Imprese recuperate nell’emisfero settentrionale
Durante la crisi economica finzianziaria del 2008 ci furono varie occupazioni di fabbriche nell’emisfero settentrionale, in particolare in Francia, Italia, Turchia, e Spagna, ma non solo; anche in Svizzera, Germania, Stati Uniti e Canada. Nella maggior parte dei casi l’occupazione da parte dei lavoratori è stata una strategia di lotta e non un un passo verso il controllo operaio. Nei casi dove l’organizzazione operaia era maggiore sono stati portati a termine i propri obiettivi, mentre in altri casi le occupazioni, che erano sorte spontaneamente come conseguenza dell’indignazione dei lavoratori di fronte alla chiusura improvvisa o ai massici licenziamenti, le lotte si sono smottate senza un risultato concreto. Senza dubbio è stata però la prima volta, dopo decenni, che varie lotte sono state portate a termine con la prospettiva di produrre sotto il controllo operario, qualcosa che non era né nell’immaginario dei lavoratori né in quello dei ricercatori dell’emisfero settentrionale.
Dal 2008 i lavoratori hanno recuperato imprese negli Stati Uniti, Francia, Italia, Grecia, Turchia, Tunisia ed Egitto. In questo articolo si descriveranno e si analizzeranno alcune fabbriche recuperate negli Stati Uniti, Italia, Francia, Grecia,Turchia ed Egitto, individuando le caratteristiche in comune e le divergenze.
In America Latina l’occupazione di imprese da parte dei lavoratori e lavoratrici ha accompagnato le crisi economiche fin dagli anni 90, ricevendo un forte impulso dalle occupazioni in Argentina conseguenti alle crisi del 1992-2002. Al principio del 2014 c’erano 311 imprese recuperate dai loro stessi lavoratori e lavoratrici (ERT) in Argentina, dozzine di ERT esistono in Brasile, Uruguay e Venezuela, e in minor numero si trovano ERT anche in quasi tutto il resto del continente (NESS; AZZELINI, 2011, REBÓN, 2004, 2006, RUGGERI, 2010, SITRIN, 2006, 2013). La crisi del 2008 ha fatto sì che le occupazioni di imprese siano in aumento un’altra volta.
In Argentina sono sorti 63 nuovi recuperi dal marzo 2010, 41 dei quali corrispondono al 2012 e 2013.
Tuttavia, in Europa o negli Stati Uniti, occupare imprese per riportarle a produrre un’altra volta è qualcosa che, aldilà di rari casi isolati, non accadeva dagli annia Settanta. Alcune di queste battaglie hanno ricevuto attenzione internazionale, come nel caso di Vio.Me a Salonicco, in Grecia, che ha cominciato con una nuova produzione sotto il controllo operaio nel Febbraio del 2013. Un altro esempio è quello di Republic Windows and Doors di Chicago, Stati Uniti, che ha ripreso la sua produzione nell’aprile del 2013. Altre imprese come la francese Fralib, che si occupava di produrre tè in sacchetto nella città di Gémenos, Francia, ha ricevuto almeno un po’ dell’interesse internazionale. La maggior parte dei casi tuttavia, è ancora molto poco conosciuta, come la fabbrica di gelati e yogurt ex-Pilpa in Francia, Officine Zero a Roma e la Ri-Maflow a Milano, Kazova Tekstil a Istanbul, o in Egitto l’acciaieria Kouta e la Cleopatra Ceramics con un impianto nella stessa Kouta e un altro ad Ain Sukhna. È probabile però che le lotte per il controllo operario e il recupero delle fabbriche siano di numero superiore a quelle conosciute.
Per tutti i lavoratori e le lavoratrici di queste imprese recuperate le esperienze dell’America Latina, in particolare quelle dell’Argentina, sono state di grande ispirazione.
Ri-Maflox a Milano ha adottato il motto “ocupar-resistir-producir” (MALABARBA, 2013, P. 146). Republic Windows and Doors di Chicago e Vio.Me a Salonicco hanno ricevuto visite dai lavoratori di imprese recuperate in Argentina prima ancora che ricominciassero a produrre o addirittura prima ancora che si fosse deciso di occupare la fabbrica. Persino l’incontro europeo La economía de los trabajadores, avvenuto nella frabbrica recuperata Fralib, vicino a Marsiglia, agli inizi del 2014, è dovuto in gran parte allo sviluppo della situazione in Argentina .
Tutte le occupazioni e i recuperi di fabbriche scaturiscono da situazioni difensive e non, come in altri momenti storici, a partire da una posizione di forza.
Questo è stato il caso di tutti i recuperi, a partire dall’attacco neoliberale sferrato ai lavoratori al principio degli anni Ottanta. Le eccezioni sono state molto rare, come le recenti lotte per il controllo operario in Venezuela. Come conseguenza della crisi, le occupazioni e i recuperi sono portati a termine da lavoratori e lavoratrici come reazione alla chiusura dell’impianto o dell’impresa stessa, oppure anche al trasferimento della produzione in un altro paese. I lavoratori e le lavoratrici difendono il loro posto di lavoro come conseguenza del fatto che le prospettive di incontrarne un altro sono poche o nulle. In questa situazione difensiva, i lavoratori non si arrendono e non si limitano a manifestare: prendono l’iniziativa e si convertono nei protagonisti della situazione. Nella sua lotta il lavoratore costruisce relazioni sociali orizzontali, adottando meccanismi di democrazia diretta. Molto spesso capita che le fabbriche recuperate devono reinventarsi; costruiscono così dei legami con comunità vicine e con gli altri movimenti.
È importante riconoscere la diversità delle situazioni, del contesto e delle modalità dei recuperi.
Nonostante le differenze però è necessario stabilire alcuni criteti di base rispetto alle fabbriche recuperate. Le caratteristiche finora descritte non sono necessariamente valide per tutti i recuperi. Non tutte le fabbriche devono adempiere a tutti i criteri per essere incluse nelle ERT in questione. Anche se è fondamentale capire i recuperi non come un atto meramente economico-produttivo, ma come una operazione socio-politica, diversamente, perderemmo il nesso con la capacità generatrice di alternative alla miseria capitalistica delle imprese recuperate. Alcuni autori, sicuramente con le più buone intenzioni, hanno calcolato che ci sono 150 ERT in Europa (TROISI, 2013).
Uno sguardo più accurato ci mostra però che molte poche di queste 150 ERT possono essere realmente considerate imprese/fabbriche recuperate sotto il controllo operaio. Il conteggio include le imprese che sono state acquistate dai loro lavoratori o impiegati. La maggior parte di queste, nel migliore dei casi, ha adottato la struttura di cooperativa tradizionale. Molte, se non la maggioranza, hanno gerarchie interne e quote di proprietà individuali. Nel peggiore dei casi possiamo perfino trovare una distribuzione disuguale nella gerarchia sociale dell’impresa (e con questo quindi il potere economico, con impiegati d’ufficio e dirigenti con diritto a quote maggiori di proprietà); in tutto ciò si trovano perfino soci o azionisti esterni (a titolo individuale o come altre imprese).
Definire queste imprese come imprese recuperate riduce il concetto di recupero a fronte di una continua esistenza di una compagnia originariamente destinata alla chiusura; ciò che cambia è solo il numero dei proprietari (da uno, a molti), alcuni dei quali impiegati all’interno dell’impresa.
Quindi, nonostante queste imprese abbiano mantenuto di fatto i posti di lavoro, non sembra appropriato il termine “recuperate” già che non sono riuscite a promuovere un cambio di prospettiva rispetto all’organizzazione della produzione e della società.
CI SONO COOPERATIVE E COOPERATIVE
Le imprese recuperate dai loro lavoratori hanno solitamente la forma legale di una cooperativa. Questo è dovuto al fatto che la forma legale della cooperativa è l’unica possibile per registrare ufficialmente un’impresa di proprietà e amministrazione collettive. Senza dubbio però, bisogna distinguere tra cooperativismo comune ed imprese recuperate. Anche se nella maggioranza dei casi è senza dubbio più piacevole lavorare in una cooperativa (senza superiore, senza rigide gerarchie e con una maggiore autodeterminazione) rispetto a una comune impresa, questo non deve farci omettere le contraddizioni e le problematiche del cooperativismo.
