Fine di un ciclo in America latina?
Un ciclo di media durata, sociale, politico ed economico, sembra esaurirsi a poco a poco, pur se non in maniera uniforme e assolutamente non lineare. Pur con i loro progressi reali (ancorché relativi), le loro difficoltà e i notevoli limiti, le esperienza dei vari e diversi governi “progressisti” della regione, siano essi processi di mero centro-sinistra, social-liberisti o – al contrario – nazional-popolari più radicali, che si proclamano antimperialisti o vengono screditati in ambienti conservatori come “populisti”, siano rivoluzionari bolivariani, andino-amazonici o “cittadini”, oppure semplici ricambi istituzionali in senso progressista, questi processi politici sembrano urtare contro grandi problematiche endogene, reali poteri forti conservatori (sia nazionali sia globali) e non poche indefinitezze o dilemmi strategici irrisolti.
Indubbiamente, nei paesi in cui si sono consolidate varie e schiaccianti vittorie elettorali di forze di sinistra o antiliberiste, soprattutto nelle nazioni in cui questa vittorie sono frutto di anni di lotte sociali e popolari (come in Bolivia) o di una rapida politicizzazione-mobilitazione di chi sta in basso (ad esempio in Venezuela), lo Stato e le sue regolamentazioni, lo sviluppo economico interno, la lotta contro la povertà estrema grazie a specifici programmi di redistribuzione e l’istituzionalizzazione di nuovi servizi pubblici, hanno via via guadagnato terreno: una differenza considerevole e in alcun modo disprezzabile, rispetto al ciclo infernale delle privatizzazioni, della frammentazione e della violenza della disgregazione capitalista neoliberista degli anni Novanta. Là, è ricomparso il potere pubblico come ente regolatore del mercato nazionale, redistributore in parte delle rendite estrattive e delle ricchezze del sottosuolo in favore dei/delle pauperizzati/e, con effetti diretti e immediati per milioni di cittadini/e; un processo che spiega in parte la solidità della base sociale ed elettorale di queste esperienze, fino ad ora (e in alcuni casi dopo oltre 10 anni di governo). Per la prima volta –ormai da decenni – vari governi “post-neoliberisti”, a partire dalla Bolivia, dall’Ecuador e dal Venezuela, hanno dimostrato come fosse possibile cominciare a riprendere il controllo delle risorse naturali, facendo arretrare al tempo stesso povertà estrema e diseguaglianze sociali, grazie a riforme per l’inclusione di vasti settori popolari, fino ad allora emarginati rispetto al diritto di decidere, esprimere opinioni e soprattutto partecipare. È rinato inoltre, negli immaginari geopolitici continentali, il sogno di Bolívar, sono rinate le iniziative di integrazione regionale alternativa e di collaborazione tra i popoli (ad esempio, l’ALBA-TCP), cercando di recuperare spazio di sovranità nazionale di fronte alle grandi potenze del Nord, all’imperialismo militare e alle nuove caravelle costituite dalle multinazionali o dalle imposizioni unilaterali delle istituzioni finanziarie mondiali.
In un momento in cui il vecchio mondo e i popoli dell’Unione Europea sono sottoposti alla dittatura finanziaria della trojka (FMI, CE e BCE) e si trovano in profonda crisi economica, politica e anche morale, è importante porre in rilievo la capacità che hanno avuto vari movimenti popolari e capi della “Nostra America” di resistere e ricostruire multilateralismo, di rendere la democrazia democratica e anche di reinventare la politica, con progetti concepiti come alternative per il XXI secolo. Seun paese come la Grecia prova a tirar fuori la testa di fronte ai colpi del debito e delle classi dominanti europee, se molti lavoratori, giovani e collettivi di quella parte del mondo ricercano percorsi di emancipazione, molto ci sarebbe da imparare dall’America Latina, dalla sua traumatica esperienza del fondamentalismo capitalista neoliberista e dalle sue eroiche prove per contrastarlo a partire dal Sud del sistema mondo.
