Il momento di Tremonti
Magari siamo prevenuti ma a sentire le dichiarazioni dei dirigenti Pd si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una sorta di rammarico per non poter votare la manovra di Tremonti. Sì, perché la manovra porta il segno del ministro dell’Economia più che del governo Berlusconi che in fondo la subisce. La subisce perché non l’aveva prevista e ha cercato di nasconderla fino all’ultimo parlando di crisi inesistente, sbandierando ottimismo, ipotizzando riforme roboanti. E invece, dopo la Grecia, è arrivata la doccia fredda. I vari governi europei, Germania in testa, si sono accorti che per salvare banche e finanziarie nei due anni precedenti si erano esposti troppo, facendo crescere a dismisura i deficit e hanno osservato che la speculazione, avendo finalmente le spalle coperte da quei risanamenti, poteva attaccare i governi, in primis quelli europei. Da qui, la svolta rigorista ordinata dalla Germania che sta mettendo in tensione la stessa Unione monetaria.
Insomma, Tremonti si è presentato come il miglior paladino del rigore di bilancio e oggi fa il bello e il cattivo tempo, affermandosi come un premier in pectore e con ciò generando fibrillazioni, sospetti, contraddizioni evidenti nella maggioranza di governo. Lo stesso Berlusconi non è molto convinto di dover associare il suo nome alla “politica dei sacrifici”, definizione che stride con il suo mondo fatto di pasta dorata e castelli in aria.
Ma questo è il momento di Tremonti. Il ministro dell’Economia ha il coltello dalla parte del manico, sue eventuali dimissioni getterebbero sul lastrico il presidente del Consiglio e la sua maggioranza e quindi forza la mano, si mette al centro della scena. In realtà, il governo di unità nazionale sembra quasi prodursi da solo. La Confindustria è praticamente entusiasta di questa manovra tutta “tagli agli sprechi”, Cisl e Uil aspettano soltanto un contentino per dire di sì, l’Udc è pronta a votare a favore, pezzi importanti del Pd sono già lì con la mano sul pulsante verde per dare il proprio via libera. Tremonti è di fatto colui che raccoglie l’invito di Napolitano a unire gli sforzi e non a caso, lungo tutta la sua giornata di incontri e colloqui – con gli Enti locali, poi con le parti sociali, infine in Consiglio dei ministri – il superministro si è sperticato in avvertimenti sulla pericolosità del momento, sulla necessità di portare a casa la pelle – “primum vivere deinde philosophare” – sull’unione delle forze per fare la manovra “tutti insieme”. Se la manovra passa, se l’Udc la vota e la maggioranza tiene, Tremonti potrà certamente proporsi come un elemento di stabilizzazione di gran lunga superiore a un Berlusconi che ha come vocazione quella di stabilizzare solo sé stesso e i propri affari.
Ecco quindi che nel Pd, consapevoli di questo scenario e di questa dinamica, si mordono le mani. Perché la manovra, loro, non l’avrebbero fatta mica tanto diversa. La tracciabilità dei pagamenti, ora riscoperta dal Pdl, è invenzione di Vincenzo Visco, l’odiato ex ministro delle Finanze; i tagli all’indennità dei parlamentari sono popolari e quindi vanno bene; la tassazione degli stipendi superiori ai 130 mila euro è in linea con la politica fiscale del centrosinistra; certo, ci sono i tagli alle Regioni e l’attacco ai dipendenti pubblici nonché ai lavoratori pensionandi, ma non è che il centrosinistra quando era al governo si fosse risparmiato in questa direzione. Lo stesso condono edilizio viene mascherato da censimento immobiliare con un Chiamparino che ha subito avallato questa lettura.
Si capisce, quindi, perché ci siano diversi dirigenti che non solo hanno dichiarato la disponibilità a votare la manovra (Follini) ma che propongono di discuterla seriamente in Parlamento senza bollarla nettamente per la schifezza che è. Lo stesso Bersani che se ne è andato in Cina – e non si può non sottolineare l’assoluta incapacità del segretario Pd di scegliere i tempi – parla di “manovra depressiva” di “favola finita”, riferendosi a Berlusconi, senza indicare nessuna mobilitazione. Solo Di Pietro e la sinistra radicale si frappongono nettamente.
Poi c’è la Cgil, che ha dato un giudizio netto – “è iniqua e contro i lavoratori” – ma che non sa bene come reagire. Cremaschi, della minoranza interna, chiede “lo sciopero generale” ma la maggioranza su questo punto vuole prima vedere bene come si mettono le cose. A un Tremonti che si fa Papa l’opposizione risponde, come al solito, balbettando e rinviando. Intanto, una delle finanziarie più pesanti degli ultimi venti anni sta per abbattersi sulle spalle dei soliti noti.