Dopo mezzo secolo di attesa, un nuovo ciclo
Poi è stata la volta della Turchia, del Brasile, della Bulgaria e di nuovo della Grecia. Solo dopo gli scontri sociali e politici avvenuti con le rivoluzioni tunisina ed egiziana. E dopo le manifestazioni di massa contro l’austerità in Italia, Portogallo e Spagna. Dopo il maggio del Quebec, le mobilitazioni anti Putin in Russia e altre ancora in altre parti del mondo. Sulla scala di un istante storico non si è data più la desincronizzazione ma la quasi-simultaneità. La pentola è in subbuglio: tanto meglio.
I più vecchi ricorderanno che dopo le settimane del maggio ’68 avevamo identificato (evidentemente a posteriori) l’esistenza di un grumo di lotte annunciatrici, dallo sciopero generale belga dell’inverno 60-61 passando per l’America latina guevarista, dalla primavera di Praga ai movimenti studenteschi dell’Europa dell’ovest, agli scioperi operai della Francia del 1966. Come una eruzione di lava prima dell’esplosione francese, prima dell’avanzata spettacolare delle lotte di liberazione, prima del lungo scontro sociale in Italia, gli sciopero di massa in Messico, Senegal, Giappone, Stati Uniti, ma anche la rivoluzione portoghese dopo la fine del franchismo. Una crisi globale dell’imperialismo e dei suoi equilibri sociali nei paesi a capitalismo avanzato: una crisi delle sue forme di dominazione nei paesi post-coloniali così come una crisi rurale. Lotte ultra differenti in contesti politici disparati ma nondimeno un istante storico unico che non giungeva per caso. Perché?
Gli anni 60 erano già stati segnati, a seconda del paese e dei continenti, da diverse dinamiche di fondo. Massificazione e concentrazione operaia, nascita di un nuovo proletariato industriale, forte aumento dei livelli di qualificazione e cultura. Massificazione della gioventù studentesca che superava d’ora in poi il perimetro sociologico delle classi agiate. Esodi rurali e ingrandimento delle città…Questi fenomeni – a gradi diversi – attraversavano da parte a parte la distinzione “paesi imperialisti contro paesi dominati”. Una parte di queste trasformazioni erano dovute all’accelerazione dello sviluppo combinato, alla trasformazione dei mercati e delle tecniche, all’inesorabile avanzata planetaria delle merci fin dentro le campagne tradizionali e fin dentro le economie staliniane. Lotte molto diverse l’una dall’altra, senza alcun dubbio, ma aventi in comune questa porzione di cambiamenti sociali dovuti a quel piccolo quarto di secolo del nuovo paradigma capitalista. Dietro i fatti si esprimeva, nella profondità di tutte quelle società, la trasformazione delle loro formazioni sociali con qualche punto in comune sul lato del proletariato industriale e delle fasce urbane piccolo-borghesi in corso di massiccia salarizzazione. Non era semplicemente una convergenza fortuita. Nemmeno una semplice emulazione reciproca.
E oggi? Le condizioni generali della lotta di classe, dopo le sconfitte colossali della mondializzazione finanziaria e della costruzione ultra-liberista dell’Europa, sono incommensurabilmente più difficili che 45 anni fa. Una formula intellegibile di un’alternativa sistemica è praticamente annientata, almeno per ora, a causa in primo luogo dell’affossamento del socialismo “reale” (che però risale a 25 anni fa!) e soprattutto a causa delle imposizioni e della scala di problemi che la mondializzazione capitalista impone a chiunque si ponga seriamente sul terreno incerto di una transizione post-capitalista. Siamo davanti a una mutazione interna del capitalismo, equivalente nelle questioni teoriche e pratiche a quello che fu il rivolgimento nell’era imperialista di inizio XX secolo e del quale sappiamo che fu alla base di 25 anni di dispute teoriche e di pratiche politiche antagoniste.
Ma la vecchia talpa rivoluzionaria non attende. Finisce sempre per riemergere qui e là, improvvisamente e magari ancora più in là. In tale situazione, la prima domanda da porsi è sapere se, al di là dell’esasperazione sociale dovuta alle politiche liberiste, si esprima o meno una qualche dinamica di trasformazione sociale. E’ solo la preponderanza dell’aleatorietà che ci pone di fronte a simili simultaneità? E in questo caso, resteremo soggetti alla volatilità delle resistenze sporadiche. Oppure c’è una parte obiettiva, strutturale che ci collocherà di fronte a un’agenda completamente nuova? In altre parole, la contabilità delle lotte può restare troppo impressionista se non è condotta fino in profondità del suo substrato sociale.