Il cooperativismo raramente mette in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione e anzi, tipicamente la proprietà è all’origine del diritto di partecipare alla presa di decisioni e alla spartizione dei benefici. Questa cognizione con la sua logica fanno parte delle fondamenta del capitalismo. Possiamo così dire che le cooperative possono significare un avanzamento nella democratizzazione della proprietà dei mezzi di produzione nella cornice dell’economia capitalistica, ma ciononostante non rappresentano un’alternativa al capitalismo.
Esercitare all’interno di un’economia capitalistica senza seguirne le regole è una cosa estremamente difficile. Il capitalismo è una voragine. Se tutte le cooperative fondate nel corso degli ultimi 100 anni continuassero tutt’oggi ad essere solidali e controllate dai loro lavoratori e lavoratrici, formerebbero una parte importante dell’economia. Eppure non lo fanno. La maggioranza delle cooperative vede svanire i propri ideali con l’avanzamento di età dei suoi membri. La maggioranza delle cooperative che ha cominciato con buone intenzioni e grandi ideali -se è riuscita a sopravvivere in un ambiente ostile- è andata sempre di più facendo concessioni ideologiche e materiali. In molti casi quando raggiungono certe dimensioni le cooperative vengono acquisite da investitori o compagnie, o adottano loro stesse quelle logiche. Come già Rosa Luxemburg (1900, p. 39) affermava:
Le cooperative, soprattutto quelle di produzione, costituiscono una forma ibrida all’interno del capitalismo. Possono essere descritte come piccole unità di produzione socializzata dentro lo scambio capitalista.
Ma nell’ economia capitalista lo scambio domina la produzione (ossia, la produzione dipende in gran misura dalle possibilità del mercato). Come frutto della concorrenza, il dominio totale del processo di produzione per gli interessi del capitalismo – ossia lo sfruttamento impietoso – si convertono in fattori di sopravvivenza per ogni impresa. Il dominio del capitale sul processo di produzione si esprime in vari modi. Il lavoro si intensifica. La giornata lavorativa si accorcia o si allunga a seconda della situazione del mercato. E sempre secondo le richieste del mercato, la mano d’opera è impiegata o scagliata di nuovo in strada. In altre parole, si utilizzano tutti i metodi che permettono all’impresa di far fronte ai suoi concorrenti nel mercato. Gli operai che fondano una cooperativa di produzione si vedono così nella necessità di controllarsi con il massimo assolutismo. Si vedono costretti ad assumere loro stessi il ruolo di imprenditori capitalisti, contraddizione questa responsabile del fracasso delle cooperative di produzione che vanno a convertirsi così in imprese puramente capitaliste; continuano a predominare gli interessi operai, ma finiscono per dissolversi.
Il fatto che la maggioranza delle cooperative operi nella cornice dell’economia capitalista e competa nel Mercato capitalista seguendo la logica di aumentare il plusvalore, ha ripercussioni profonde per le imprese e i modelli di gestione e produzione che queste adottano. Molte cooperative hanno dipendenti che non sono integrati nella stessa. Oltretutto si trovano differenze di stipendio che, anche se non è tanto alto come nelle imprese private comuni, uno stipendio di un incarico amministrativo può arrivare ad essere varie volte superiore a quello di un lavoratore comune. Oltre a ciò, molte cooperative, seppur figurino come proprietà dei lavoratori, di fatto non sono amministrate da quest’ultimi, specialmente le più grandi.
Nella maggior parte delle aree economiche è impossibile competere con le imprese capitaliste, oltre che produrre e vendere più di queste e a minor costo. Il settore economico, cooperativo e solidale crescerà sempre più lentamente che quello privato, che segue saldamente le regole capitaliste. Questo accade anche dove le condizioni sono favorevoli, come in Venezuela durante gli ultimi 15 anni. Senza una nozione di proprietà comune o proprietà sociale la solidarietà tra cooperative diventa molto difficile. Ogni cooperativa tende a vedersi come impresa che deve competere con le altre, sconnessa dalle altre cooperative, senza nemmeno appoggiarle, e senza essere appoggiata da queste. Ciò che è stato definito come spirito impreditoriale (da ultimo, coscienza imprenditoriale) spezzerà il compromesso di costruire una economia controllata dai lavorati e dalle comunità.
Il famoso esempio della rete cooperativa di Mondragón (Mondragón Corporación Cooperativa, MCC) nei Paesi Baschi, frequentemente elogiata come esempio di uno tra i cooperativismi più avanzati, evidenzia le tendenze descritte come conseguenza della pressione capitalista.
MCC è proprietà dei lavoratori, ma non è amministrata da questi. Per sopravvivere all’interno di mercati molto competitivi, MCC ha esternalizzato parte della sua produzione in altri paesi d’Europa, Africa, Asia e America Latina. Nel 2014 conta 105 stabilimenti in diversi paesi, tra cui Brasile, Cile, Colombia, Messico, Marocco, Turchia, Thailandia, Taiwan, India, Romania, Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca e altri paesi dell’ Europa occidentale, Cina (15 stabilimenti!), Vietnam, Australia, e Stati Uniti. Nessuno di questi stabilimenti è di proprietà dei lavoratori e men che meno amministrato da questi ultimi.
Il segmento industriale di MCC ha riportato vendite record nel 2012, superando perfino i livelli di vendita anteriori alla crisi, e ha aperto 11 nuovi stabilimenti produttivi internazionali .
Nonostante questi successi, una delle imprese maggiori di MCC, Fagor Electrodomésticos, ha dichiarato bancarotta nell’ottobre del 2013, dopo che il Consiglio Generale dei Gruppo Mondragón decise di non salvare l’impresa altamente indebitata a causa delle perdite subite durante la crisi e da una cattiva amministrazione finanziaria.
Nello stabilimento dei Paesi Baschi, 5.600 lavoratori e lavoratrici hanno perso il posto di lavoro. Altri posti di lavoro sono a rischio in più di 50 imprese basche fornitrici di Fagor Electrodomésticos. Nel novembre 2013 alcune centinaia di lavoratori e lavoratrici hanno occupato lo stabilimento centrale. Una delle richieste principali era quella che la chiusura non danneggiasse gli investitori individuali, che erano in gran parte lavoratori che avevano investito i loro risparmi.
MCC è stata fortemente criticata per la sua decisione, che non differisce dal tipo di decisione che una qualsiasi compagnia privata avrebbe preso in questo caso .
Il dato che le attuali imprese recuperate, controllate dai loro lavoratori e lavoratrici, abbiano quasi sempre la forma legale di cooperative è dovuto al fatto che la cooperativa è l’unica forma legale esistente che permette la proprietà e l’amministrazione collettiva delle imprese. In generale, tuttavia, le ERT sono proprietà collettive senza nessuna possibilità di proprietà individuale; tutti i lavoratori hanno la stessa parte di proprietà e la stessa voce a riguardo. Il dibattito implicito della proprietà privata dei mezzi di produzione è una caratteristica importante e distintiva delle ERT.
Esse propongono un’alternativa al capitalismo basata essenzialmente sull’idea di forme di proprietà collettive o proprietà sociali. I mezzi di produzione non sono considerati di proprietà privata (appartenenti a individui o gruppi di azionisti), ma sono di proprietà sociale o propriedad común, amministrata direttamente e democraticamente dai più colpiti della faccenda. Sotto diverse circostanze questo – aldilà dei lavoratori – può includere la partecipazione di comunità, altri centri di lavoro fino ad alcuni interventi da parte dello stato (per esempio in paesi come il Venezuela o Cuba). Il fatto che i lavoratori controllino il processo di produzione e siano centrali nella presa di decisioni, li transforma in rappresentanti politici e sociali, più in là del processo di produzione e dell’impresa stessa (MALABARBA, 2013).
Gigi Malabarba (2013, p.147) afferma correttamente che:
È essenziale che le forme di autogestione cooperative siano collocate fermamente nel contesto di una dinamica di conflitto, in sintonia con il complesso delle lotte sociali, a partire dalle lotte del lavoro insieme ai militanti sindacali combattenti: non si può isolare questa lotta, non possiamo smettere di pensare di essere parte di un fronte di classe più complesso. Come potremmo estrarre da soli una legge che permetta seriamente di espropriare le aree occupate per un suo uso sociale?
Riassumendo, come potremmo costruire relazioni sociali e politiche di forza per contrastare la dittatura del capitale e strappare qualche risultato?