Ciononostante, come dichiarava agli inizi del 2015 il teologo e sociologo François Houtart, segretario esecutivo del Forum Mondiale d’Alternative, la sfida di fondo – specie per paesi che più hanno suscitato aspettative di cambiamento – continua ad essere la definizione di percorsi di profonda transizione a un nuovo paradigma di civiltà postcapitalista. Si tratta cioè di non rimanere soltanto ancorati a un obiettivo di modernizzazione post-neoliberista, e ancor meno rinchiusi in un neo-sviluppismo assistenzialista o nel tentativo di riassetto tra crescita nazionale, borghesie regionali e capitali stranieri: significa puntare alla trasformazione dei rapporti sociali di produzione e delle forme di proprietà. Indubbiamente, si tratta di un compito enorme e arduo. In questa prospettiva, e nell’attuale momento storico, nonostante i progressi democratici conquistati[i] al prezzo di sangue e sudore, emergono le molteplici tensioni e i limiti dei vari progressismi dell’America Latina o, meglio, della fase apertasi agli inizi del 2000 nella lotta contro l’egemonia neoliberista.
Un intellettuale – attualmente statista – come Álvaro García Linera presenta queste tensioni (in particolare tra movimenti e governi) come potenzialmente “creative” e “rivoluzionarie”, come esperienze necessarie per avanzare gradualmente in direzione di un “socialismo comunitario”,[ii] tenendo conto dei rapporti di forza geopolitici, politici e sociali realmente esistenti (e, sia detto di passata, disprezzando senza troppe argomentazioni come “infantili” tutte le critiche che possano provenire da sinistra…). All’interno di un simile orientamento, la conquista elettorale del governo da parte di forze nazional-popolari è vista come una risposta democratica – e “concreta” – all’emergenza plebea degli anni Novanta-Duemila, e lo Stato è considerato strumento essenziale di “amministrazione comune” di fronte al regno della legge del valore e alla dissoluzione anomica neoliberista. In tale difesa di quanto conquistato a partire dai vari progressismi governativi, molto spesso analizzati come un tutto omogeneo, ci imbattiamo anche nella penna di rinomati intellettuali quali Emir Sader e dell’educatrice popolare e sociologa cilena Marta Harnecker.[iii]
Malgrado questo, non pochi militanti sul campo, alcuni movimenti e analisti critici con visioni politiche pluraliste (ad esempio, Alberto Acosta e Natalia Sierra in Ecuador, Hugo Blanco in Perù, Edgardo Lander in Venezuela, Maristella Svampa in Argentina o Massimo Modenesi in Messico, tra gli altri) insistono sulla dimensione sempre più “conservatrice” delle politiche statuali del progressismo o del nazionalismo post-neoliberista (dall’Uruguay al Nicaragua passando per l’Argentina),[iv] incluso nel loro carattere di “rivoluzione passiva” (in senso gramsciano), ovverosia: una trasformazione “nelle alture” che modificherebbe effettivamente gli spazi politici, le politiche pubbliche e il rapporto Stato-società, ma che va integrando – e alla fine neutralizzando – l’irruzione di chi sta in basso nelle reti istituzionali, organizzando un brusco riassetto all’interno delle classi dominanti e del sistema di dominazione, frenando la capacità di auto-organizzazione e di controllo dal basso delle popolazioni mobilitate.[v] Viste così le cose, la “cattura” dello Stato ad opera di forze progressiste può significare la cattura della sinistra… da parte delle forze dello Stato profondo, la sua burocrazia e gli interessi capitalisti che rappresenta; viste le cose così, la strategia della presa del potere per cambiare il mondo può finire nella sinistra presa dal potere, cambiando tutto per conservare il dato principale, la sostanza del mondo come tale. Per lo scrittore uruguayano Raúl Zibechi: «Nella misura in cui il ciclo progressista latinoamericano si sta concludendo, sembra arrivato il momento adatto per cominciare a tracciare bilanci di lungo respiro, che non si fermino alle congiunture o a dati secondari, per andarci avvicinando a delineare un panorama d’insieme. Va inoltre detto che questa conclusione del ciclo sta diventando disastrosa per i settori popolari e le persone di sinistra, ci riempie di incertezze e di apprensioni per l’immediato futuro, per l’andamento di destra e repressivo che dovremo affrontare».[vi]
