Del maiale nostrano non si butta via nulla, neanche il razzismo
Un paese offeso nella carne. L’Italia – e in misura meno colorita l’Europa tutta – sta combattendo una guerra sul filo delle setole del porco. I musulmani ci stanno invadendo, dicono giornali e Tv, portando con sé una capricciosa idiosincrasia per il nostro alimento principe, la summa di tradizione e storia, il concentrato in sugna della nostra laicità: il maiale, appunto. Da lì alla sostituzione etnica è un attimo.
A smontare i meccanismi di questa fiction divenuta narrazione mainstream è Wolf Bukowski, studioso appassionato e feroce dei falsi miti assurti a verità identitarie, che ne La santa crociata del porco (ed. Alegre, in libreria dal 15 giugno) ricostruisce con rigore e corpose fonti storiche l’origine della retorica alimentare con cui combattiamo la nostra battaglia.
Bukowksi, già autore de La danza delle mozzarelle, dove ad essere squagliata era la “bufala” delle provenienze, dei Doc e dei Dop che nasconde gli interessi della grande distribuzione cioè del capitale, in questo nuovo saggio smonta le pretese di superiorità dell’Occidente sopravvissute al colonialismo, da cui scaturisce il razzismo dell’epoca delle migrazioni, e lo fa sul filo materialista e storico di ciò che mangiamo. Ragguardevoli le fake news. Quelle presentate come masnade in arrivo sulle nostre coste che ingrate si rivoltano contro la mano che le sfama rifiutando il cibo, in realtà erano profughi che protestavano in modo non violento contro la somministrazione coatta di maiale. La rimozione di una giostra a forma di maiale in un asilo di Rovereto fu salutata dai media come il segno dell’avvenuta islamizzazione delle scuole, mentre dipese dal fatto che era pericolosa, non suinamente ma nel modo in cui era stata montata.
Inarrestabile la demenza: un membro del partito del primo ministro ungherese Orban propose su Twitter, tra migliaia di like, di disseminare la frontiera di teste di maiale come “disincentivo” per le orde fuggite alle guerre, agli omicidi e agli stupri e che impaurite dall’orrida frattaglia sarebbero tornate “a casa loro”.
Altro luogo comune della psicosi islamofoba è la macellazione rituale halal, che desta preoccupazione in persone che accettano di buon grado i mattatoi industriali. A cui si è aggiunta l’ossessione mercatista per l’alimentazione degli ebrei spacciata per una specie di moda da ricchi.
“Il tabù alimentare non è un residuo arcaico e oscuro penetrato clandestinamente nel contemporaneo, come credono i razzisti”, dice Bukowski. “Vive nella storia, attraversa la storie individuali, e dell’una e delle altre assume anche incoerenze e incertezze”. Oltre il tabù, si sta procedendo in Occidente alla “creazione del consumatore ebreo o musulmano a opera della grande distribuzione”. Noi non lo sappiamo, ma mangiamo kasher già da tempo: la Galbani certifica la mozzarella Santa Lucia come kasher. La kasherut non è bio, non è No-Ogm, né a chilometro 0, né Doc o Dop, come cerca di far credere l’industria e i media a rimorchio. La Coca Cola è kasher dal 1930. La Nabisco, che produce i biscotti Oreo, diventò kasher negli anni Settanta per evitare che i biscotti, fatti con lo strutto, finissero nel gelato Oreo (ma solo negli stabilimenti dei Paesi anglofoni. Nel 2015 Nibisco ha delocalizzato gli stabilimenti in Messico, e addio kasher).
È una crociata che si abbatte su una sola classe, quella dei poveri, condotta trasversalmente, non solo dai razzisti. E ingenera cortocircuiti oziosi: conquistati 12 comuni francesi nel 2014, Marine Le Pen minacciò di servire carne di maiale in tutte le scuole di Stato. Non lo farà; lo farà invece un sindaco del partito di Sarkozy, in nome della laicità. Il maiale e il vino come “valori non negoziabili” della Repubblica.
In realtà, spiega Bukowski, mangiare maiale è un condizionamento del cristianesimo , dunque per nulla un atto “laico”. Questa finta opera di laicizzazione del credente maschera una sua trasformazione in consumatore. Ancora una volta, ma in forma di farsa come previsto da Marx, non è la Ragione, ma la legge della Struttura, il Mercato, a fagocitare le Sovrastrutture e i principi delle comunità. Quel che non vogliamo vedere, conclude Bukowski nell’ultima, dolorosa parte dedicata agli allevamenti industriali, sono i tre milioni di maiali sgozzati e appesi ogni giorno, un miliardo e cento milioni l’anno; e ricorda La giungla di Upton Sinclair, romanzo del 1906 in cui il destino di maiali e operai di un macello di Chicago (modello “tecnico” dei campi di sterminio) era lo stesso: quello di concorrere alla lubrificazione della macchina del profitto.