli anni, anche se tale status appare piuttosto relativo proprio quando si tratta di nominarne i vertici. I mercanteggiamenti che ne vengono fuori coinvolgono tutte le autorità politiche corrispondenti. Ricordate le dispute e le scelte assunte con il bilancino in Europa quando doveva diventare presidente della Bce Mario Draghi?
Insomma da un lato si va incontro a richieste europee sul profilo che dovrebbero possedere le rispettive banche nazionali e dall’altro si effettua un’operazione contabile che ha delle ricadute concrete significative per il sistema bancario italiano. In quanto è da considerare che tra i proprietari della Banca d’Italia ci sono proprio le banche italiane e per la precisione i soli due principali istituti, Intesa e Unicredit, posseggono quote per oltre il 50%. Con tale ricapitalizzazione esse vedrebbero rinforzare la loro patrimonializzazione immediata, ai fini di fronteggiare i requisiti richiesti dalla Bce, anche se poi dovrebbero probabilmente vendere una parte considerevole delle loro quote. Tale operazione, dunque, verrebbe incontro a necessità immediate del sistema bancario nazionale. Qui sta il cosiddetto regalo alle banche.
Ma non solo, l’entrata di nuovi soggetti finanziari, prevista dal decreto, frammenterebbe la proprietà, lasciando inalterati i problemi. Allargare la schiera dei soggetti coinvolti, altre banche, assicurazioni, persino fondi pensione, non aumenterebbe la garanzia sulle funzioni di regolatore e vigilanza proprie della Banca d’Italia. Risulta paradossale come si possa ipotizzare che aumentando la platea dei controllati coinvolti nella proprietà del controllore possa aumentare l’indipendenza nei controlli.
Da tutta questa operazione ne consegue un rafforzamento dei processi all’insegna della privatizzazione. Nel decreto si garantisce che non verranno elargiti dividendi sulla base dell’attività di signoraggio (quando si stampa moneta), ma una banca nazionale può avere utili anche per l’acquisto di titoli di stato, dove finirebbero? E soprattutto risulta evidente come un istituto quale la Banca d’Italia ha nelle sue facoltà di acquistare titoli di stato nei periodi acuti di crisi del debito sovrano semplicemente perché porta con sé le garanzie dei contribuenti e non certo quelle dei soggetti privati che partecipano alla proprietà. Oppure, le riserve valutarie e di oro italiane la Banca d’Italia le custodisce, ma non ne è titolare, come si coniuga concretamente questa non sottile differenza? Misteri di una filosofia fondata sull’uso a vantaggio del privato delle proprietà e garanzie pubbliche.