Nelle ultime settimane, vari articoli d’opinione (diversi dei quali abbiamo pubblicato nel sito web di Rebelion) dibattono sul fatto se ci sia o meno un “fine ciclo” progressista, nonché sull’esistenza stessa di questo ciclo: un dibattito che giunge a un livello tale di polarizzazione che alcuni autori accusano gli altri di fare il gioco dell’impero, essendo quelli che “diagnosticano la capitolazione” e che sono “sinistra da caffè” (Garcia Linera dixit), mentre i secondi accusano i primi di essersi convertiti in intellettuali per incarico e di essere acritici al servizio degli Stati della regione e di governi ormai non progressisti ma regressivi… Questo dialogo tra sordi non serve molto a sviscerare l’attuale momento politico. Sicuramente, le idee sul probabile “riflusso del cambiamento d’epoca”[vii] o, dall’ottica inversa, quella di una graduale “fine dell’egemonia progressista”,[viii] sono troppo nette e rese troppo complicate per avviare questa discussione in una maniera costruttiva, ancorché conflittuale. Il tutto, riconoscendo che il fenomeno si verifica in condizioni territorial-nazionali altamente differenziate: «Il logoramento è più percepibile in alcuni paesi (ad esempio, Argentina, Brasile ed Ecuador) che non in altri (Venezuela, Bolivia e Uruguay), giacché in questi ultimi restano relativamente compatti i blocchi di potere progressisti e non si sono aperte forti divisioni a sinistra. In particolare, il Venezuela è stato l’unico paese dove si è dato impulso alla partecipazione generalizzata delle classi subalterne, con il configurarsi delle Comuni a partire dal 2009…».[ix]
Al di là della polemica sulla dimensione dello sfaldamento, inflessione o riflusso del periodo in corso, e ponendo in rilievo la varietà dei processi analizzati, emerge come, su molti piani, sembra che i progressismi governativi abbiano optato definitivamente, sotto la pressione di attori sia globali sia endogeni, per un “realismo modernizzatore” e per la politica della “misura del possibile”, che è spesso la strada migliore per giustificare la rinuncia a cambiamenti strutturali in direzione anticapitalista: una dinamica che potrebbe essere simboleggiata dall’incontro (giugno 2015) “fraterno” tra la presidente brasiliana Dilma Roussef – militante del PT (Partito dei lavoratori) – … e il criminale per lesa umanità Henri Kissinger (ex Segretario di Stato USA), in un momento in cui Dilma ricercava il sostegno politico imperiale di fronte a un’opposizione in crescita in seno alla società civile e a una destra revitalizzata dall’ampiezza dei casi di corruzione nelle file socialiste. Certamente, l’obiettivo della principale potenza latinoamericana con questo tipo di gesti diplomatici è innanzitutto quello di spalleggiare i “propri” settori dominanti e concedere maggiore “sicurezza” per gli affari in Brasile. Sull’altro fronte e ad altra latitudine, il trattato segreto di libero scambio firmato nel 2014 tra Ecuador e Unione Europea ricorda i limiti degli annunci sulla “fine della notte neoliberista”, incluso da parte di uno dei governi modello di questa prospettiva sul piano verbale. Oggi il governo Correa, scontrandosi con la destra e denunciando i pericoli di “golpe bianco”, si mostra anche in scontro con movimenti sociali e indigeni (e con una sinistra debole), a tal punto che si potrebbe parlare di una situazione di “vicolo cieco politico”,nell’accezione elaborata dal marxista Agustín Cueva, in cui la figura cesarista del presidente svolge il ruolo di stabilizzatore funzionale al capitale:«Vi sono stati momenti ricorrenti nella storia dell’Ecuador in cui l’intensità dei conflitti orizzontali, inter-capitalistici, in combinazione con le lotte verticali tra le classi dominanti e quelle popolari, risultava al di sopra della possibilità di sopportazione da parte delle forme esistenti di dominazione. Negli intervalli, mentre i politici ricercavano nuove forme più stabili di dominazione, regnava l’instabilità fino ad arrivare a un vicolo cieco».[x]
BPiù in generale occorre richiamare, anche se non è l’unico problema, il persistere in tutti i paesi progressisti di un modello produttivo e di accumulazione in cui si intrecciano, secondo diversi gradi e intensità, capitalismo di Stato, neo-sviluppismo ed estrazione di materie prime o risorse energetiche, con effetti predatori su comunità indigene, lavoratori ed ecosistemi… Questa tensione endogena si articola, in modo disuguale e combinato, rispetto a un feroce contesto finanziario globalizzato e all’attuale congiuntura: la crisi economica che già colpiva con forza, provocando la brusca caduta del prezzo delle materie prime e soprattutto del petrolio (passato da quasi 150 dollari al barile a meno di 50), chiudendo così la fase di bonaccia e mettendo di