La “buona dracma”? Piccolo contributo al dibattito sulla Grecia
La resa del governo Tsipras di fronte ai diktat della troika è una sconfitta dolorosa per tutti i partigiani di un’alternativa all’austerità neoliberista in Europa.
E’ utile ricordare brevemente e un po’ disordinatamente le ragioni di questa sconfitta: sottovalutazione della violenza delle “istituzioni”, questo misto di fanatismo economico e di volontà politica di spezzare una possibile alternativa; assenza di preparazione degli elementi materiali di una rottura che passasse tra l’altro da una sospensione unilaterale dei pagamenti del debito; non costruzione del rapporto di forza ideologico interno necessario alla rottura; incapacità di assumere il NO al referendum facendo adottare, in una logica nazionale, le misure che il governo aveva chiesto ai cittadini di rigettare; assenza di alternativa politica di altri governi e debolezza del sostegno dei movimenti sociali.
La conclusione che spesso si trae dopo aver constatato questa situazione è che non esista una politica alternativa possibile all’interno della zona euro. Per Statis Kouvelakis “è diventato chiaro che voler rompere con le politiche neoliberiste, ultra austerità e “memorandum” nel quadro della zona euro è frutto di un’illusione che costa molto caro. L’idea del “buon euro” e di “far muovere l’Europa”, il rifiuto ostinato di un piano B e la chiusura dentro un processo spossante di pseudo-negoziati hanno condotto al più grande disastro della sinistra di trasformazione sociale in Europa dal crollo dell’Urss.” (1)
Jaques Sapir arriva alla stessa conclusione: “in realtà nessun cambiamento dell’Ue dall’interno è possibile. La “Sinistra radicale” deve avere come primo obiettivo la rottura, almeno con le istituzioni il cui contenuto semicoloniale è maggiore, cioè l’Euro, e deve pensare le sue alleanze politiche a partire da questo obiettivo. E’ giunta l’ora delle scelte; bisogna rompere o condannarsi a perire. (2)
E’ possibile che non ci sia più altra scelta che il Grexit, in Grecia, oggi. Si può discutere. Ma ciò non implica che bisogna dedurne un nuovo orientamento strategico per l’Europa nel suo insieme. Questa scelta binaria – o una forma di capitolazione o il Grexit – è una scorciatoia che elimina tutti gli elementi intermedi di costruzione dei rapporti di forza.
Certo, il dibattito è spesso stato fatto in questi termini, e da molto tempo. Nel fuoco dell’esperienza greca numerosi intervenuti si dichiarano d’accordo oggi con l’uscita dall’euro come sola via alternativa. Però questo significa, ancora una volta, mischiare due dibattiti: il primo riguarda la Grecia, oggi; il secondo è più generale e porta sulle strategie di rottura in Europa.
Partirei qui da un commento al mio articolo, L’economia politica del crimine: (3) “Interessante, ma perché allora lei si è sempre pronunciato contro l’uscita dall’euro? Sembra averci messo del tempo prima di capire che l’euro e i piani di riaggiustamento imposti alla Grecia vanno di pari passo. Il vostro punto di vista manca di coerenza”. Per la verità io non sono mai stato “contrario all’uscita dall’euro”, come ne è testimone, tra gli altri contributi, questo estratto di articolo pubblicato nel 2011: “L’uscita dall’euro non è più, in questo schema una precondizione. E’ anzi un’arma da utilizzare in ultima istanza. La rottura dovrebbe piuttosto essere fatta su due punti che permetterebbero di creare dei veri margini di manovra: nazionalizzazione delle banche e messa in discussione del debito” (4)
La questione chiave per la Grecia, tutti concorderanno, è il carattere non sostenibile del debito. Le misure prioritarie da prendere sono allora una moratoria unilaterale, poi un annullamento, totale o parziale del debito. Ma in che cosa queste misure necessitano dell’uscita dall’euro? Non sono mai riuscito a capire come si poteva stabilire un nesso logico tra questi due tipi di misure.
Supponiamo che la Grecia esca dall’Euro. Primo caso: continua a pagare il debito. E’ assurdo, direte, ma molti fautori dell’uscita dell’euro, stranamente, non escludono esplicitamente questo caso. Se il debito doveva essere rimborsato in euro, il suo peso reale (in dracme) si appesantirebbe a causa della svalutazione. Se fosse rimborsato in dracme, equivarrebbe ad un annullamento parziale, del 20% se per esempio la dracma fosse svalutata del 20%, però questo caso è escluso giuridicamente: la lex monetae non si applica.
