Gli sviluppi della situazione libica
Pubblichiamo un’intervista rilasciata da Gilbert Achcar sulla guerra in Libia che ha fatto molto discutere per via del consenso che l’intellettuale di origine libanese, militante internazionalista e antimperialista da una vita, ha voluto dare alla risoluzione Onu sulla “No fly zone”. Achcar è insospettabile di simpatie per i governi occidentali e quindi i suoi argomenti meritano attenzione, tanto più che nell’intervista che qui pubblichiamo, e poi nell’articolo di risposta alle numerose critiche ricevute, aggiunge numerosi elementi di conoscenza e valutazione in buona parte estranei al dibattito italiano. Per parte nostra continuiamo a non condividere la posizione di Achcar e, sia pure senza volerla presentare come una risposta, rimandiamo all’articolo che abbiamo pubblicato subito dopo i bombardamenti della Francia (vai qui)
Sviluppi in Libia
(per il secondo articolo di Achcar va qui)
Chi è l’opposizione libica? Alcuni hanno notato la presenza della vecchia bandiera monarchica tra le fila dei ribelli.
La bandiera non è usata come simbolo della monarchia ma come bandiera adottata dallo stato libico dopo la conquista dell’indipendenza dall’Italia. E’ usata dalla rivolta per rifiutare la Bandiera Verde imposta da Gheddafi assieme al suo Libro Verde, quando scimmiottava Mao Zedong e il Libretto Rosso. La bandiera tricolore non indica in alcun modo nostalgia per la monarchia. Nell’interpretazione più comune, simbolizza le tre regioni storiche della Libia e la mezzaluna e la stella sono le stesse che si vedono nelle bandiere delle repubbliche algerina, tunisina e turca, non simboli della monarchia.
E dunque chi è l’opposizione?
La composizione dell’opposizione è –come in tutte le altre rivolte che scuotono la regione – molto eterogenea. Ciò che unisce le forze disparate è un rifiuto della dittatura e un anelito alla democrazia e ai diritti umani. Al di là di ciò vi sono molte prospettive diverse. In Libia, più in particolare, c’è una miscela di attivisti dei diritti umani, di sostenitori della democrazia, di intellettuali, di elementi tribali e di forze islamiche; un insieme molto vasto. La forza politica preminente della rivolta libica è la “Gioventù della Rivoluzione del 17 febbraio” che ha una piattaforma democratica che richiede lo stato di diritto, libertà politiche ed elezioni libere. Il movimento libico include anche segmenti del governo e delle forze armate che hanno disertato e si sono uniti all’opposizione, cosa che non è accaduta in Tunisia o in Egitto.
L’opposizione libica rappresenta quindi un insieme di forze, e la sintesi è che non c’è alcun motivo per un atteggiamento nei suoi confronti diverso da quello verso ogni altra rivolta nella regione.
Gheddafi è – o è stato – una figura progressista?
Quando Gheddafi salì al potere nel 1969 egli fu l’ultima manifestazione del nazionalismo arabo che seguì la seconda guerra mondiale e la Nakba del 1948. Cercò di imitare il leader egiziano Gamal Abdel Nasser che considerava il suo modello e la sua ispirazione. Sostituì allora la monarchia con una repubblica, si fece campione dell’unità araba, costrinse al ritiro dal territorio arabo della base aerea americana Wheelus e diede il via ad un programma di cambiamento sociale.
Poi il regime seguì la propria strada, assieme al sentiero della radicalizzazione, ispirato da un maoismo islamizzato. Ci furono vaste nazionalizzazioni nei tardi anni ’70 – quasi tutto fu nazionalizzato, Gheddafi affermò di aver istituito la democrazia diretta – e fu cambiato formalmente il nome del paese da Repubblica a Stato delle Masse (Jamahirya). Egli fece finta di aver trasformato il paese nella realizzazione dell’utopia socialista attraverso la democrazia diretta, ma pochi furono ingannati. I “comitati rivoluzionari” agivano in realtà da apparato di governo assieme ai servizi di sicurezza nel controllare il paese. Al tempo stesso Gheddafi svolse anche un ruolo particolarmente reazionario nel rafforzare il tribalismo come estrumento del proprio potere. La sua politica estera si fece sempre più avventata e molti arabi arrivarono a considerarlo pazzo.
Con l’Unione Sovietica in crisi, Gheddafi abbandonò le sue pretese socialiste e riaprì la sua economia alle imprese occidentali. Affermò che la sua liberalizzazione economica sarebbe stata accompagnata da una politica, scimmiottando la perestroika di Gorbaciov dopo aver scimmiottato la “rivoluzione culturale” di Mao Zedong, ma la dichiarazione politica era vuota di sostanza. Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2003 sotto il pretesto della ricerca delle “armi di distruzione di massa”, Gheddafi, preoccupato di poter essere il prossimo, mise in atto un’improvvisa e sorprendente giravolta in politica estera, guadagnandosi una spettacolare promozione dallo status di “stato canaglia” a quello di stretto collaboratore degli stati occidentali. Collaboratore, in particolare, degli Stati Uniti, che aiutò nella cosiddetta guerra al terrore, e dell’Italia, per la quale fece il lavoro sporco di rimandare indietro gli aspiranti immigrati che cercavano di arrivare in Europa dall’Africa.