nuovo a nudo la matrice produttiva di carattere dipendente e neocoloniale dell’America Latina, maledetto retaggio di secoli di sottomissione imperialista. Il contesto corrisponde sia a una chiara controffensiva del capitale multinazionale, degli Stati del Nord e di alcuni giganti del Sud (a partire dalla Cina) per accaparrare più terreni agricoli, energia, minerali, acqua, biodiversità, manodopera, in una voragine che sembrerebbe senza fine… fino all’ultima goccia di vita. In paesi come la Bolivia o l’Ecuador, dove esiste maggiore coscienza politica di questi pericoli, si sostiene a partire dal governo e dai suoi sostegni politici la tattica – abbastanza sensata – di passare per un indispensabile momento di industrializzazione–estrattivismo per costruire la transizione con una qualche forza economica: un qualcosa come un “estrattivismo transitorio post-neoliberista”, che consentirebbe di sviluppare paesi piccoli con scarse risorse, creare ricchezza da accumulazione originaria per rispondere all’immane urgenza sociale che quelle nazioni pauperizzate conoscono e al tempo stesso avviare un lento processo di cambiamento del modello di accumulazione. Ciononostante, stando a Eduardo Gudynas, segretario esecutivo del Centro Latino Americano di Ecologia Sociale (CLAES): «Non vi è alcuna evidenza che stia accadendo questo, per varie ragioni: la prima è che la forma in cui si utilizza la ricchezza generata dall’estrattivismo è destinata in buona parte a programmi che approfondiscono ulteriormente l’estrattivismo stesso, ad esempio aumentando le riserve di idrocarburi o incrementando l’esplorazione mineraria. Secondo: le scelte estrattiviste comportano perdite economiche che impediscono processi di autonomia in altri settori produttivi, sia in agricoltura sia nell’industria. Il governo dovrebbe prendere misure precauzionali per evitare questa deformazione, ma questo non avviene, di fatto c’è una deriva in agricoltura volta a promuovere coltivazioni destinate all’esportazione mentre aumenta l’importazione di prodotti alimentari. Terzo: poiché i progetti estrattivi suscitano molta resistenza sociale (ne sono esempi recenti quello dei Guaraní di Yategrenda, Santa Cruz, o la riserva Yasuní in Ecuador), i governi debbono sostenerli in forma così intensa da rafforzare la cultura estrattivista in ampi settori della società, frenando quindi la ricerca di alternative».[xi]
Non è un caso, in effetti, se il ciclo di lotte popolari e di mobilitazioni che sta emergendo nel cuore d’America, annunciando – a volte – una nuova fase storica di lotte di classe, sia direttamente connesso a queste depredazioni, repressioni e conseguenti resistenze socio-territoriali. «La resistenza ha come centri il settore minerario e le monocolture, in particolare la soia, così come la speculazione urbana, vale a dire le varie forme assunte dall’estrattivismo. Secondo l’Osservatorio dei Conflitti minerari, nella regione, ci sono 197 conflitti attivi in campo minerario che investono 296 comunità: Perù e Cile, con 34 conflitti ciascuno, seguiti da Brasile, Messico e Argentina, sono i paesi più colpiti».[xii]
Questa tendenza si manifesta nel già descritto contesto di forti ombre in rapporto alla crescita economica degli ultimi anni, la profonda crisi del capitalismo mondiale che continua il suo corso e il permanere di enormi disuguaglianze sociali e asimmetrie regionali in tutto il continente. Per altro verso, va sottolineata l’importante offensiva delle varie destre imperialiste e mediatiche, come pure delle oligarchie della regione, che approfittano della fine dell’egemonia progressista per recuperare il terreno perso 15 anni or sono di fronte ai vari leader carismatici e ai dirigenti progressisti. Queste destre conservatrici e neoliberiste continuano a controllare – sul piano politico – città, regioni e paesi chiave (come Messico e Colombia), minacciando costantemente i diritti strappati nell’ultimo decennio nel processo di nuova integrazione regionale più autonomo da Washington. Sappiamo che queste forze regressive si sono dimostrate e si dimostrano pronte a organizzare molteplici forme di destabilizzazioni e anche colpi di Stato (come è avvenuto nell’ultimo decennio in Paraguay, Honduras e Venezuela), con il sostegno esplicito o indiretto dell’agenda imperiale degli Stati Uniti.[xiii]