Solo in questa maniera le cooperative autogestite e gli ambiti economici fondati nella solidarietà possono avere un effetto di coesione per i lavoratori e giocare il ruolo di coloro che preannunciano la fine dello sfruttamento del lavoro per il capitale, evidenziando le contraddizioni del sistema, soprattutto in questo periodo di profonda crisi strutturale.
Tutti gli esempi che seguiranno di imprese recuperate, dalla crisi del 2008 in poi, coincidono con queste modalità. I lavoratori e le lavoratrici di queste imprese recuperate si riconoscono uno nell’altro e si vedono come parte di un movimento più ampio. Makis Anagnostou, rappresentante del sindacato dei lavoratori di Vio.Me (Salonicco, Grecia) rettifica: “Abbiamo avuto molti contatti con i movimenti internazionali. Attivisti di tutto il mondo sono venuti qui per vedere come lavoriamo. Lavoratori di imprese recuperate in Argentina e di altri paesi sono venuti a condividere la loro esperienza. Noi abbiamo raccolto quelle esperienze e le abbiamo adattate al nostro personale contesto. Abbiamo partecipato a incontri internazionali di imprese e ci sentiamo parte di un movimento internazionale. Fin dall’inizio abbiamo voluto che si trattasse di una lotta internazionale visto che non crediamo che una fabbrica, o un paese, possano fare una grande differenza”.
I lavoratori dell’acciaieria Kouta in Egitto hanno inviato un comunicato di solidarietà ai lavoratori di Vio.Me quando hanno sentito che la fabbrica era stata occupata (Kouta Steel Factory Workers 2013). Nell’aprile/maggio 2014 i lavoratori di Vio.Me, Officine Zero e Ri-Maflow hanno partecipato alla campagna internazionale di solidarietà insieme all’Hotel Bauen (Argentina), quest’ultimo prelevato dai suoi lavoratori e lavoratrici da più di dieci anni.
IMPRESE RECUPERATE IN FRANCIA
Nel decorrere dell’attuale crisi ci sono due casi di ERT in Francia conosciuti per le loro ardue lotte. Uno è il caso della Fabbrica di Gelati Pilpa e l’altro è quello della Fralib, produttrice di tè e infusi in sacchetto. Entrambe sono state chiuse dalle multinazionali proprietarie per riubicare la produzione in altri paesi.
PILPA- LA FABRIQUE DU SUD
Pilpa è una compagnia che da più di 40 anni produce gelati nella zona di Carcassone, nel Sud della Francia. Pilpa apparteneva alla grande cooperativa agricola 3A, che collocava i suoi gelati, provenienti da varie marche famose in Francia, nella catena di supermercati Carrefour. Dovuto a difficoltà finanziare 3A vendette la Pilpa nel settembre 2011 all’impresa di gelati e latticini R&R (seconda in Europa per la vendita di gelati che al tempo apparteneva al fondo di investimenti Oaktree Capital Managment degli Stati Uniti). Nel luglio 2012 R&R annunciò che Pilpa avrebbe chiuso e che la produzione sarebbe stata trasferita, lasciando 113 lavoratori e lavoratrici senza lavoro. R&R aveva acquistato la Pilpa solo per acquisire i marchi assegnati in Francia e, con questi, anche le reti di distribuzione attraverso Carrefour, in modo da ottenere più vantaggi (di fatto poi la R&R fu venduta nell’aprile 2013). I lavoratori resistettero, occupando la fabbrica e cominciando ad organizzare un movimendo di solidarietà. Il loro obiettivo era salvare il luogo di produzione (BORRITS, 2014).
I lavoratori montarono la guardia per 24 ore al giorno per impedire che i proprietari smantellassero la fabbrica e si portassero via i macchinari. Nel dicembre 2012 i lavoratori ottennero una delibera giudiziaria che dichiarò il piano sociale per i lavoratori e gli indennizzi proposti dalla R&R “non adeguati”. Mentre la R&R elaborava una nuova proposta, 27 lavoratori elaborarono un piano per trasformare la ex Pilpa in una cooperativa di proprietà dei lavoratori e sotto il controllo operaio, con il nome di Fabrique du Sud.
Nel maggio 2013 il nuovo proprietario della R&R accettò di pagare a tutti i lavoratori una somma che andava dalle 14 alle 37 mensilità e 6.000 Euro per la specializzazione lavorativa. Si compromise inoltre di pagare alla cooperativa più di 1 milione di Euro in assistenza finanziaria e tecnica per le competenze professionali e analisi di mercato, consegnando anche i macchinari per una linea di produzione. In cambio la Fabrique du Sud accettò di non operare nello stesso mercato.
L’amministrazione municipale di Carcassone poi, decise di comprare il terreno nel quale si trovava la fabbrica (BORRITS, 2014). Rachid Ait Ouaki (2013), ex lavoratore della Pilpa, e oggi componente della Fabrique du Sud, chiarisce che per loro non è stato un problema accettare di non operare nella stessa fascia di mercato:
Noi andremo a produrre gelati e yogurt eco-sostenibili e di migliore qualità. Utilizzeremo solo ingredienti regionali – a partire dal latte e anche la frutta – e distribuiremo anche la nostra produzione a livello locale. Allo stesso tempo, manterremo i prezzi bassi per i consumatori. Non produrremo 23 milioni di litri l’anno come ha fatto la Pilpa. La Fabrique du Sud produrrà 2-3 milioni di litri che distribuirà a livello locale. Solo 21 dei 113 lavoratori della Pilpa si sono uniti alla cooperativa, visto che abbiamo dovuto investire più denaro in questa, includendo il fatto che abbiamo richiesto i benefici di disoccupazione attraverso un programma per la creazione di imprese, e non tutti i lavoratori volevano correre questo rischio.
Come già in altri casi, la cooperativa è il modello legale che l’impresa sotto controllo operaio ha dovuto assumere. Le decisioni comunque, vengono prese insieme e il guadagno della produzione iniziata nell’aprile 2014 verrà distribuito in parti uguali.
FRALIB- IL MARCHIO CON L’ELEFANTE
Fralib è una fabbrica di frutta ed erbe per la pruduzione di tè in bustina, situata a Gémenos, vicino a Marsiglia. Lo stabilimento produceva il tè per il famoso marchio Thé Eléphant, fondata 120 anni fa, e per la Lipton. Nel settembre 2010 l’internazionale azienda di alimenti Unilever, proprietaria di Lipton, decise di chiudere i suoi stabilimenti in Francia e di trasferire tutta la produzione in Polonia.
I dipendenti risposero a questa decisione occupando la fabbrica e lanciando una campagna di boicottaggio contro Unilever. Il sindacato Confederación General del Trabajo (CGT), precedentemente vicino al Partito Comunista, appoggiò i lavoratori della Fralib. “La protesta alla Fralib cominciò il 28 settembre 2010. Nel 2010 c’erano 182 lavoratori. Oggi nella lotta siamo 76”, commenta Gérard Cazorla , meccanico e segretario della CGT alla Fralib. I dipendenti vogliono ricominciare la produzione nella fabbrica sotto il controllo operaio e rimanere con il logo con l’elefante, aggiungendo che si tratta di un patrimonio culturale regionale. I dipendenti vogliono produrre tè biologico alle erbe, in particolare quella di tiglio, basandosi su una produzione regionale. Allo stesso modo della maggioranza degli altri casi di ERT, la lotta autogestita dei lavoratori e lavoratrici della Fralib ha tre caratteristiche: il progetto produttivo, la protesta pubblica e la costruzione di una campagna di solidarietà e lotta legale contro Unilever.
Facciamo una produzione militante per far conoscere la nostra lotta e per poter avere i soldi per la campagna di solidarietà. Abbiamo passato molto tempo senza stipendio e dobbiamo vivere. È stata la solidarietà che ci ha permesso di vivere per tutto questo tempo. Mi sembra sia importante far conoscere la nostra lotta in Francia, in Europa e nel mondo, e la nostra produzione ci aiuta in questo. Il nostro prodotto prima era il tè – diciamo- industriale, adesso produciamo tiglio biologico.
Così mostriamo anche che le macchine funzionano e che siamo capaci di far funzionare la fabbrica. Questo è essenziale per far vedere alla popolazione che la Fralib può funzionare senza un padrone e senza Unilever.