Attraverso queste metamorfosi, il regime di Gheddafi è sempre stato una dittatura. Qualsiasi misura progressista Gheddafi possa aver messo in atto, nell’ultima fase non rimaneva nulla del progressismo e dell’anti-imperialismo del suo regime. Il suo carattere dittatoriale si è mostrato nel modo in cui ha reagito alle proteste: decidendo immediatamente di domarle con la forza. Non c’è stato alcun tentativo di offrire un qualche canale democratico alla popolazione. Ha avvertito i manifestanti in un suo ora famoso discorso tragicomico: “Arriveremo metro per metro, casa per case, strada per strada … vi scoveremo nei vostri gabinetti. Non avremo compassione né pietà.” Nessuna sorpresa, sapendo che Gheddafi era l’unico governante arabo che aveva pubblicamente condannato il popolo tunisino per aver rovesciato il proprio dittatore Ben Ali, che egli descriveva come il miglior governate che i tunisini potessero trovare.
Gheddafi ha fatto ricorso a minacce e alla repressione violenta, affermando che i dimostranti erano stati trasformati in tossicomani da Al Qaeda che aveva versato allucinogeni nei loro caffè. Denunciare Al Qaeda per la rivolta è stato il suo modo di cercare di ottenere il sostegno dell’occidente. Se ci fosse stata una qualsiasi offerta di aiuto da Washington o da Roma, si può star certi che Gheddafi l’avrebbe accolta con piacere. Ha effettivamente espresso la sua delusione per l’atteggiamento del suo compare Silvio Berlusconi, il primo ministro italiano, con il quale aveva condiviso festeggiamenti e ha denunciato il fatto che anche altri suoi “amici” europei lo avevano tradito. Negli ultimissimi anni Gheddafi era effettivamente diventato amico di diversi governanti occidentali e di altre figure del potere che, per un pugno di dollari, sono stati disponibili a rendersi ridicoli scambiando abbracci con lui. Lo stesso Anthony Giddens, l’eminente teorico della Terza Via di Tony Blair, ha seguito i passi del suo discepolo visitando Gheddafi nel 2007 e scrivendo sul Guardian come la Libia era sulla strada delle riforme e sulla via di diventare la Norvegia del Medio Oriente.
Come valuti la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottata il 17 marzo?
La risoluzione stessa è formulata in un modo che tiene conto delle – e sembra rispondere alle – richieste della rivolta per una zona di interdizione al volo (no-fly zone). L’opposizione ha in effetti chiesto esplicitamente una zona di interdizione al volo a condizione che nessuna truppa straniera sia impiegata in territorio libico. Gheddafi ha il grosso delle forze armate d’élite, con aerei e carri armati, e la zona di interdizione al volo neutralizzerebbe in concreto il suo principale vantaggio militare. Questa richiesta della rivolta è riflessa nel testo della risoluzione, che autorizza gli stati membri dell’ONU “ad adottare tutte le misure necessarie … per proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacco nella Jamahiryia Araba Libica, compresa Bengasi, con l’esclusione di una forza di occupazione straniera sotto qualsiasi forma in qualsiasi parte del territorio libico.” La risoluzione stabilisce “un divieto di tutti i voli nello spazio aereo della Jamahiryia Araba Libica al fine di proteggere i civili.”
Ora, non ci sono sufficienti salvaguardie nella formulazione della risoluzione per impedire il suo utilizzo a fini imperialistici. Anche se si suppone che lo scopo di qualsiasi azione sia la protezione dei civili e non un “cambiamento di regime”, decidere se un’azione adempia a questo scopo o meno è lasciato alle potenze che intervengono e non alla rivolta o almeno al Consiglio di Sicurezza. La risoluzione è sorprendentemente confusa. Ma considerata l’urgenza di impedire il massacro che inevitabilmente deriverebbe da un attacco a Bengasi da parte delle forze di Gheddafi e l’assenza di qualsiasi mezzo alternativo per conseguire l’obiettivo della protezione, nessuno può opporvisi ragionevolmente. Si possono comprendere le astensioni; alcuni dei cinque stati che si sono astenuti dal voto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno voluto esprimere la loro resistenza e/o il loro disagio per la mancanza di un controllo adeguato, ma senza assumere la responsabilità di un massacro incombente.
La reazione occidentale, ovviamente, sa di petrolio. L’occidente teme un conflitto prolungato. Se ci fosse un grande massacro, dovrebbero imporre un embargo al petrolio libico, mantenendo i prezzi del petrolio a un livello alto in un periodo in cui, dato lo stato attuale dell’economia globale, ciò avrebbe grosse conseguenze negative. Alcuni paesi, inclusi gli Stati Uniti, hanno agito con riluttanza. Solo la Francia è emersa come fortemente a favore di un’azione forte, il che può ben essere collegato al fatto che la Francia – diversamente dalla Germania (che si è astenuta dal voto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) – non ha un grande accesso al petrolio libico e certamente spera in una quota maggiore dopo Gheddafi.