Naturalmente, dal basso, proteste popolari multisettoriali, popolazioni native, studenti e lavoratori mettono sul tappeto le proprie agende e le proprie rivendicazioni, elevando le soglie delle trasformazioni di fondo realizzate nei paesi dove governano forze “post-neoliberiste” e la loro assoluta mancanza dove dominano ancora le destre neoliberiste, denunciando le varie forme di repressione, intimidazione o cooptazione in entrambe le situazioni: opposizione collettiva alla soia transgenica o scioperi operai in Argentina; grandi mobilitazioni giovanili di piazza nelle principali città brasiliane, che rivendicano il diritto alla città e si battono contro la corruzione; profonda crisi del progetto bolivariano, violenza dell’opposizione e riorganizzazione del movimento popolare in Venezuela; in Perù, lotte contadine e indigene contro megaprogetti minerari (come il progetto Conga); in Cile, Mapuche, lavoratori e studenti che denunciano con forza il maledetto retaggio della dittatura di Pinochet; in Bolivia, critiche della Centrale Operaia Bolivariana e di settori del movimento indigeno rivolte alla politica di “modernizzazione” di Evo Morales; in Ecuador, abbandono da parte del presidente Correa del progetto Yasuní, che avrebbe dovuto lasciare il petrolio sotto terra, e scontro tra l’Esecutivo, la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) e settori significativi della società civile organizzata; in Colombia, lunga ricerca di una pace vera, una pace cioè con trasformazione sociale, economica e con la riforma agraria, ecc.
Lo scenario è teso e mobile. Tuttavia, a prescindere da tutto questo, “la vecchia talpa della storia” (nel senso in cui l’intendeva Marx) continua a scavare e, accanto a questo, si dispiegano tutta una serie di esperienze di lotte sociali, di conflitti di classe e di discussioni politiche accompagnate da molteplici prove di potere popolare, alternative radicali e utopie in costruzione.[xiv]Se alcuni intellettuali critici hanno potuto credere – e riuscire a far credere per un po’ che l’America Latina – o per meglio dire Abya Yala – avrebbe conquistato il nuovo El Dorado del “socialismo del XXI secolo” grazie a una svolta governativa a sinistra e a vittorie elettorali democratiche, sappiamo che le strade dell’emancipazione sono più complicate, profondamente sinuose e che gli apparati di potere (militari, mediatici, economici) delle oligarchie latinoamericane e imperiali, sono solidi, resistenti, incistati ed anche feroci se necessario. Trasformare i rapporti sociali di produzione e smantellare la dominazione di “razza” e di genere nelle società di Nostra America costituisce una dialettica che dovrà partire, indubbiamente e ancora una volta, dal basso e a sinistra, dall’autonomia e indipendenza di classe, ma sempre in chiave politica e non dall’illusorio cambiamento senza la presa del potere. Questo, senza negare che questi tentativi collettivi di potere popolare debbano continuare a basarsi su parziali progressi elettorali o possano valutare l’importanza di conquistare spazi istituzionali e di partito all’interno dello Stato, se – e soltanto se – lo sviluppo di tali nuove politiche pubbliche si pongono al servizio delle “comunità” e dei subalterni. È possibile servirsi dello Stato per liquidare lo Stato… capitalista, usandolo per un dato periodo come argine di contenimento delle colossali forze ostili estranee? O, come prese atto Marx, essendo lo Stato fondamentalmente creatura dei dominanti, non può essere il nostro strumento senza rischiare di colonizzarci, mente, anima e pratica concreta? È evidente che il controllo dell’esecutivo rappresenta “solo” la conquista di un potere parziale, e ancor più limitato se non si ha la maggioranza parlamentare e la base sociale mobilitata:[xv]
Ricordiamoci degli insegnamenti del Cile e di come furono sconfitti nel 1973 Salvador Allende e la via istituzionale al socialismo dell’Unità popolare… Per questo un governo di sinistra e dei popoli dimostra la sua reale natura alternativa se serve da leva e da stimolo per le lotte autorganizzate dei lavoratori e dei movimenti popolari o indigeni, favorendo dinamiche di reale acquisizione di potere, di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, di costruzione di autogestione e di percorsi di emancipazione a partire e in funzione del “buen vivir” [“buon vivere”]. Altrimenti, le forze politiche di sinistra sono condannate alla gestione dell’ordine esistente, ed anche, in un momento di instabilità, ad ergersi in maniera bonapartista al di sopra delle classi sociali per perpetuare il leviatano dello Stato, amministrando la dominazione in modo più o meno “progressista”, con maggiori o minori rapporti con gli strati superiori locali.