Il 31 gennaio e l’1 febbraio 2014 la Fralib accolse il primo incontro europeo “La Economía de los Trabajadores”. Più di 200 lavoratori provenienti da 5 fabbriche europee sotto controllo operaio hanno partecipato all’incontro ispirato e direttamente vincolato alla conferenza mondiale del “La Economía de los Trabajadores”, che è organizzata ogni due anni e ha avuto la sua terza edizione nel 2013, in Brasile. Ricercatori provenienti da Argentina, Messico e Brasile parteciparono anche all’incontro di Marsiglia, alla stessa maniera di un lavoratore della fabbrica tessile argentina Pigüé. Per celebrare l’evento con una strizzatina d’occhio al movimento argentino di ERT, la Fralib se ne uscì con una produzione di yerba mate.
I lavoratori e le lavoratrici della Fralib ottennero delle ordinanze ministeriali revocando i procedimenti di chiusura e i piani sociali proposti più volte da Unilever. La Fralib non chiuse ufficialmente di fatto fino al settembre 2012. Nel marzo 2013 Unilever smise di pagare gli stipendi nonostante la presenza di una sentenza giudiziaria che obbligava Unilever a pagarli.
Nel settembre 2013, la Municipalità Urbana di Marsiglia, la Provence Métropole, ha comprato il terreno nel quale si trova la fabbrica, pagandolo 5,3 milioni di Euro e pagando anche un Euro simbolico per i macchinari con il fine di appoggiare lo sforzo dei lavoratori. Questi ultimi sanno che ciò non è sufficiente per riprendere la produzione e continuano con la loro lotta, come spiega Cazorla:
Nel gennaio 2014 il piano sociale di Unilever è stato revocato da un tribunale per la terza volta.
Adesso stiamo discutendo con i direttivi di Unilever, mentre costruiamo il nostro progetto.
Abbiamo bisogno dei diritti sul marchio, capitale per comprare la materia prima e la capacità di vendere i nostri prodotti, altrimenti non potremo produrre e pagare i 76 lavoratori. Vogliamo che questi soldi li paghi Unilever come compenso per averci congedato.
ITALIA: OFFICINE ZERO E RI-MAFLOW
In Italia durante gli ultimi anni una trentina-quarantina di piccole e medie imprese chiuse per fallimento sono state rilevate dai loro lavoratori e si sono convertite in cooperative.
Sebbene siano state equiparate dai mezzi d’informazione ai casi Argentini (BLICERO, 2013, OCCORSIO, 2013), molte di queste non erano di fatto sotto il controllo operaio pieno e collettivo. Inoltre, non miravano ad elaborare un’alternativa al sistema capitalista che le aveva portate precedentemente al fallimento. Le cooperative lavorano con una struttura interna gerarchica e il subentrare di numero diverso di proprietari non ha cambiato il metodo di funzionamento. Alcune hanno semplicemente un minor numero di azioni in mano ai lavoratori, mentre la maggioranza è controllata da investitori esterni e dal personale direttivo. Due casi recenti però, Officine Zero a Roma e la Ri-Maflow a Milano, si distaccano dalla tendenza sopra citata e possono essere totalmente comparabili a molti casi latinoamericani di ERT.
OFFICINE ZERO
Officine Zero, ex RSI (Rail Service Italia), e prima ancora Wagons-Lits (Francia), si dedicava al mantenimento e alla riparazione delle carrozze letto. Quando nel dicembre 2011 il servizio ferroviario italiano optò per fermare l’impiego di treni notturni per incrementare quelli ad alta velocità, la RSI chiuse i battenti. A quel tempo, la forza lavoro era composta da 33 lavoratori metallurgici e 26 lavoratori dell’area di trasporto e amministrazione. Tutti quanti iniziarono a ricevere un sussidio di disoccupazione per la chiusura improvvisa. Ma non tutti accettarono questa chiusura.Venti lavoratori iniziarono una lotta. Emiliano Angèle, che lavorava dal 2001 come meccanico di treni per l’impresa e fu il leader del sindacato, spiega:
Nel febbraio 2012 ci siamo resi conto che già non c’era più niente da fare, non avevamo treni in produzione o per riparare, e allora ci chiudemmo dentro la fabbrica come prima forma di protesta.
Questo alla fine non servì a nulla visto che non avevamo lavoro da sbrigare. Tentammo altre risposte… le manifestazioni tradizionali, contatti con la politica, con il sindacato… tutto questo ci portò nuovamente a lavorare. Accanto alle nostre officine c’è un centro sociale occupato. Questi del centro sociale ci videro manifestare e offrirono appoggio alla nostra lotta. Al principio appoggiarono la nostra lotta per lavorare nuovamente con le carrozze letto. Dopo un po’ di tempo ci chiesero se le officine non potevano essere usate per produrre qualcos’altro. Noi non avevamo alcun pensiero a riguardo, ma tuttavia, ci era stata presentata un’idea alternativa basata sulle esperienze argentine, dove le macchine e le strutture sono state usate per produrre o lavorare qualcosa di diverso da quello che si fabbricava prima. Così nel settembre del 2012 inziammo a lavorare di nuovo. Abbiamo macchinari di falegnameria, tappezzeria, saldatrice e altro ancora. Con una saldatrice non devi necessariamente saldare un treno, puoi saldare qualsiasi cosa… per esempio, il tappezziere che prima rivestiva l’interno dei treni ora sta tappezzando l’interno di una barca. È così che ci siamo rimessi di nuovo al lavoro .
Insieme agli attivisti del centro sociale Strike, i lavoratori e le lavoratrici hanno formato un laboratorio di riconversione e hanno organizzato assemblee pubbliche con centinaia di persone.
Qui nasce l’idea pazza di Officine Zero. Lavoratori precari e indipendenti, artigiani, professionisti e studenti si sono uniti all’occupazione. Il 2 giugno 2013, Officine Zero è stata costituita ufficialmente come fabbrica ecosociale e si è presentata al pubblico con una conferenza e una manifestazione.
Officine Zero significa quindi: zero padroni, zero sfruttamento, zero contaminazione, come dice il suo stesso nome. Il nome suggerisce anche che si doveva trovare un nuovo punto di partenza. Gli ex lavoratori della RSI si dedicano principalmente al reciclaggio di elettrodomestici, computer e mobili. La commistione di forme di lavoro vecchie e nuove, unendo differenti situazioni di lavoro precario, cercando di superare l’isolamento e l’individualismo è un’idea centrale del progetto, come Emilano Angèle spiega:
Abbiamo trasformato gli uffici amministrativi dell’impresa in una area di condivisione, dove ci sono architetti, chi si occupa di comunicazione, video produzione ecc. Ci sono così molte realtà differenti che collaborano insieme. Io per esempio, prima ero meccanico, ora ogni tanto aiuto il mio collega a tappezzare la barca, e posso così accedere a nuove forme di lavoro e così fanno anche gli altri. Nella mensa della fabbrica abbiamo aperto un spazio per mangiare anche per gli esterni. Questo è il nuovo progetto che noi chiamiamo Officine Zero. È un progetto che non mira solo a recuperare i posti di lavoro degli interni, ma anche ad aprire lo spazio ad altri lavoratori e ad altre forme di lavoro .
Nella ex casa del dirigente dell’impresa, che si trovava nello stesso terreno, ci sono lavori in corso per rimodernarla e trasformarla in una casa per studenti (MASTRANDEA, 2013). I lavoratori si stanno preparando per dare inizio a laboratori di riciclaggio di macchinari elettronici e di energie rinnovabili (Blicero, 2013).
DA MAFLOW A RI-MAFLOW
L’impianto Maflow a Trezzano sul Naviglio, nella periferia industriale di Milano, faceva parte dell’impresa italiana produttrice di parti di automobile Maflow, che nel decennio a partire dal 1990 è diventata una delle imprese più importanti di tubi dell’aria condizionata in tutto il mondo, con 23 centri di produzione in diversi paesi. Lontana dal soffrire le conseguenze della crisi e con sufficienti clienti per mantenere tutti gli impianti di produzione, Maflow nel 2009 venne messa sotto accusa dai tribunali, per manipolazione fraudolenta dei beni e fallimento fraudolento. I 330 lavoratori dello stabilimento di Milano, principale centro di produzione Maflow, cominciarono una lotta per riaprire l’impianto e mantenere i loro posti di lavoro. Nel corso della lotta occuparono lo stabilimento e organizzarono spettacolari proteste. Grazie a questa lotta ottennero che la Maflow fosse venduta solo come impresa completa, includendo l’impianto di Milano. Nell’ottobre 2010 il gruppo Maflow fu venduto al gruppo finanziario polacco Boryszew. Il nuovo proprietario ridusse la paga a 80 impiegati e 250 lavoratori passarono a un fondo speciale di disoccupazione . Senonchè il nuovo proprietario non ottenne di riprendere con la produzione, e quindi, dopo due anni durante i quali la legge proibisce la chiusura di un’attività acquisita con queste circostanze, nel dicembre 2012 il gruppo Boryszew chiuse lo stabilimento Maflow di Milano. Prima di chiudere i nuovi proprietari tolsero gran parte dei macchinari (BLICERO 2013, OCCORSO 2013; MASSIMO LETTIERE) .
