Il futuro di Occupy
In un lungo articolo sul New York Times di domenica 6 novembre si tenta un bilancio di 50 giorni di occupazione di Zuccotti Park. La tesi di fondo è che il movimento Occupy Wall Street si trovi a un bivio importante con l’approssimarsi dell’inverno data la sua composizione sociale e quindi la sua capacità di resistenza. Secondo il quotidiano newyorkese, da sempre termometro degli umori interni al partito democratico, questo movimento senza leader riconosciuti, senza una prospettiva politica chiara con una composizione degli attivisti formata da studenti, veterani di guerra e senza fissa dimora ha fatto il suo tempo. Il messaggio è stato compreso, ora bisogna lasciare spazio alla “politica vera”. La descrizione caricaturale di Occupy Wall Street, in sintonia con le dichiarazioni degli ultimi giorni del sindaco Bloomberg che per l’ennesima volta ha evocato lo sgombero della piazza, è il sintomo che si stanno esaurendo gli spazi di mediazione tra il movimento e l’establishment politico-istituzionale. La scorsa settimana, senza grandi clamori, è continuata quella sorta di repressione a bassa intensità portata avanti dalla polizia. E’ stata permessa un’organizzazione più strutturata della piazza occupata con tende stabili per la cucina, il pronto intervento, il media center ma sono stati sequestrati i generatori di energia elettrica. L’atteggiamento della polizia a Zuccotti Park è un po’ meno aggressivo ma ogni volta che ci sono iniziative al di fuori della piazza scattano subito gli arresti com’è successo giovedì scorso, 25 arresti, davanti alla banca d’affari Goldman Sachs sotto processo per truffa ai risparmiatori e sabato durante il presidio davanti alla banca JP Morgan, 15 arresti. In realtà i problemi che deve affrontare Occupy Wall Street, ma che possono essere estesi anche alle occupazioni nelle varie città, sono altri rispetto a quelli sollevati dal New York Times e riguardano i rapporti con i sindacati, con le comunità afroamericana e latina di Harlem e del Bronx e l’organizzazione politica del movimento.
I gruppi dirigenti nazionali dei grandi sindacati, soprattutto dopo la riuscita dello sciopero generale di Oakland, mostrano sempre più preoccupazione e alternano dichiarazioni formali di sostegno al movimento alla riaffermazione decisa del proprio ruolo. Il movimento, dicono in sostanza, deve occuparsi delle questioni generali contro lo strapotere del capitale finanziario e suscitare il giusto sdegno etico e morale per le malefatte perpetrate ai danni dei cittadini. Non deve varcare il limite della piazza e riversarsi sui territori o ancor peggio nei luoghi di lavoro. Si teme il contagio soprattutto delle forme di democrazia diretta e di una conflittualità estesa non controllabile e disciplinabile. Di natura diversa sono le difficoltà di diffusione del movimento nelle aree metropolitane popolate dalle comunità afroamericane e latine. New York può senza alcun dubbio esser presa come esempio di riferimento.
Le assemblee tenute ad Harlem e nel Bronx non hanno avuto effetti significativi al di là della ricostruzione dei rapporti con le associazioni di base di quei quartieri che da decenni si battono contro le discriminazioni e la drastica riduzione del welfare. L’idea di riprodurre le stesse modalità di azione e partecipazione che vanno bene a Zuccotti Park ad Harlem e nel Bronx, dove la crisi e le politiche di austerità bipartisan stanno devastando l’intero tessuto sociale, non trova sufficienti attenzioni per innescare il conflitto sociale come se la dimensione dei problemi fosse altra e di natura diversa. Venerdì scorso è stato costituito lo Spoke Council di Occupy Wall Street dopo discussioni durate parecchi giorni. Una sorta di consiglio dei portavoce – che ruotano ad ogni riunione- dei vari gruppi di lavoro, circa una settantina, che dovrebbe alternarsi, tra volte alla settimana, all’assemblea generale. E’ stata data, sull’esempio di Occupy Oakland, un’interpretazione un pò più elastica del metodo del consenso per assumere le decisioni, ora serve l’accordo del 90% dei portavoce, ed è iniziata una discussione sulla natura politica del movimento.
Lo sciopero di Occupy Oakland ha nei fatti imposto un’accelerazione a tutto il movimento dal punto di vista politico. La decisione, dopo lo sciopero, dell’assemblea generale di Oakland di lanciare una campagna di occupazione di case e edifici vuoti che appartengono all’amministrazione locale, alle banche e alle società finanziarie per aprire degli spazi pubblici di iniziativa e partecipazione, per dare una casa a coloro i quali è stata pignorata, per avere dei luoghi di socialità non mercificati va nella direzione di articolare territorialmente gli obiettivi e la lotta pur mantenendo il carattere generale di opposizione al sistema capitalistico in quanto tale. I collettivi degli studenti delle principali Università di New York hanno lanciato dal 14 al 21 novembre una settimana di mobilitazione, che vedrà nel 17 novembre la giornata di azione generale in tutta la città insieme a Occupy Wall Street; da come sarà costruita quella giornata, che tipo di esito avrà e quali connotazioni assumerà la dimensione politica del movimento influirà un bel po’ sul futuro di un’esperienza che potrebbe far scricchiolare il centro dell’Impero.