Il ritorno della lotta di classe
Il 25 marzo la ministra Fornero, in una intervista a «Repubblica» in riferimento alla modifica dell’articolo 18, chiedeva alle imprese: «Non abusate della buona flessibilità che la riforma introduce». Come se legiferare fosse un esercizio neutro che si innesta su un panorama asettico, privo di conflitti, come se gli abusi non stessero nella natura delle cose, in un assetto socio-economico fondato su un’asimmetria di fondo nelle relazioni tra capitale e lavoro e dove l’antagonismo tra i due fattori, se non si vuol fare dell’ideologia, appare del tutto evidente e concreto nell’agire quotidiano. L’ultimo libro di Luciano Gallino (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2012, pp. 216, euro 12) ha il merito di riportare all’attenzione proprio le relazioni conflittuali tra impresa e lavoro. Non è mai un problema di buona o cattiva volontà dei soggetti in campo, quanto di ruolo che si svolge nelle rispettive strutture esistenti, contrapposte per interessi e movenze all’agire. Gallino così riesuma un vecchio concetto che sembrava divenuto demodé per riattualizzarlo nel nuovo contesto, un concetto che rimane imprescindibile per la comprensione delle dinamiche socio-economiche contemporanee. La lotta di classe, infatti, è un importante motore della storia anche quando non si vede, anche quando non è automaticamente leggibile. Quando il capitale è chiaramente dominante ed egemone sul lavoro riesce persino a eclissare le più elementari dinamiche conflittuali che si impongono nella società. É il caso dell’impresa nel suo attuale predominio incontrastato, che la rende l’unica classe sociale non solo marxianamente in sé, cioè che esiste nella realtà sociale, ma per sé, cioè consapevole dei propri bisogni e privilegi. Negli anni successivi alla sconfitta del movimento operaio organizzato a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, la lotta di classe è stata condotta pressoché unilateralmente dal capitale ai danni del lavoro.
Il libro del sociologo torinese, che è strutturato in una lunga intervista a cura di un’altra sociologa, Paola Borgna, inizia con la definizione della precondizione per la lotta di classe: l’esistenza delle classi sociali. La presunta fine della lotta di classe, infatti, deriverebbe dalla scomparsa delle classi. Esse non si vedono più in quanto quelle subalterne non sono più visibili, ma «una classe sociale esiste indipendentemente dalle formazioni politiche che ne riconoscono o meno l’esistenza, e perfino da ciò che i suoi componenti pensano o credono di essa» (p.4). Per Gallino appartenere a una classe significa «appartenere, volenti o nolenti, a una comunità di destino, e subire tutte le conseguenze di tale appartenenza» (p.4). Da questo punto di vista permane una dimensione sociale vissuta collettivamente, che trova riscontro in numerosi dati economici che confermano come attualmente venga condotta una lotta di classe dall’alto da parte delle classi dirigenti. Esiste un collante ideologico di queste ultime che consente, con traiettorie persino spontanee, ma sempre convergenti, di condurre una battaglia contro il lavoro e le classi subalterne. La lotta di classe oggi è data nella sperequazione fiscale, aggravata recentemente dalle politiche di austerità e di rigore di bilancio, nella competitività sui costi, comprese delocalizzazioni e flessibilità generalizzata, nella riduzione dei diritti e della salute nei luoghi del produrre, fino a giungere a una dimensione della lotta di classe che si esprime nella vita quotidiana. Qui Gallino dedica una particolare attenzione alle ricadute di questa lotta nella vita concreta delle persone, specialmente delle donne, nel loro vivere i quartieri, la sicurezza, il tempo libero. Parla della fatica, di quella fisica, mai scomparsa, dentro e fuori la fabbrica. Fino a smentire tante teorie sull’allungamento dei tempi di vita a cui dovrebbe corrispondere un progressivo allungamento dei tempi di lavoro. In Germania tra gli operai e il gruppo socio-economico più benestante c’è una differenza di attese di vita di ben 6 anni, in Inghilterra un avvocato vive mediamente 5 anni più di un operaio specializzato. A Torino, se si classifica la popolazione secondo la ricchezza, si scopre che i più ricchi vivono fino a 80.6 anni, mentre la speranza di vita scende per i più poveri fino a 75 anni (p. 182). Differenze di classe che rispondono direttamente alla frattura tra capitale e lavoro, tra ricchezza e povertà, tra privilegi e rendita da un lato e sforzo fisico e intellettuale messo al lavoro dall’altra.
Gallino poi contraddice quello che al momento parrebbe l’unico argomento di un certo peso in difesa del capitalismo globale, cioè che a un relativo impoverimento di una modesta parte della popolazione mondiale (leggi occidentale) corrisponderebbe l’uscita dalla povertà di centinaia di milioni di individui nel mondo. Il capitalismo prova ad iscriversi tra i propri meriti l’affermarsi di una sorta di eguaglianza globale. In realtà, nonostante esista un movimento in questa direzione, riguarda numeri piuttosto modesti e soprattutto avviene nel solco di una drammatica redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto. Gallino snocciola dati su dati della Banca mondiale, dell’Ocse, di alcuni centri studi bancari, che dimostrano non solo come le diseguaglianze su scala globale siano aumentate a partire dagli anni Ottanta, ma come il numero dei più poveri sia in aumento in cifre assolute (pp. 104-109). Le diseguaglianze crescono a livello planetario, ma anche nei singoli paesi, compresi quelli occidentali, sebbene in questi ultimi con differenze che rimangono relativamente contenute se paragonate ad alcuni paesi emergenti. Nel complesso però «l’obiettivo è palese: far incontrare i due mondi del lavoro sulla parte inferiore della scala anziché su quella più alta» (p. 122).
Il libro di Gallino, dunque, rappresenta una lucida disamina delle trasformazioni socio-economiche in corso a cui guarda con disincanto, senza nascondere quanto le condizioni strutturali siano «assai negative» e come politica e sindacati non abbiano fatto molto per circoscrivere o alleviare i problemi della classe lavoratrice globale. La crisi economica ha evidenziato come il mercato abbia creato un immenso apparato in sovracapacità produttiva che lascia inevasa una quantità enorme di bisogni sociali. Il problema che resta da risolvere consiste nel ritrovare il bandolo della matassa, le strategie per disvelare l’egemonia mercatista e allo stesso tempo i percorsi di ricomposizione possibili. Le due dimensioni o staranno insieme oppure non vi sarà nessuna prospettiva di cambiamento. Da questo punto di vista il lavoro sarà lungo e difficile, fatto di nuove pratiche e nuove teorie, e la ritrosia del libro ad affrontarlo ci parla di quale sia l’urgenza una volta messe a fuoco adeguatamente le questioni che Gallino ha sistematizzato. Come andare oltre la decostruzione identitaria e sociale operata dal capitale sul lavoro, per ridefinire nelle nuove condizioni la dualità di questi fattori. Si tratta di contribuire e favorire un nuovo e inedito passaggio dalla classe in sé a quella per sé del lavoro contemporaneo. Averne consapevolezza è garanzia di andare nella corretta direzione. Altrimenti la lotta di classe la fanno solo gli altri.