Un gruppo di dipendenti si era tenuto in contatto e non era disposto a darsi per vinto. Massimo Lettiere, ex lavoratore e delegato sindacale Maflow del sindacato di sinistra e radicale, Confederazione Unitaria di Base (CUB), spiega:
Facevamo assemblee da quando il gruppo Boryszew aveva comprato tutto. In una di queste assemblee abbiamo parlato della possibilità di prendere l’impianto e svilupparci alcuni lavori. Non sapevamo esattamente che lavoro farci, però avevamo capito che dopo tanto tempo nel fondo speciale, il prossimo passo sarebbe stata la disoccupazione. Così che non avevamo scelta e dovevamo tentare qualcosa. Nel 2012 abbiamo fatto alcuni studi di mercato e abbiamo deciso di creare una cooperativa per riciclare computer, macchine industriali ed elettrodomestici.
Quando lo stabilimento fu chiuso nel dicembre 2012, i dipendenti occuparono la piazza di fronte alla vecchia fabbrica, e nel febbraio 2013 entrarono e occuparono lo stabilimento, insieme a lavoratori precari e alcuni ex lavoratori di una fabbrica adiacente chiusa per fallimento fraudolento:
Restare fermi e aspettare che qualcuno ti dia una mano non ha senso. Dobbiamo riappropriarci dei beni che altri hanno abbandonato. Io sono disoccupato. Non posso investire del denaro per iniziare una nuova attività. Però posso prendere un capannone (sono 30.000 m² in totale) che è stato abbandonato e avviare un’attività. Così che il nostro primo vero investimento per il progetto è l’attività e l’azione politica. Abbiamo preso una decisione politica. Ed è da questo punto che noi iniziamo a lavorare.
La cooperativa Ri-Maflow è stata costituita ufficialmente nel marzo 2013. Nel frattempo, l’edificio della fabbrica è passato alla banca Unicredit. Dopo l’occupazione Unicredit ha accordato di non sollecitare lo sgombero. I venti lavoratori e lavoratrici che lavoravano alla Ri-Maflow hanno dovuto reinventarsi completamente all’istante, così come descrive Lettiere:
Abbiamo costruito una rete più estesa. La cooperativa Ri-Maflow ha l’obiettivo di sviluppare il riciclo di apparecchiatura elettronica come attività economica. Per raccogliere fondi abbiamo fondato l’associazione Occupy Ri-Maflow, la quale organizza lo spazio in fabbrica e le attività. In uno dei quattro capannoni abbiamo un mercato di cose usate. Abbiamo aperto un bar dove organizziamo concerti e facciamo teatro… una parte degli uffici gli abbiamo messi in affitto. Con tutte queste attività abbiamo cominciato ad avere un po’ di salario e abbiamo così comprato un camion e un montacarichi. Abbiamo rifatto tutto l’impianto elettrico, e ci paghiamo 300-400 Euro al mese. Non è molto, ma comunque insieme agli 800 Euro di sussidio di disoccupazione si arriva a 1100 Euro, che è quasi uno stipendio normale […]. Nel 2014 vogliamo lavorare di più con la cooperativa. Abbiamo già due progetti intrapresi ed entrambi sono connessi con questioni di ecologia e sostenibilità. Abbiamo costruito alleanze con produttori agricoli di prodotti biologici locali, formato un gruppo di acquisto solidale, abbiamo contattato le cooperative di Rosarno, Calabria, Sud e Italia. Sono cooperative che pagano stipendi giusti. Tre o quattro anni fa i lavoratori migranti che raccolgono la frutta si sono ribellati contro la schiavitù e lo sfruttamento da parte dei loro padroni. Noi compriamo arance da quelle cooperative e le vendiamo, e facciamo anche un liquore al limone e di arancia che vendiamo anche. Siamo in contatto con ingegneri senza frontiere, che lavorano al Politecnico per sviluppare un grande progetto sul riciclo. Prima di ottennere tutti i permessi necessari per realizzarlo passeranno anni. Abbiamo colto queste attività per motivi ecologici, riduzione degli sprechi, e per di più, abbiamo già cominciato a reciclare computer, che è facile, ma vogliamo farlo in larga scala.
I computer e gli elettrodomestici riciclati sono venduti al mercato dai lavoratori. Il bar-caffetteria apre tutti i giorni durante l’orario di lavoro ed è visitato anche da altri lavoratori della zona. L’interno del bar-caffetteria proviene da un ospedale di Monza, che si trova a 30 km di distanza da lì. L’ospedale voleva privatizzare il bar, e le lavoratrici hanno lottato contro la privatizzazione e hanno vinto. Il bar è stato così rinnovato e il vecchio assetto è stato recuperato dalla Ri-Maflow, che aveva appoggiato le lavoratrici di Monza nella loro lotta.
Quello che per un economo tradizionale può sembrare un mosaico di attività, è in realtà una trasformazione socialmente ed ecologicamente utile della fabbrica, con un focalizzazione complessa basata principalmente su tre cardini: “a) solidarietà, uguaglianza e auto-organizzazione tra tutti e tutte le associate; b) relazione di conflittualità con le controparti pubbliche e private; c) partecipazione e promozione di lotte per il lavoro, lo stipendio e i diritti” (MALABARBA, 3013, P.143).
GRECIA: VIO.ME DAI PRODOTTI CHIMICI PER LA COSTRUZIONE AI SAPONI BIOLOGICI
Vio.Me a Salonicco soleva produrre una colla industriale isolante e altri prodotti chimici per la costruzione. Nel 2010 i lavoratori iniziarono a non lavorare per quattro-sei settimane, senza stipendio. In seguito, i proprietari ridussero i salari dei lavoratori assicurando che sarebbe stato solo un provvedimento temporale e presto avrebbero ripreso a pagare i salari. La principale argomentazione dei proprietari era che i guadagni erano calati del 15-20%. Quando i proprietari non mantennero la loro promessa di pagare i salari arretrati, i lavoratori si dichiararono in sciopero, esigendo lo stipendio. In risposta alla loro lotta i lavoratori ottennero che i proprietari nel maggio del 2011 abbandonassero la fabbrica, lasciandosi alle spalle 70 lavoratori non pagati. Più tardi, i lavoratori vennero a sapere che l’impresa continuava a ricevere i benefici e le “perdite” erano dovute a un prestito che Vio.Me aveva concesso all’impresa madre Philkeram Johnson. Nel luglio 2011 i lavoratori decisero occupare lo stabilimento e prendere in mano il loro proprio futuro.
Come Makis Anagnostou, lavoratore della Vio.Me spiega:
Quando la fabbrica fu abbandonata dai proprietari per prima cosa intentammo negoziare con i politici e con la burocrazia sindacale. Ma comprendemmo in fretta che l’unica cosa che facevamo così era perdere il nostro tempo e frenare la lotta. Fu un momento difficile; la crisi stava mostrando degli effetti repentini ed intensi. Il tasso di suicidi in Grecia tra i lavoratori aumentò molto ed eravamo preoccupati che qualcuno tra i nostri compagni di lavoro potesse suicidarsi. Pertanto decidemmo aprire il nostro conflitto lavorativo alla società intera e il popolo si convertì così in nostro alleato. Abbiamo scoperto che gente che non pensavamo potesse fare niente, in realtà può fare molto! Molti lavoratori non erano d’accordo con noi o non hanno continuato la lotta per altre ragioni. Tra quelli di noi che hanno scelto il cammino della lotta, la base comune del nostro lavoro è l’uguaglianza, la partecipazione e la fiducia.