Indubbiamente, l’inflessione e le incertezze attuali costituiscono pericoli e opportunità; ed è anche l’ora di tornare a discutere il nuovo senza dimenticare il “vecchio” e dibattere sulle strategie anticapitaliste e i relativi armamentari politici per costruire quello che proponiamo di chiamare un ecosocialismo nostramericano del XXI secolo; un progetto che non sia un calco né una copia che riporti a ripiegare sulle tattiche elettorali di breve respiro, sulle lotte dei capi e degli apparati burocratici, senza neanche accettare però di andare al rimorchio, nell’illusione di costruire una pluralità di autonomie sociali senza un progetto comune, sia pur minimamente centralizzato. Con questo intento, è fondamentale aprire gli occhi, l’olfatto, i sensi e i cuori alle esperienze collettive in corso, spesso esistenti al di sotto e al di sopra dei radar mediatici consensuali, indubbiamente ancora disperse o scarsamente collegate, ma che formano un’enorme fiumana di lotte in permanente trasformazione, a partire dalla realtà e dalla concretezza, dai propri errori e dai propri successi. Esperienze che permettono di cogliere dinamiche di emancipazione, tentativi collettivi originali con i connessi pericoli da affrontare o da evitare. Certamente, non ci consentono di indicare la forma ideale di tentativi di sollevazione vincenti, ma un mosaico di pratiche-conoscenze-modi di agire, alcune incentrate a partire dall’ambito agricolo o territoriale, altre dal piano produttivo e dalle fabbriche recuperate, o dall’ambito di quartiere e comunitario urbano, altre ancora avviate a partire da politiche statali o istituzionali, ma controllate dai rispettivi utenti: lotte delle donne contro la violenza patriarcale, dei senza tetto, degli indigeni, della classe operaia in vari paesi, l’esempio dell’agro-ecologia alternativa in Colombia, delle rivendicazioni di “buen vivir” in Ecuador, dei consigli comunali in Venezuela, delle fabbriche senza padroni in Argentina, dei mezzi collettivi in Brasile e Cile, delle ronde comunitarie in Perù e in Messico, ecc. «Iniziative organizzative locali di presa ed esercizio di potere popolare, virulente proteste di piazza per rigettare decisioni orchestrate a partire dal potere nazionale e transnazionale, ma anche assemblee costituenti di rifondazione utopistica, ripresa delle redini politiche da parte degli Stati: le strade dell’emancipazione sono ben lungi dall’essere univoche. In quanto sperimentazioni, presuppongono tentativi, incertezze e ripiegamenti. Ma anche conquiste. Complicate, a volte contraddittorie, ma profondamente e sinceramente portatrici di speranza; esperienze (che) sono alimento per quanti partecipano al compito di reinventare le società e il modo di far politica, siano questi cittadini dei paesi della regione o donne e uomini che hanno intrapreso il faticoso cammino della resistenza e dell’emancipazione, partendo da diverse geografie».[xvi]
