Il bar di mio padre
(Dal cap. 3 del libro “Una lenta impazienza”)
Non meno che della mia famiglia, io sono un rampollo del bar. Fatto prigioniero durante la “strana guerra” [Seconda guerra mondiale], mio padre era evaso. Grazie a un prestanome, aveva comprato un piccolo bar all’uscita di Tolosa, sulla strada per Narbona. Ho impiegato parecchio tempo a capire per quale miracolo burocratico mio padre, catturato dalla Gestapo il 29 dicembre 1943, fosse riuscito a sfuggire alla sorte dei fratelli Jules e René, spediti nei campi di sterminio. Grazie alle pratiche e alla combattività di mia madre, è rimasto nel campo di raccolta di Drancy, sospeso dal servizio militare, fino alla Liberazione. Ella esibì, infatti, certificati di favore ottenuti grazie alla generosità di monsignor Salièges, e riesumò copie dei registri parrocchiali del quartiere Saint-Antoine. Il libro di Maurice Rajfus su Drancy alla fine mi ha chiarito la cosa. Anche il terrore totalitario ha le sue regole e le sue procedure. Io devo a queste il fatto di esistere. E mia sorella di essere sopravvissuta. Quando gli uomini della Gestapo vennero ad arrestare mio padre, le hanno esaminato il sesso. Ragazzo, lo avrebbero deportato. Ragazza, l’hanno ignorata.
Il bancone del bar fu la mia prima scuola e il mio primo osservatorio sociologico. Un bancone è una specie di confessionale laico, un divano del popolo, dove ci si viene a confidare le esistenze ammaccate. Negli anni cinquanta, il nostro locale non aveva né televisione né flipper. Solo un biliardino, sul quale mi esercitavo per pomeriggi interi, e morbide tovaglie di carta con le insegne di Dubo-Dubon-Dubonnet, di Byrth o di Cinzano, su cui si svolgevano accanite partite di belote, ramino o poker. Abile giocatore, mio padre provava un evidente piacere nel mescolare le carte, distribuirle, dispiegare millimetro per millimetro il ventaglio della buona (o della cattiva) sorte.
Al margine della città, ai confini di un quartiere che stava morendo ai piedi dei colli, nella cosiddetta mezza campagna, il Bar degli Amici accoglieva una clientela popolare, che metteva insieme profughi spagnoli, muratori portoghesi, antifascisti italiani, operai dell’Onia (futura Azf) o della polveriera, postini e ferrovieri, meccanici automobilistici e piccoli commercianti. Fin dall’apertura, i postini mangiavano lo spuntino del mattino annaffiato di bianco secco e di caffè macchiato al calvados. La sera, all’ora dell’aperitivo, gli operai sbarcavano a Solex, si liberavano del loro impermeabile, mettevano i guanti ad asciugare sul radiatore. La bevanda prescelta era il pastis della casa, prodotto illegalmente con sacchetti d’anice nascosti nel camino e alcool non denaturato fornito da un farmacista complice. Il bicchiere già allungato con l’acqua costava due volte meno del Ricard o del 51, e tutti potevano servirsi a turno generosamente. Lo scambio a somma zero era una specie di potlatch popolare. Faceva bene al commercio, non alla salute.
Di giro in giro, gli avventori rimuginavano fino a tardi le loro miserie lavorative e domestiche. Ho imparato molto dai discorsi al bancone. Spalancavo le orecchie agli epici racconti della guerra di Spagna o alle prodezze ancora così vicine di Achille Viadieu o di Marcel Langer. Pierrot, un cliente abituale, se ne stava spesso in silenzio, con lo sguardo smarrito nel vuoto, rivolto a quel passato che restava, nel grigiore quotidiano del suo mestiere di magazziniere, il momento più intenso della sua vita. Si diceva che avesse ucciso un collaborazionista del quartiere (probabilmente quello la cui denuncia aveva spedito mio padre a Drancy). Reduci della guerra civile spagnola, ex appartenenti alle Brigate Internazionali o alla Moi [Mano d’opera immigrata], ricordavano così, intorno all’ultimo bicchiere prima di riprendere la strada, quei tempi in cui, malgrado tutto, ebbero l’impressione di trovarsi a tu per tu con la Storia.