Soprattutto perché molte questioni ne discendono in termini di azione politica, di inserimento nel movimento spontaneo delle lotte, così come negli aspetti programmatici. Lo stesso tipo di questioni si pose negli anni 60 tra coloro che si mostravano più o meno capaci di integrare “il nuovo” e quelli che restavano accampati irragionevolmente su analisi nostalgiche della formazione sociale. Si potrebbe anche (ma non ho questa indulgenza) catalogare dentro quest’ultima categoria la posizione degli stalinisti che giudicavano il movimento studentesco come composto da figli e figlie della borghesia (…)
Non escludo dunque che ci si trovi in un periodo identico di maturazione di un nuovo dato sociale. Da 25 o 30 anni, le nostre società sono sotto pressione, non solo delle politiche liberiste ma di una modificazione abbastanza profonda delle formazioni sociali. Da un lato un impoverimento molto grande ma dall’altro un maggiore inserimento di numerose professioni nella complessità produttiva e cognitiva del mondo e una parte grandissima di compiti intellettuali all’interno del lavoro produttivo. E malgrado questa polarizzazione sociale interna al lavoro salariato, una estensione della precarietà, una proletarizzazione crescente delle qualifiche intermedie e anche superiori. Tutte cose che modificano l’equazione interna delle classi lavoratrici che spostano la linea di demarcazione tra coloro che non avrebbero “da perdere che le loro catene” e una supposta aristocrazia del lavoro salariato.
Questo giudizio mi sembra più razionale di quello che generalmente si ascolta sulla composizione sociale delle manifestazioni di Mosca contro Putin o delle manifestazioni anti-islamiste al Cairo o a Tunisi e anche di una parte delle manifestazioni europee a Madrid o a Lisbona: classi “medie” arrabbiate perché minacciate a loro volta dalla crisi e dunque più reattive sulla democrazia e l’ambiente che sui meccanismi di sfruttamento. Non condivido questa diagnosi. La nozione di classe media è un trucco mediatico-sociologico per aggirare il problema degli spostamenti interni in seno al proletariato da 25 anni in qua; problema serio che non è riducibile alla stratificazione dei redditi (anche se la questione del patrimonio immobiliare è un fattore importante di differenziazione) ma che, in realtà, deve integrare il fatto che la catena della produzione di valore include (e non poco!) fasce altamente qualificate del lavoro salariato.
Quest’ultimo si è incontestabilmente allargato. La diversità delle situazioni di messa al lavoro da parte del capitale porta a un elevato grado di eterogeneità delle esperienze e dei modi di vita. Ma il capitalismo della mondializzazione finanziaria fa nascere nuove contraddizioni tra sé e questa massa di salariati per quanto diversa, che questo accada sulla distruzione del vivere comune, sulla cupidigia di una ristretta minoranza, sulla democrazia e sull’ambiente. In più, non penso che l’artista, il medico, l’attore, l’architetto…l’astrofisico, che si mettono in gioco manifestando davanti a una Tv russa o greca per denunciare una tirannia qualsiasi, siano solo degli alleati effimeri e piccolo-borghesi. Le nostre società, in Brasile, in Egitto o in India, si sono gonfiate di tutti questi mestieri, di tutte queste categorie, esse stesse massificate, se si può dire così.
Si comprende peraltro che l’esplosione turca, ad esempio, non ha come solo motivo la difesa di un urbanizzazione specifica al centro d’Istanbul. Anche queste scintille di violenza esprimono una parte della frustrazione sociale e politica abbastanza differente da quella che si poteva conoscere due generazioni fa. Anche una parte delle professioni, cosiddette liberali, è oggi coinvolta dal vortice della finanza e delle multinazionali. Non necessariamente salariata ma soggetta alle follie del sistema e cosciente delle sofferenze generali. Comparando ciò che è comparabile, diciamo che non è più lo stesso mix sociale che tende a scontrarsi con i governi. Da qui, occorre porre le questioni programmatiche in modo diverso.