In ogni modo i creditori non accetterebbero un tale sconto senza reagire e senza prendere misure di ritorsione passando per una speculazione contro la nuova moneta. La stessa osservazione vale per il secondo caso in cui l’uscita dall’euro sarebbe accompagnata – logicamente – dall’annullamento, totale o parziale, del debito. Come l’osserva John Milios (5), è facile immaginare “una situazione in cui la Grecia, una volta uscita dall’euro, non possa trovare le riserve necessarie per sostenere il tasso di cambio della sua nuova moneta e debba cercare prestiti nella zona euro o altrove. Ma qualsiasi prestito nella fase attuale del capitalismo porta ad un programma di austerità. Allora, chi finanzierebbe il Paese in modo da sostenere il tasso di cambio della nuova moneta?”
I creditori ci sarebbero quindi sempre e il passaggio alla dracma darebbe loro un’arma pesante. Quest’arma perderebbe la sua efficacia solo se il commercio estero della Grecia fosse in equilibrio. E’ il secondo argomento a favore dell’uscita dall’euro: grazie alla svalutazione le esportazioni greche sarebbero dopate e gli scambi esterni sarebbero durevolmente in equilibrio.
Però questo scenario dimentica almeno due cose. (6) La prima è la dipendenza dell’economia greca: ogni ripresa dell’attività si tradurrebbe in un aumento delle importazioni di prodotti alimentari, medicine e petrolio tra le altre cose (i cui prezzi sarebbero appesantiti dalla svalutazione). Possiamo e dobbiamo ovviamente immaginare politiche industriali e agricole che riducano questa dipendenza, ma i loro effetti non sarebbero immediati.
L’altra dimenticanza riguarda il comportamento dei capitalisti la cui priorità è di ristabilire i loro profitti. L’esperienza recente dimostra che l’abbassamento dei salari in Grecia non si è tradotto in un abbassamento dei prezzi ma in un aumento dei margini di profitto nell’esportazione, a tal punto che la Commissione europea si è interrogata sulle esportazioni greche “mancanti” (7). Questo punto è importante: facendo della divisa l’alfa e l’omega della questione greca, si mette di lato quelli che sono i rapporti di classe interni alla società greca. Ora, l’uscita dall’euro, in quanto tale, non rimette in discussione la struttura oligarchica.
L’altro vantaggio di un’uscita dall’euro sarebbe di rendere di nuovo possibile il finanziamento del deficit pubblico da parte della Banca centrale, quindi indipendentemente dai mercati finanziari. Però, anche lì, l’uscita dall’euro non è una precondizione per la ricerca di altri modi di finanziamento. La nazionalizzazione delle banche, con una quota imposta di titoli pubblici, sarebbe un altro canale di finanziamento possibile, o ancora la requisizione della Banca centrale. Sarebbe un’altra forma di rottura che non avrebbe niente a che vedere con l’appello per un “buon euro”.
I partigiani dell’uscita dall’euro sono anche riusciti ad restringere il dibattito: o il “buon euro” idillico o l’uscita dall’euro, passare sotto il tavolo o rovesciarlo, non fare dell’euro un tabù (ma un totem?), ecc. Che il bilancio dell’esperienza greca porti a restringere il dibattito strategico a questa scelta binaria è comprensibile ma troppo semplice.
Non c’è una fuoriuscita tranquilla dalla situazione drammatica in cui la Grecia si trova rinchiusa oggi. Un’uscita dall’euro, oggi, per la Grecia sarebbe forse meno costosa dell’applicazione del terzo memorandum in arrivo, ancora più mostruoso dei precedenti. Ma non è una via in discesa, bisogna dirlo, onestamente. Inoltre il rischio è di ritenerla la soluzione a tutti i problemi dell’economia greca, che si tratti delle strutture produttive o del potere dell’oligarchia.
L’uscita dall’euro viene quasi sempre presentata come una sorta di bacchetta magica che permette di sfuggire al dominio del capitalismo finanziario, nonché alle contraddizioni interne tra capitale e lavoro. Come se l’uscita dall’euro equivalesse all’uscita dalle politiche neoliberiste. Le grandi imprese e i greci ricchi cesseranno forse per miracolo di evadere il fisco in maniera massiccia? Gli armatori greci accetteranno per miracolo di finanziare le pensioni?
Questa fissazione sulla questione della moneta è quindi pericolosa nella misura in cui fa passare in secondo piano tutta una serie di questioni che hanno a che fare con i rapporti di classe che non si fermano alle frontiere. La Grecia non è una “nazione proletaria” sottomessa al giogo dell’euro, è una formazione sociale strutturata dai rapporti di classe. Il totale cumulato delle fughe di capitali da 10 anni è dello stesso ordine di grandezza del totale del debito greco; questo non ha niente a che vedere con l’euro e il ritorno alla dracma non cambierebbe niente. Permetterebbe persino agli evasori fiscali di rimpatriare una parte dei loro capitali realizzando un plusvalore proporzionale al tasso di svalutazione.