Questa pluralità di voci e di esempi rende possibile riprendere il filo di una discussione che ormai percorre le vene aperte del continente; consente di pensare più lontano e più da vicino ai progetti progressisti governativi, assumendo che è, al tempo stesso, indispensabile dar vita a fronti socio-politici per affrontare le minacce del ritorno massiccio delle destre e dell’imperialismo in Sudamerica. Soprattutto, ci obbliga a pensare controcorrente, contro una «sinistra contemplativa istituzionale, amministrativa, una sinistra di aspiranti funzionari/funzionarie, una sinistra senza ribellione, senza mistica, una sinistra senza sinistra».[xvii]Ed anche a riuscire a pensare in contrasto con i nostri propri miti sviluppisti e teleologici, assumendo l’urgenza globale di un pianeta maltrattato sull’orlo del collasso ecologico e climatico. Sicuramente, è essenziale ammettere che queste varie esperienze e modi di vivere, che abbiamo brevemente richiamato, su come cambiare il mondo sono contraddittorie, addirittura divergenti, alcune isolate, molto localiste, e altre, viceversa, istituzionalizzate o dipendenti dallo Stato. Di qui l’interesse di riprendere i grandi dibattiti strategici del XX secolo, ma a partire dalla contemporaneità e con la memoria dei bilanci delle dolorose sconfitte passate. Come intraprendere la transizione postcapitalistica ed ecosocialista nel XXI secolo? Quali saranno il ruolo degli strumenti politico-partitici e quello dei movimenti in questo passaggio? Quale il ruolo dell’esercito, del sistema parlamentare, dei sindacati? Distruggerli, utilizzarli, trasformarli, evitarli, spaccarli… bene, ma in ogni caso come? E in che modo ricostruire modi comuni di sentire, egemonia culturale e una sinistra anticapitalista a partire dal popolo e per il popolo? Come evitare di forgiare illusioni attorno a ristretti gruppi su base di affinità chiusi in sé stessi e, al tempo stesso, non ripetere l’orrore burocratico e stato-centrico del XX secolo?
La grande Rosa Luxemburg avvertiva, nel 1915,: “avanzata verso il socialismo o ritorno alla barbarie”. Nel 2015, le sue parole acquistano un significato ancor più catastrofico e premonitore: “Ecosocialismo o eccidio globale”. Sicuramente, è a partire dal “coraggio del nuovo” che potremo tornare a sognare di abbattere i muri del capitale, del lavoro salariato, del neocolonialismo e del patriarcato: «Cambiare il mondo suona molto ambizioso. Di più, sembra piuttosto arrischiato, tenuto conto di tutti i gruppi di potere che non permetteranno mai di smantellare la civiltà capitalista. Tuttavia, nelle circostanze attuali, non c’è altra alternativa. Le condizioni di vita di ampi settori della popolazione e della stessa Terra si deteriorano celermente. Ci avviciniamo a un punto di non ritorno. E la scelta di cambiare pianeta non esiste. (…) Dobbiamo raccogliere la sfida. Dobbiamo essere ribelli di fronte al potere (e magari fino a volerne la distruzione). Dobbiamo accettare i nostri limiti come essere umani all’interno della Natura. Dobbiamo odiare ogni forma di sfruttamento. Dobbiamo essere quelli che si levano contro le ingiustizie e contro coloro che le commettono. Non dobbiamo rassegnarci. Dobbiamo continuare a pretendere e a costruire l’impossibile».[xviii]
Il compito è cominciato, è pane quotidiano e domani continuerà.
