Ferracuti racconta l'”Italia reale” e quella operaia
Il lavoro e la cultura in un momento in cui il primo è negato come diritto fondamentale e la seconda ridotta a merce o, peggio, annichilita dall’ignoranza di massa.
Sono loro i protagonisti de I tempi che corrono di Angelo Ferracuti (edizioni Alegre, pagg. 218, euro 15), una raccolta di reportage che abbracciano l’arco di un lustro e mezzo, dal 2006 a oggi. Pubblicati su diversi giornali — Diario della settimana, Gente viaggi, il manifesto, Rassegna sindacale, Il Reportage – essi raccontano l’Italia di oggi con un pizzico di nostalgia per quella di ieri, ciò che resta della cultura operaia e gli ultimi intellettuali legati a quel mondo, a partire dal poeta metalmeccanico Luigi Di Ruscio, fermano come lui. Un autore poco ricordato che ora Feltrinelli si appresta a riscoprire pubblicando una raccolta dei suoi romanzi, con la prefazione proprio di Angelo Ferracuti.
Chi conosce quest’ultimo, dai suoi articoli su questo giornale o avendo letto il suo ultimo romanzo Il costo della vita (Einaudi 2013) sulla tragedia operaia della Mecnavi di Ravenna, sa bene come il tono dei suoi reportage sia narrativo tout court, proprio degli scrittori prestati al giornalismo e non viceversa. In essi giornalismo e letteratura trovano un miracoloso equilibrio nella «verità» delle storie che raccontano. I protagonisti sono spesso lavoratori: a loro Ferracuti dà voce, come quando la Tod’s di Diego della Valle è lasciata raccontare all’operaio Guerriero Rossi. In altri casi vengono ritratti personaggi del mondo della cultura: Pierpaolo Pasolini è raccontato attraverso una mostra voluta da Laura Betti alla Cineteca di Bologna; il fotografo Mario Dondero attraverso alcune scorribande giornalistico-letterarie, Bertolt Brecht è rievocato in una visita alla sua casa.
Il filo rosso che unisce tutti i reportage è l’«Italia reale» del lavoro negato o ancor più maltrattato — come nella vicenda dell’ecatombe nascosta e silenziosa all’Isochimica di Avellino, provocata dall’amianto — con un velo di rimpianto per quell’epoca in cui la classe operaia poteva vantare una sua aristocrazia e sognare di andare in paradiso. In questo senso, Ferracuti è il degno epigono di quella «letteratura industriale» così bene rappresentata da un suo conterraneo illustre, non a caso più volte citato: Paolo Volponi.
Oggi che non esistono più imprenditori illuminati come Adriano Olivetti — presso il quale Volponi lavorava — si affacciano alla finestra avventurieri del capitale come Biagio Maceri. Quest’ultimno era il titolare di un materassificio clandestino in uno scantinato senza finestre di una scuola elementare a Montesano, un paesino del salernitano. La fabbrichetta prese fuoco alla vigilia della finale del Mondiale di calcio del 2006 e nel rogo perirono due donne che vi lavoravano al nero per appena due euro all’ora. Una di queste aveva appena 15 anni. Ferracuti racconta la vittoria della Nazionale di calcio dal paese in lutto per le vittime, con una gran trovata giornalistica e allo stesso tempo letteraria. La Grande Crisi era ancora alla vigilia, ma ne ritroviamo qui tutte le avvisaglie. Quell’esplosione di gioia e i tricolori al vento non erano il segnale della riscossa italiana come qualcuno volle credere, bensì l’urlo scomposto di un paese sull’orlo di una crisi di nervi.