Soprattutto perché, in questa epoca di estrema tensione sociale e di violenza latente, non è escluso che una parte del proletariato, la più impoverita, si sposti sempre più ai confini della destra autoritaria, razzista, integralista, reazionaria, vittima di un accecamento nostalgico di un passato che non tornerà più.
La maturazione di una situazione esplosiva può essere il risultato della maturazione di una nuova equazione sociale. Per comprenderne la meccanica, occorre verificarne le cause profonde nell’evoluzione delle classi sociali. E per poco che si ritrovino fatti analoghi ai quattro angoli del pianeta, in vecchi paesi industrializzati come nei paesi più specifici, allora forse abbiamo tutti gli ingredienti di una nuova epoca di lotte.
Va anche sottolineata, nella predisposizione dell’analisi sociale, l’assenza di qualsiasi spazio riformatore nel senso di un progresso compatibile con i dispositivi del capitale. Oggi, la minima riforma sociale progressista, che era ancora fattibile trent’anni fa, non lo è più. Per due ragioni: il peggioramento continuo dei rapporti di forza permette per ora al capitale di esigere tutto e di ottenerlo nella pratica, in particolare nell’estensione del dominio delle merci; il sistema è divenuto talmente fragile che il suo equilibrio instabile non può produrre il minimo compromesso con una politica neo-keynesiana. Il che significa che la “riforma” ha bisogno di un braccio di ferro immediato con il capitale che può arrivare fino allo scontro sociale su questioni come le pensioni o i servizi pubblici (vedi il caso del Brasile). La socialdemocrazia è dunque irreversibilmente costretta a un’impasse, almeno quella il cui credo è governare senza frizioni particolari con il capitale. Quello che poteva essere, trent’anni fa, un fattore specifico della semplice “volontà politica” di un governo socialdemocratico, è ormai un’ipotesi di riforma radicale che richiede l’intervento di massa della piazza. Non è semplicemente la convergenza (necessariamente ineguale) di formazioni sociali che occorre valutare ma anche l’incapacità d’ora in poi mondializzata del capitale di sostenere politiche di compromesso. In una certa misura il sistema ha globalizzato i suoi divieti favorendo così l’esistenza di caratteristiche comuni negli scontri parziali che siano in Egitto, Brasile, Francia o Turchia.
Anche se siamo sempre nel periodo in cui occorre contenere il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà…non è dunque più escluso che stiamo per avvicinarci a un nuovo passaggio. L’ottimismo allora non poggerebbe più sulla semplice constatazione che i popoli hanno ancora la capacità di rivoltarsi ma sul fatto che questa rivolta affonda in una nuova configurazione tettonica delle classi sociali, nella riorganizzazione interna delle classi oppresse, nella possibilità di una accensione del conflitto da parte di nuovi strati urbani. Nell’incontro tra rivendicazioni sociali ed ecologiche; nell’importanza ritrovata delle rivendicazioni democratiche, “istituzionali”, anti-corruzione. Così, la primavera araba non sarà stata possibile se non per il fatto che socialmente queste società erano cambiate nel corso degli ultimi 30 anni. Ma non è questo il caso anche dell’Europa? E non ci spinge a rivedere il nostro “corpus” rivendicativo?
Tra maggio ’68 e oggi sono trascorsi 45 anni. Mentre la generazione del ’68 sta per scomparire, non si è avuto al momento alcun grande scontro sociale in grado di giocare un ruolo di rifondazione politica e dunque favorire un balzo generazionale. Nel momento in cui il movimento sindacale e politico sono da ricostruire interamente manca una deflagrazione capace di proiettare sulla scena politica non solo il nuovo mix sociale di cui abbiamo parlato finora ma anche la sua espressione militante, necessariamente “giovane”. Il rinnovamento ha bisogno di questa esplosione rifondatrice. Auguriamocela.
La domanda è dunque di analizzare il tempo presente e di domandarci se siamo i testimoni o meno dell’arrivo a maturità conflittuale di una nuova combinazione sociale. Due cose sembrano acquisite. La messa in tensione violenta delle nostre società non cessa di crescere. E la parte delle esigenze democratiche, anti-oppressive (donne, omosessualità), ecologista, si afferma sempre più, il che, aggiunto alle aspettative sociali immediate, favorisce una “intuizione” rivendicativa sistemica.
Articolo tratto da Europesolidaire.org. Traduzione del megafonoquotidiano