NOTE
[i]Come la costruzione di Stati plurinazionali, l’instaurazione di diritti sociali più o meno istituzionalizzati, la creazione di assemblee costituenti e di spazi di partecipazione comunitaria o la spinta all’integrazione regionale. [ii]Álvaro García Linera, Las tensiones creativas de la Revolución. La quinta fase del Proceso de Cambio, La Paz, Vicepresidenza dello Stato Plurinazionale di Bolivia, 2011. In: www.rebelion.org/docs/134332.pdf. [iii]Emir Sader, “¿El final de un ciclo (que no existió)?”, in Pagina 12, Buenos Aires, 17 settembre 2015 e Marta Harnecker, “Los movimientos sociales y sus nuevos roles frente a los gobiernos progresistas”, in Rebelión, 7 settembre-2015, http://rebelion.org/noticia.php?id=202910. [iv]Va rilevato qui che, per noi, l’attuale governo cileno di Michelle Bachelet si colloca chiaramente al di fuori di questa categoria “progressista post-neoliberista sudamericana”, costituendo fondamentalmente la continuazione “riformista” del neoliberismo dei governi della Concertazione che hanno diretto il paese tra il 1990 e il 2010. Cfr. F. Gaudichaud, Las fisuras del neoliberalismo. Trabajo, “Democracia protegida” y conflictos de clases, Buenos Aires, CLACSO, aprile 2015. In: http://biblioteca.clacso.edu.ar/clacso/becas/20150306041124/EnsayoVF.pdf. [v]Modenesi, Massimo, “Revoluciones pasivas en América Latina. Una aproximación gramsciana a la caracterización de los gobiernos progresistas de inicio de siglo”, in Modenesi, Massimo (a cura di.), Horizontes gramscianos. Estudios en torno al pensamiento de Antonio Gramsci, Messico, fcpys-unam, 2013. [vi]Raúl Zibechi, “Hacer balance del progresismo”, in Resumen latinoamericano, 4 agosto 2015. En: www.resumenlatinoamericano.org/2015/08/04/hacer-balance-del-progresismo. [vii]Katu Akornada, “¿Fin del ciclo progresista o reflujo del cambio de época en América Latina? 7 tesis para el debate”, in Rebelión, 8 settembre 2015, http://www.rebelion.org/noticia.php?id=203029. [viii]Massimo Modenesi, “¿Fin del ciclo o fin de la hegemonía progresista en América Latina?”, in La Jornada, 27 settembre 2015. [ix]. Massimo Modenesi, “¿Fin del ciclo o fin de la hegemonía progresista en América Latina?”, cit. [x]Jeffery R. Webber, “Ecuador en el impasse político”, in Viento Sur, 20 settembre 2015, http://vientosur.info/spip.php?article10496. [xi]Ricardo Aguilar Agramont, “Entrevista a Eduardo Gudynas: La derecha y la izquierda no entienden a la naturaleza”, in La Razón, 23 agosto 2015. [xii]Raúl Zibechi, “Hacia un nuevo ciclo de luchas en América Latina”, in Gara, 3 novembre 2013, http://gara.naiz.info/paperezkoa/20131103/430771/es/Hacia-nuevo-ciclo-luchas-America-Latina. [xiii]Franck Gaudichaud, “El peso de la historia. América Latina y la mano negra de Washington”, in Le Monde Diplomatique, ed. cilena, luglio 2015. [xiv]Pablo Seguel, “América Latina actual. Geopolítica imperial, progresismos gubernamentales y estrategias de poder popular constituyente. Conversación con Franck Gaudichaud”. in: gesp (coord), Movimientos sociales y poder popular en Chile, Tiempo robado editoras, Santiago 2015, pp. 237-278. [xv]Cf. Marta Harnecker, “Los movimientos sociales y sus nuevos roles…”, cit. [xvi]Tamia Vercoutère, Prefazione all’edizione ecuadoriana del libro América Latina. Emancipaciones en construcción (Quitogo, IEAN 2013). [xvii]Pablo Rojas Robledo, “Hay que sembrarse en las experiencias del pueblo”. Fin de ciclo, progresismo e izquierda, Entrevista a Miguel Mazzeo”, in Contrahegemonía, settembre 2015, http://contrahegemoniaweb.com.ar/hay-que-sembrarse-en-las-experiencias-del-pueblo-fin-de-ciclo-progresismo-e-izquierda-entrevista-con-miguel-mazzeo. [xviii]Miriam Lang, Belén Cevallos, Claudia López, La osadía de lo nuevo. Alternativas de política económica, Quito, Fundación Rosa Luxemburg/Abya-Yala 2015, pp. 191-192.*Questo articolo è una versione più sviluppata ed estesa della prefazione all’edizione cilena del libro collettivo: América Latina. Emancipaciones en construcción (Santiago, Tiempo Robado Editoras / América en movimiento, 2015). L’autore è dottore in scienze politiche (Università Paris 8) professore-ricercatore in Studi latinoamericani della Università di Grenoble, membro del collettivo editoriale del portale www.rebelion.org . Contatto: fgaudichaud@gmail.com
L’originale dell’articolo si trova sul sito eldesconcierto.cl
La traduzione di Titti Pierini è stata pubblicata originariamente sul sito di Antonio Moscato (che ringraziamo) “Movimento operaio”