Vio.Me è diventata famosa a livello nazionale e internazionale. In Grecia ha ispirato altre occupazioni di imprese, anche se nessuna di queste è riuscita a mantenere il posto di lavoro e/o la produzione. Il caso più conosciuto a livello internazionale è stato l’occupazione dell’impresa pubblica di radio e televisione, ERT (Elliniiki Radiofonia Tileorasi). Dopo che il governo aveva annunciato l’11 giugno 2013 che tutte le stazioni radio e televisive pubbliche sarebbero state chiuse (per essere ristrutturare ed essere riaperte con meno lavoratori, meno diritti e salari più bassi), lavoratori e impiegati occuparono la radio e produssero i loro propri programmi fino a che furono brutalmente sgomberati il 5 di settembre. I lavoratori di Vio.Me ricominciarono la produzione nel febbraio 2013.
Adesso produciamo prodotti per la pulizia e saponi biologici, non più la colla industriale che producevamo prima. La distribuzione è informale. Siamo noi stessi a vendere i nostri prodotti nei mercati, fiere e festival, buona parte dei nostri prodotti si distribuiscono tra i movimenti, i centri sociali e i negozi che formano parte dei movimenti. Ciò che abbiamo fatto l’anno scorso è stato, essenzialmente, mantenere la fabbrica attiva. Ancora non possiamo dire che abbiamo ottenuto un risultato molto positivo per quanto riguarda la produzione, la distribuzione e le vendite. I guadagni sono molto bassi e non bastano a mantenere tutti i lavoratori. Conseguentemente, alcuni lavoratori hanno perso la fiducia, o si sono stancati e hanno così lasciato Vio.Me. Di recente la nostra assemblea ha deciso unanimanente di legalizzare la nostra situazione attraverso la costituzione di una cooperativa. Questa decisione ci ha dato un nuovo impulso per continuare. Siamo in 20 lavoratori ad aver firmato l’atto costitutivo della cooperativa, ma ci sono anche altri che stanno aspettando di vedere come andranno avanti le cose. Nella struttura della cooperativa abbiamo anche creato la figura del “solidale”, che non è un membro della cooperativa come tale, ma presta un appoggio finanziario alla cooperativa e in cambio riceve i nostri prodotti. Il solidale può partecipare all’assemblea dei lavoratori e ha un voto consultivo nella presa delle decisioni. I solidali pagano un minimo di 3 Euro al mese e con questi soldi riusciamo a pagare i consumi base della fabbrica, come l’elettricità e l’acqua. Avere la società dalla nostra parte per mezzo di questo modello ci fa sentire più forti.
TURCHIA: KAZOVA TEKSTIL- MAGLIONI DI ALTA QUALITÀ PER IL POPOLO
Kazova Tekstil è una fabbrica tessile di Istanbul, Turchia, situata nel distretto di Şişli, vicino alla famosa piazza Taksim. Alla fine del 2012 i proprietari della fabbrica annunciarono ai loro 94 lavoratori che l’impresa aveva problemi finanziari momentanei e chiesero di continuare a lavorare anche se non potevano pagare il salario a tempo; più tardi, una volta superate le difficoltà economiche, tutti gli stipendi mancati sarebbero stati ripagati (SOYLEMEZ, 2014). I lavoratori continuarono a lavorare altri 4 mesi fino al 31 gennaio 2013, quando i proprietari ordinarono a tutti i lavoratori e lavoratrici una vacanza di una settimana senza stipendio. Al loro ritorno i lavoratori trovarono la fabbrica quasi vuota. I proprietari, la famiglia Sumunçu, avevano portato via i macchinari, 100.000 maglioni e 40 tonnellate di materia prima, e lasciarono i dipendenti non solo senza lavoro, ma anche con quattro mesi di salario non pagato (UMUL, 2013). Undici dei 94 lavoratori non si rassegnarono e decisero resistere. Cominciarono a sfilare tutti i sabati nel centro della città di Istanbul con altri lavoratori esigendo i salari che non erano stati pagati e il rispetto dei diritti dei lavoratori (ERBEY; EIPELDAUER, 2013, SOYLEMEZ, 2014).
Nell’aprile 2013 i lavoratori decisero di stabilire un accampamento di protesta di fronte alla fabbrica per evitare che i proprietari togliessero anche gli ultimi macchinari rimanenti. Il mese seguente la manifestazione fu attaccata dalla polizia con cannoni ad acqua e lacrimogeni. Nonostante questi attacchi, a fine maggio cominciò il movimento di resistenza intorno al parco Gezi, e questo diede forza e coraggio ai lavoratori e alle lavoratrici di Kazova Tekstil. Quest’ultimi, parteciparono anche alle diverse assemblee e gruppi di discussione riunitesi intorno a Gezi Park incontrando un grande appoggio da parte del movimento. Visto che non ricevevano nessuna risposta né dai proprietari né dalle autorità, incominciarono a preparare l’occupazione degli stabilimenti e il 28 giugno dichiararono pubblicamente: “Noi -lavoratori della fabbrica tessile Kazova- abbiamo occupato questa fabbrica” (SÖYLEMEZ, 2014, UMUL, 2013). I lavoratori ripararono tre macchinari e prapararono la fabbrica perchè cominciasse di nuovo a produrre.
Il 14 settembre 2013, i lavoratori della Kazova cominciarono a produrre maglioni con la materia prima che era rimasta nella fabbrica. Ogni pezzo aveva una piccola etichetta che spiegava “Questo è un prodotto della resistenza di Kazova!” (SÖYLEMEZ, 2013, UMUL, 2013). La capacità di produzione in quel momento fu di 200 pezzi al giorno. Il costo di produzione a pezzo -che si trattasse di maglioni o golf- era intorno alle 20 Lire turche (circa $10). Con i vecchi proprietari i maglioni e i golf si vendevano a un prezzo tra le 150 e le 300 Lire ($68-135)).
Eppure, i lavoratori decisero di vendere i loro prodotti di alta qualità a prezzi più accessibili vendendoli a 30 Lire (circa $15).
All’inizio i lavoratori di Karzova vendettero i loro prodotti direttamente fuori dalla fabbrica e nelle diverse assemblee tematiche e di quartiere stabilitesi dopo lo sgombero violento di Gezi Park (UMUL, 2013). Senza dubbio però, non guadagnarono nessun salario visto che i soldi guadagnati erano necessari per essere investiti (ERBEY; EIPELDAUER 2013). Il 28 settembre, Kazova organizzò una sfilata di moda, però al posto di modelle magre, c’erano i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica che presentavano la loro nuova collezione in passerella. Dopo la sfilata ci fu un concerto con il famoso gruppo musicale comunista Grup Yorum. Un giornalista di sinistra presente alla sfilata commentò che si trattava di una sfilata di moda proletaria e che la moda del proletariato era: “occupare, resistere e produrre” (ERBEY; EIPELDAUER 2013, UMUL, 2013).
Lo stesso motto è utilizzato dalle fabbriche recuperate in America Latina e originalmente proviene dal Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra (MST) del Brasile.
Alla fine dell’ottobre 2013, dopo dieci mesi di lotta, un tribunale consigliò che gli ex proprietari della fabbrica restituissero ai lavoratori i macchinari che erano stati portati via come compenso dei mancati salari (ERBEY; EIPELDAUER, 2013). I lavoratori e le lavoratrici trasferirono i macchinari nelle nuove installazioni che avevano affittato nel quartiere Kagithane di Instambul. Questo permise ai lavoratori di cominciare a guadagnare uno stipendio, che anche se basso, era uguale per tutti.
I lavoratori di Kazova vedono sé stessi come parte di un movimento popolare di resistenza internazionale. Come atto di solidarietà hanno prodotto le magliette delle squadre di calcio dei Paesi Baschi e Cuba, in occasione di una partita amichevole a L’Avana (SÖYLEMEZ, 2014). Il 25 gennaio 2014, i lavoratori Kazova hanno aperto il loro primo negozio al dettaglio: Negozio di maglioni e cultura Resiste Kazova-DIH nel distretto Şişli di Istanbul, dove la fabbrica si trovava anticamente. Il negozio è anche usato come luogo per le riunioni. Maglioni accessibili per il popolo è il motto di Kazova lanciato durante l’inaugurazione del negozio. Ora i lavoratori di Kazova stanno progettando di aprire più negozi in Instambul e nel resto della Turchia (SÖYLEMEZ, 2014).