Il bar era rosso vivo. La domenica, dopo la partita del Tfc, la sala faceva il pieno. Tony Garcia, un fisarmonicista spagnolo, tirava fuori il suo strumento a cinghia corta e l’assemblea riprendeva in coro il repertorio popolare: La Môme caoutchouc [La ragazza caucciù] «… ce qu’on peut faire avec elle, hein, c’est fou…» [… «ciò che si può fare con lei, vero, è pazzesco…»] – , Prosper Yop-La-Boum [canzone di Maurice Chevalier] «… c’est le roi du macadam…» [«… è il re del macadam…» (un tipo di manto stradale fatto di pietrisco compresso – ndt)] «Je suis le maître à bord» [«Sono il padrone a bordo»] «… moi seul, je suis le maître…» [«… Solo io sono il padrone…»], e l’indimenticabile Manon:
Et, sudain, tout se tait quad apparaît Menon,
Manon c’est la beauté, l’ineffable jeunesse…
[E, d’un tratto, tutto tace quando appare Manon,
Manon è la bellezza, l’ineffabile giovinezza]
Aspettavo estasiato queste apparizioni di Manon. La immaginavo
au milieu des chanson, des rires et des filles,
[al centro dei canti, delle risate e delle ragazze]
in una Montmartre in cui lo champagne spumeggiava. Mi rapivano quelle storie di naufragi, di ragazzacci e di amori infelici. Se la festa era bella, mio padre usciva dalla sua timidezza per canticchiare una vecchia canzone araba o andalusa. Saliva su un tavolino rotondo e trascinava mia madre in un valzer – al contrario, niente meno! La domenica era giorno di kémia: gamberetti bicorni sbollentati, molto speziati per alimentare la sete. Il lunedì mattina la sala, cosparsa di conchiglie, di gusci e di bucce di lupini, somigliava a un campo di battaglia o ai Qliphoth della cabala.
La cellula comunista di quartiere teneva al bar le sue riunioni annuali di consegna delle tessere. L’Unione delle donne francesi vi organizzava merende di solidarietà per buone cause. Per il veglione di Capodanno si spiattellavano salumi, formaggi e polli freddi. Si allontanavano i tavoli per ballare il paso doble, il valzer o il tango. I più agili si provavano nei balli russi dell’Armata Rossa. Di prima mattina, si sventravano panieri di ostriche spuntate dal nulla e si cantava a squarciagola col pugno alzato una tonitruante Internazionale:
… sera le genre humain! Tsoin-tsoin!
In quei raduni regnava un’arietta Rosso bacio. Si vibrava alle prodezze di Emil Zátopek o di Vladimir Kuts. Lo Sputnik, la cagnetta Laika e Jurij Gagarin annunciavano una nuova era e una terra promessa. Ma nel 1956 la sollevazione di Budapest mi ha tenuto incollato alla stazione radio. Naturalmente non per fervida simpatia per i consigli operai insorti, di cui non avevo la minima idea, ma per la preoccupazione sulla sorte della gloriosa squadra magiara (Puskas, Czibor, Kocsis “Testa d’oro”, Hidegkuti), di cui non si avevano notizie.
Grande vicenda di quegli anni, neanche la guerra d’Algeria riuscì a seminare zizzania fra quella compagnia di “Allegri cultori della pesca” (la società di pescatori che offrì il pretesto per banchetti e tornei di carte, piuttosto che per scampagnate). Mio padre non aveva alcuna nostalgia della terra natale. Ne conservava un ricordo piuttosto annoiato. Mai loquacissimo sulla questione algerina, manteneva una sorta di tacita complicità con suoi clienti arabi e indossava all’occorrenza un berretto da postino per imitare il generale de Gaulle. Una volta cacciò suo cugino Henri, un simpatico babbeo che trafficava con l’Oas e voleva depositare da noi una valigia di micidiale chincaglieria.
Il bar tracciava un’originale linea di divisione tra sfera privata e sfera pubblica. Tra la sala e la cucina dove mangiavamo noi, la porta era sempre aperta. I clienti avevano un’ottima vista sulla nostra intimità domestica e potevamo continuare una conversazione con loro senza lasciare coltello e forchetta. Io non ho, quindi, mai conosciuto la famiglia chiusa contro cui Gide scagliava le sue imprecazioni: «Focolare chiuso, porte serrate, possesso geloso della felicità…». La mia è sempre stata spalancata sul mondo.