Siamo naturalmente a favore di una riforma fiscale e di molte altre cose ancora, risponderanno i partigiani dell’uscita dall’euro. Però questi elementi di programma vengono in pratica ricacciati al secondo posto ed è inoltre impossibile dimostrare che l’uscita dall’euro renderebbe più facile realizzarle. Piuttosto che rimproverare a Tsipras di non aver preparato un piano B, assimilato all’uscita dall’euro, bisognerebbe rimproverargli di non aver istituito, dal primo giorno, un controllo sui capitali, cosa che egli ha rifiutato di fare per rassicurare le istituzioni della sua buona volontà.
L’argomentazione a favore dell’uscita dall’euro si fonda da ultimo su un postulato fondamentale così formulato da Jacques Sapir in un recente messaggio: “le questioni del cambio di moneta e del default sono strettamente legate”(8). Vi elenca la lista di problemi da trattare in caso di “Grexit”: 1° la questione delle riserve della Banca centrale; 2° la questione delle liquidità; 3° la questione del debito; 4° la questione delle banche commerciali. E sottolinea che è “molto importante che il governo greco annunci il default sul suo debito nel momento stesso in cui constaterà che l’euro non potrà più avere corso legale sul suo territorio”.
E’ questa simultaneità tra default sul debito e abbandono dell’euro che è discutibile. La logica imporrebbe di ragionare secondo una sequenza differente: prima il default sul debito, perché è la condizione necessaria per un riorientamento dell’economia greca. In seguito le misure di accompagnamento che ne derivano, ossia la nazionalizzazione delle banche, la requisizione della Banca centrale, il controllo dei capitali, la creazione eventuale di una moneta parallela. E’ un programma che ha una sua coerenza, che implica rotture fondamentali con le regole del gioco europee, ma che non necessita a priori dell’uscita dall’euro.
L’uscita dall’euro non è in sé un programma, è solo uno strumento da utilizzare all’occorrenza, e bisogna dimostrarne la necessità, al di là delle illusioni. Questo feticismo rispetto alla moneta squilibra la costruzione di tale programma, sviluppa illusioni sulla “buona dracma” che equivalgono a quelle, immaginarie sul “buon euro” e riconduce le questioni sociali a una logica nazional-monetaria.
John Milios, ex “economista capo” di Syriza, lo spiega molto bene: “Non c’è nessun motivo per cui il movimento sociale che si oppone al neoliberismo e al capitalismo si fermi perché la Grecia ha l’euro come moneta. Se tale fosse il caso, una nuova moneta potrebbe essere necessaria per sostenere questa nuova via. Ma noi dobbiamo partire da questo movimento non il contrario. E’ la ragione per la quale ritengo che la questione dell’uscita dall’euro sia secondaria. Da un punto di vista non solo teorico ma anche politico (come modificare i rapporti di forza politici e sociali), considero l’euro come une falso problema. Non partecipo ai dibattiti sulla moneta perché mettono da parte la questione principale che è come rovesciare la strategia a lungo termine dei capitalisti greci e europei a favore dell’austerità.”( 9)
*Fonte articolo: http://alencontre.org/europe/grece/la-bonne-drachme-modeste-contribution-au-debat-sur-la-grece.html. Traduzione dal francese di Nadia De Mond per communianet.org: http://www.communianet.org/rivolta-il-debito/la-%E2%80%9Cbuona-dracma%E2%80%9D-piccolo-contributo-al-dibattito-sulla-grecia
Note
[1] Stathis Kouvelakis, « Il faut s’opposer à ceux qui mènent la Grèce et la gauche grecque à la capitulation », 24 luglio 2015.
[2] Jacques Sapir, « La Grèce, la gôche, la gauche », El Correo, 25 luglio 2015.
[3] Michel Husson, « Grèce : l’économie politique du crime », A l’encontre, 29 giugno 2015. NB. poichè sono stato implicato duirettamente nel dibattito greco in quanto membro della Commissione per la verità sul debito, mi esprimo qui in prima persona[4] Michel Husson, « Euro : en sortir ou pas? », A l’encontre, 18 luglio 2011.
[5] John Milios, « Ils pensaient pouvoir gouverner de la même façon qu’avant la crise », A l’encontre, 22 luglio 2015.
[6] Michel Husson, « Grèce : une économie dépendante et rentière », A l’encontre, 12 marzo 2015 ; George Economakis, Maria Markaki, Alexios Anastasiadis, « Structural Analysis of the Greek Economy », Review of Radical Political Economics, Vol. 47(3), 2015.
[7] Uwe Böwer, Vasiliki Michou, Christoph Ungerer « The Puzzle of the Missing Greek Exports », European Economy, 2014
[8] Jacques Sapir, « Les conditions d’un « Grexit » », 11 luglio 2015.
[9] John Milios, cit.