EGITTO: ACCIAIO E CERAMICA
In Egitto ci sono almeno due fabbriche sotto controllo operaio: l’acciaieria Kouta nella città di Ramadan al nord del Cairo e Ceramiche Cleopatra, che conta migliaia di lavoratori nei suoi due impianti, uno anche nella città di Ramadan e l’altra ad Ain Sukhna. Senza dubbio non è improbabile che ci siano altre fabbriche che hanno seguito l’esempio di Kouta negli ultimi anni di agitazioni, dalla caduta di Hosni Mubarak, alla fase di transizione, fino all’elezione di Mohamed Mursi e il breve periodo di Mursi al potere prima che fosse deposto dai militari. Il rovesciamento di Mubarak il 25 gennaio 2011 è stato preceduto da un crescente movimento indipendentista di lavoratori, i quali organizzarono sempre più scioperi e conflitti lavorali dal 2003 (ALI, 2012). Le lotte operaie hanno sofferto una forte repressione sotto Mursi e sotto il regime militare.
L’acciaieria Kouta nella città di Ramadan fu abbandonata dal suo proprietario alcuni mesi dopo aver smesso di pagarli, nel marzo 2012. Precedentemente, i lavoratori dello stabilimento avevano portato a termine svariate lotte e scioperi attraverso il loro sindacato indipendente. Quando il proprietario fuggì, i lavoratori cominciarono una lotta che “includeva occupazioni e battaglie legali attraverso la Procura Generale e il Ministero del Lavoro. La lotta culminò con una decisione storica del Procuratore nell’agosto 2012, il quale approvò il diritto dei lavoratori di mettere la fabbrica sotto autogestione dei lavoratori stessi e autorizzò l’ingegnere Mohsen Saleh di dirigere la fabbrica” (KOUTA STEEL FACTORY WORKERS, 2013). I lavoratori costituirono delle istanze di presa di decisioni collettive ed elessero un comitato tecnico per il coordinamento della produzione. Per riprendere la produzione i lavoratori dovettero negoziare con i fornitori di gas ed elettricità per riprogrammare il debito di 3,5 milioni di Dollari lasciato dal vecchio proprietario. Inoltre i lavoratori, che non erano stati pagati per mesi, dovettero ridurre il loro salario della metà per poter comprare materie prime per la produzione. Nell’aprile 2013 l’acciaieria Kouta iniziò la sua produzione sotto la direzione del Comité Técnico dei lavoratori.
Poco prima i lavoratori avevano inviato una lettera di solidarietà ai lavoratori di Vio.Me in Grecia (KOUTA STEEL FACTORY WORKERS, 2013).
Ceramiche Cleopatra è una fabbrica di mattoni, precedentemente posseduta di Mohamed Abul-Enein, appartenente all’élite egiziana vicina all’ex presidente Mubarak. Abul-Enein fu anche membro del parlamento per il Partito Nazionale Democratico di Mubarak. Abul-Enein che è ampiamente conosciuto come un dirigente spietato, chiuse i due impianti produttori di mattoni Ceramiche Cleopatra senza previo avviso, nel luglio del 2012.
Quando non eseguì gli accordi negoziati dopo un’occupazione della fabbrica, i lavoratori viaggiarono a Il Cairo, marciarono fino al Palazzo Presidenziale ed ottennero un accordo negoziato da Mursi. Quando anche quest’accordo rimase incompiuto, assalirono un edifico governativo a Suez, esigendo un castigo per Abul-Enein. Finalmente occuparono la fabbrica, ripresero la produzione nei propri termini e iniziarono a vendere i loro prodotti direttamente, per assicurarsi un’entrata. (MARFLEET, 2013, p. 21).
CHICAGO: NEW ERA WINDOWS
Il 9 maggio 2013 la cooperativa New Era Windows nella Southwest Side di Chicago ha cominciato ufficialmente con la sua produzione sotto controllo operaio. Hanno cominciato con 17 lavoratori producendo finestre dall’efficenza energetica di alta qualità ad un prezzo rivoluzionario, come spiegano nella loro pagina Internet, “Usare finestre di efficienza energetica è una forma accessibile per combattere gli alti costi energetici e fare un passo verso una sostenibilità a lunga scadenza!”
Tutte le decisioni prese nella fabbrica vengono discusse nell’assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici, che si riuniscono almeno una volta a settimana. Tutti i lavoratori e lavoratrici partecipano con voce e voto e godono dello stesso peso nella presa delle decisioni. Armando Robles, lavoratore della New Era Windows, presidente della sezione sindacale locale 1110 della United Electrical, e tra i principali propulsori dietro la lotta durante gli ultimi 12 anni, spiega: “In questo momento le cose sono lente, però sappiamo che nel giro di 2-3 settimane avremo un sacco di lavoro. Adesso stiamo rispondendo a piccoli ordini e stiamo preparando l’attrezzatura per una maggior produzione che comincierà tra due o tre settimane”.
Per arrivare a questo punto i lavoratori e le lavoratrici dovettero occupare per due volte la loro vecchia fabbrica in Goose Island, l’unica isola nel mezzo del Fiume Chicago. La seconda occupazione nel febbraio 2012 finì col conseguimento da parte dei lavoratori, di un periodo di tempo di 90 giorni per trovare un nuovo investitore o per comprare loro stessi la fabbrica. I lavoratori scelsero la seconda alternativa. Tuttavia, dovettero superare ancora molti ostacoli.
Dal 2012 i lavoratori hanno superato enormi sfide. In primo luogo la lotta per il diritto a stare al tavolo dei compratori per acquisire l’impresa, poi, lo smantellamento della fabbrica e il suo trasferimento attraverso la città verso uno spazio più accessibile dal punto di vista finanziario.
I lavoratori hanno fatto ciascuno di questi passi da soli, e così facendo, hanno dimostrato l’incredibile potenziale che mai si era utilizzato nei lavori precedenti (THE WORKING WORLD, 2013).
Con il fine di ridurre le spese, i lavoratori hanno fatto quasi tutto da sé, togliendo i macchinari che avevano comprato dalla vecchia fabbrica e installandole nel nuovo posto di produzione. Hanno finanche montato nuove tubature nel nuovo posto di produzione (CANCINO, 2013). La lotta precedente dei lavoratori della Republic Windows and Doors – per la maggior parte latinoamericani e afroamericani- era stata molto lunga. Nel 2002 i 350 dipendenti dell’impresa avevano attuato uno sciopero non autorizzato perchè il sindacato al quale erano stati costretti ad aderire nello stabilimento, non stava agendo nel loro interesse. La lotta operaia contro i bassi salari, gli straordinari e le cattive condizioni di lavoro, non ebbe successo.Però i lavoratori cominciarono ad organizzarsi e nel 2004 si affiliarono con Local 1110, un ramo del sindacato di base della United Electrical, lavoratori di radio e di macchine d’America (UE), e ottennero che l’impresa firmasse un contratto con UE (LYDERSEN, 2009). Durante il 2007 e il 2008, i lavoratori si resero conto che la produzione stava calando e che qualcosa stava succedendo.
Arrivando al luglio del 2008, la compagnia aveva perso circa 3 milioni di Dollari in soli sei mesi […]. I macchinari stavano scomparendo e i lavoratori, che chiedevano perplessi cosa stesse succedendo, ricevevano solo risposte evasive. […] Solo più tardi scoprirono che le attrezzature erano destinate alla piccola città di Red Oak, Iowa, dove la moglie di Richard Gillman aveva comprato una fabbrica di porte e finestre (LYDERSEN, 2009).
Il 2 dicembre 2008, i 250 contattati in quel momento, seppero dall’amministratore dello stabilimento che lo stesso avrebbe chiuso dopo tre mesi, il 5 dicembre. I lavoratori non solo rimasero senza lavoro ed entrate; le loro assicurazioni sanitarie e della loro famiglia sarebbero scadute nel giro di una settimana. I lavoratori e le lavoratrici inoltre, non avrebbero ricevuto nessun indennizzo per il licenziamento, né sarebbero stati ricompensati dei giorni di ferie e malattia accumulati. Questo annuncio dato in così breve tempo era totalmente illegale. Il sindacato presentò una denuncia contro l’impresa per violazione della Legge di Adattamento e di Notifica di Riqualificazione dei Lavoratori (Workers Adjustment and Retraining Notification Act, WARN), una legge federale che richiede che i datori di lavoro con 100 o più impiegati informino con un minimo di 60 giorni di anticipo i licenziamenti massicci. Il sindacato reclamava che l’azienda dovesse ai lavoratori $1,5 milioni in vacanze e indinnizzi per licenziamento ed esigette una estensione dell’assicurazione sanitaria dei lavoratori (CANCINO, 2013, LYDERSEN, 2009).