Sappiamo tutti che i pretesti delle potenze occidentali si basano su una doppia morale. Ad esempio la loro asserita preoccupazione per i civili bombardati dall’alto non è sembrata applicarsi a Gaza nel 2008-09, quando centinaia di non combattenti sono stati uccisi da aerei israeliani nell’appoggio a una occupazione illegale. O il fatto che gli USA consentano al loro regime cliente del Bahrein, dove hanno una base navale principale, di reprimere violentemente la rivolta locale, con l’aiuto di altri vassalli regionali di Washington.
Rimane il fatto, tuttavia, che se a Gheddafi fosse permesso di continuare la sua offensiva militare e di prendere Bengasi, ci sarebbe un grande massacro. Ecco un caso in cui la popolazione è davvero in pericolo e in cui non ci sono plausibili alternative per proteggerla. All’attacco delle forze di Gheddafi mancano ore, al massimo giorni. Nel nome di principi anti-imperialisti non ci si può opporre a un’azione che eviterà il massacro di civili. Analogamente, anche se conosciamo bene la natura e la doppia morale dei poliziotti nello stato borghese, nel nome di principi anticapitalisti non si può biasimare chi li chiami quando qualcuno sta per essere violentato e non c’è altro modo di fermare il violentatore.
Detto questo, senza dichiararci contro la zona di interdizione al volo, dobbiamo mostrare resistenza e sostenere un’assoluta vigilanza nel controllare le azioni di quegli stati che le conducono, per essere certi che non vadano al di là della protezione dei civili secondo il mandato della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Guardano il televisione le folle di Bengasi che inneggiavano all’approvazione della risoluzione, ho visto in mezzo a loro un grande cartello che diceva in arabo “No all’intervento straniero”. La gente, là, distingue tra l’”intervento straniero” che loro intendono come truppe sul territorio, e una zona protettiva di interdizione al volo. Si oppongono alle truppe straniere. Sono consapevoli dei pericoli e saggiamente non si fidano delle potenze occidentali.
Così, per tirare le somme, io credo che da un punto di vista anti-imperialista non ci si possa e non ci si debba opporre alla zona di interdizione al volo, dato che non c’è alcuna alternativa plausibile per proteggere la popolazione in pericolo. Viene riferito che gli egiziani stanno fornendo armi all’opposizione libica – ed è bene – ma di per sé non determinerebbe una differenza che potrebbe salvare Bengasi in tempo. Ma, di nuovo, si deve mantenere un atteggiamento molto critico verso ciò che le potenze occidentali potrebbero fare.
Cosa succederà ora?
E’ difficile dire cosa succederà ora. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non chiede un cambiamento di regime; riguarda la protezione dei civili. Il futuro del regime di Gheddafi è incerto. La questione chiave è se vedremo la ripresa della rivolta nella Libia occidentale, Tripoli compresa, portare a una disintegrazione delle forze armate del regime. Se ciò accadrà, allora Gheddafi può essere spodestato presto. Ma se il regime riesce a rimanere fermamente al controllo dell’occidente, allora ci sarà una divisione di fatto del paese, anche se la risoluzione afferma l’integrità territoriale e l’unità nazionale della Libia. Può essere questo che il regime ha scelto, avendo appena annunciato la sua adesione alla risoluzione dell’ONU e proclamato il cessate il fuoco. Quello che potremmo avere, allora, sarebbe uno stallo prolungato, con Gheddafi che controlla l’occidente e l’opposizione l’oriente. Ci vorrà ovviamente tempo prima che l’opposizione possa utilizzare le armi che sta ricevendo da e attraverso l’Egitto al punto da diventare capace di infliggere una sconfitta militare alle forze di Gheddafi. Data la natura del territorio libico, questa può essere soltanto una guerra regolare piuttosto che una guerra popolare, una guerra di movimento su grandi estensioni di territorio. E’ per questo che è così difficile prevedere il risultato. La sintesi finale qui, di nuovo, è che dovremmo appoggiare la vittoria della rivolta democratica libica. La sua sconfitta per mano di Gheddafi sarebbe un contraccolpo che influenzerebbe negativamente l’onda rivoluzionaria che sta attualmente scuotendo il Medio Oriente e l’Africa del nord.
* Gilbert Achcar è cresciuto in Libano ed è attualmente professore alla Scuola di Studi Orientali e Africani (SOAS) dell’Università di Londra. I suoi libri comprendono “The Clash of Barbarism: The Making of the New World Disorder”, pubblicato in 13 lingue [Lo scontro di barbarie: la costruzione del nuovo disordine mondiale], “Perilous Power: The Middle East and U.S. Foreign Policy” scritto insieme con Noam Chomsky [Il potere pericoloso: il Medio Oriente e la politica estera americana] e, più recentemente, “The Arabs and the Holocaust: The Arab-Israeli War of Narratives” [Gli arabi e l’olocausto: la guerra arabo-israeliana delle narrazioni]. E’ stato intervistato da Stephen R. Shalom.
19 marzo 2011
(da ZNet Italia ) Traduzione di Giuseppe Volpe – namm.giuseppe@virgilio