I lavoratori decisero rafforzare le loro richieste con uno sciopero di astensione dal lavoro e occuparono la fabbrica. Esigettero che la Bank of America e la JP Morgan/Chase, che in passato avevano concesso grandi prestiti alla Republic Windows and Doors, pagassero i lavoratori. Dopo sei giorni di occupazione e tre giorni di dure negoziazioni con entrambe le banche, quest’ultime decisero di pagare i lavoratori, contribuendo con $1.350.000 e $400.000, rispettivamente, anche se legalmente non erano responsabili del fatto.
Il 15 dicembre del 2008, la società si dichiarò in bancarotta. Nel dicembre del 2013, l’ex direttore generale della Republic Windows and Doors, Richard Gillman, venne condannato a quattro anni di prigione per il furto di 500.000 dollari provenienti dall’impresa.
Nel febbraio 2009, Serious Energy con sede in California, specializzata in finestre di alta efficienza energetica e materiali per costruzioni con basso impatto ambientale, comprò Republic Windows and Doors promettendo di ricontrattare a breve scadenza tutti i lavoratori della fabbrica appena acquistata e di rispettare tutti gli accordi sindacali firmati previamente. Passarono vari mesi fino a che Serious Energy contrattò solo 15 dei vecchi lavoratori, e più di un anno dopo la nomina massima della fabbrica arrivò a 75 lavoratori. Agli inizi del 2012 il personale si ridusse a 38 lavoratori (SLAUGHTER, 2012). Secondo gli stessi lavoratori nel sito web della nuova cooperativa:
Sfortunatamente, il piano commerciale di Serius Energy, che solo includeva la fabbrica di finestre in un ruolo terziario, mai funzionò, e l’impresa dovette ritagliare severamente le proprie operazioni, inclusa la chiusura della fabbrica. Una volta ancora, i lavoratori, a dispetto del loro lavorativo lucrativo, si trovarono sacrificati in un gioco finanziario che non potevano controllare (NEW ERA WINDOWS COOPERATIVE, 2013).
La mattina del 23 febbraio del 2012 i 38 lavoratori rimanenti furono informati dall’avvocato della Serious Energy che lo stabilimento avrebbe fermato le operazioni e avrebbe chiuso il giorno stesso, consolidando la sua produzione in un altro posto. Il proprietario aveva perfino chiamato la polizia, la quale si trovava nello stabilimento intenta a convincere i lavoratori a lasciare il posto. Nel giro di pochi minuti i lavoratori deciso di occupare nuovamente l’impianto, senza alcun tipo di preparazione e mancando di tutto, dai sacchi a pelo al cibo. Però questa volta, i lavoratori non erano soli. Gruppi comunitari, organizzazioni di lavoratori e Occupy Chicago mobilitarono la fabbrica. Nella notte dello stesso giorno già c’erano 65 persone dentro lo stabilimento e altre 100 fuori, passando ai lavoratori e alle lavoratrici all’interno, sacchi a pelo, pizze, tacos e bevande (CANCINO, 2013, SLAUGHTER, 2012). I lavoratori pretesero che Serious Energy mantenesse la fabbrica per altri 90 giorni, mentre il loro sindacato avrebbe trovato un nuovo investitore o gli stessi lavoratori avrebbero comprato lo stabilimento. Molto cosciente delle vicende di attivismo dei lavoratori, Serious Energy accettò le loro richieste dopo 11 ore (SLAUGHTER, 2012).
I lavoratori e le lavoratrici avevano come obiettivo quello di ricavare soldi e comprare la fabbrica per formare una cooperativa controllata dai suoi stessi lavoratori. Tuttavia Serious Energy era intenzionata a vendere la fabbrica al miglior offerente, imponendo così livelli di acquisto impagabili per i lavoratori. Così questi dovettero lottare per il diritto di partecipare al tavolo delle negoziazioni per comprare la loro vecchia impresa. Ebbero successo grazie allo sviluppo della pressione pubblica e politica e formarono una cooperativa. Ogni lavoratore contribuì con $1.000. L’organizzazione senza fini di lucro The Working World di New York, che appoggia cooperative controllate dai suoi lavoratori in Argentina, Nicaragua fornendo crediti e assistenza tecnica, concesse alla cooperativa un credito di $665,000. Con questi soldi i lavoratori poterono comprare i macchinari di produzione trasferendoli in un nuovo stabilimento che avevano affittato nel quartiere di Brighton Park, a sudovest di Chicago. I lavoratori presero lezioni di gestione cooperativa e si prepararono ad amministrare l’impresa (THE WORKING WORLD, 2013). Un anno dopo, gli ex lavoratori della Republic Windows and Doors producevano finestre sotto il loro stesso controllo.
SFIDE COMUNI PER LE IMPRESE RECUPERATE DAI LAVORATORI
Imprese occupate o recuperate contemporanee affrontano sovente sfide simili. Tra queste sfide c’è spesso il mancato appoggio dei partiti politici e dei sindacati burocratici e incluso la loro aperta ostilità; il rifiuto e il sabotaggio da parte dei vecchi proprietari e dalla maggioranza degli imprenditori capitalisti e dei loro rappresentanti; la mancanza di forme giuridiche di imprese che coincidano con le aspirazioni dei lavoratori e un contesto instituzionale inesistente o insufficiente. Intralciamento da parte delle istituzioni dello stato e poco o nessun accesso all’aiuto finanziario e ai prestiti, ancor meno da istituzioni private.
Il contesto generale che devono affrontare le imprese recuperate non è favorevole. Le occupazioni hanno luogo durante una crisi economica mondiale. Cominciare nuove attività produttive e conquistare quote di mercato in una economia recessiva non è un compito facile. Perdipiù, il capitale disponibile come sostegno per le imprese recuperate dai lavoratori è minore di quelle capitaliste. In generale, un’occupazione, e il conseguente recupero di una fabbrica si porta a termine dopo che il proprietario ha abbandonato la fabbrica e i lavoratori, che sia questo scomparso letteralmente o che abbandoni i lavoratori cacciandoli da un giorno all’altro. I proprietari devono ai lavoratori stipendi non retribuiti, giorni di ferie e indennizzi. I proprietari di frequente cominciano, ancora prima della chiusura della frabbrica, a togliere le macchine e le materie prime. In questa situazione, con la prospettiva di una lotta lunga e senza, o con poco, appoggio finanziario e con un risultato incerto, i lavoratori più qualificati, e sovente anche quelli più giovani, lasciano l’impresa con la speranza di migliori opzioni o per cercarsi un nuovo lavoro. I lavoratori che rimangono devono acquisire conoscenze aggiuntive in vari campi per controllare non solo il processo di produzione in senso stretto, ma anche per amministrare l’impresa nella sua interezza, con tutte le implicazioni del caso. Eppure, una volta che i lavoratori si fanno carico della fabbrica e la dispongono a funzionare, il vecchio proprietario d’improvviso riappare e domanda che gli venga restituita l’impresa.
Contrariamente alla credenza comune che vede i capitalisti come coloro che si preoccupano esclusivamente degli affari senza interessarsi a come vengono fatti e con chi, le imprese controllate dai loro lavoratori fronteggiano non solo svantaggi inerenti al capitalismo per quelli che seguono una logica diversa, ma perdipiù soffrono costanti attacchi e ostilità da parte delle imprese e dalle istituzioni capitaliste come anche attacchi da parte dello stato borghese. Quelle imprese controllate dai propri lavoratori che non si sottomettono totalmente alle regole del capitalismo, sono considerate una minaccia, giacché mostrano che è possibile lavorare in un modo diverso. La fabbrica di valvole venezuelana Inveval, controllata dai suoi lavoratori, per esempio, si è trovata di fronte al fatto che una parte delle valvole che aveva fatto produrre da fonditrici private, erano state intenzionalmente prodotte difettate (AZZELINI, 2011).
L’industria farmaceutica Jugoremedija a Zrenjanin, Serbia, l’unica fabbrica controllata dai lavoratori nell’ex Jugoslavia, si è vista obbligata a dichiararsi in fallimento nell’aprile del 2013 dopo sei anni sotto controllo operaio. Adesso è sotto amministrazione giudiziaria e la possibilità che i lavoratori recuperino un’altra volta il controllo dell’impresa è minima. I lavora