La mia vita sempre in piedi
Uno guarda la tv, sente le notizie sulle industrie, le fabbriche, gli operai e pensa che questi non esistano più. Sullo schermo ci sono solo immagini di robot tecnologici che spostano pezzi, bullonano auto, le verniciano e a volte le guidano anche. Le immagini degli operai non ci sono mai. Per vederli devono fare uno sciopero o una manifestazione, bloccare un’autostrada. Oppure devi metterti tu davanti ai cancelli, magari proprio quelli di Mirafiori, a Torino, e vederli sciamare veloci per tornarsene a casa. A malapena ti danno retta se vuoi parlarci, dopo otto ore lì dentro è comprensibile. Ma com’è lì dentro? Che significa oggi essere un operaio? Davvero, siamo lontani dagli anni 70 e 80, dalla figura dell’”operaio massa” che tanta storia ha fatto in questo paese? A sentire il racconto di Pasquale, operaio alle Carrozzerie di Mirafiori dal 1988 – «prima ero alle Meccaniche», precisa – sembra quasi di rileggere le formidabili pagine del “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini. Certo non c’è quella rabbia fisica, non trasuda la rivolta ma la fabbrica è ancora tutta addosso alle spalle di chi ci lavora, un ambiente che induce alla «paranoia», straniante e straniera allo stesso tempo. Anche se ci lavori da oltre venti anni. Venti anni di giornate uguali e faticose.
Ore 4,30, la sveglia
«Quando ho il primo turno, che inizia alle sei del mattino, mi alzo alle 4,30. Non è facile ma dopo un po’ ci si abitua anche se rimango in silenzio almeno fino alle 8 di mattina. In fabbrica ci vado in tram, con i servizi speciali che l’Att torinese ha predisposto per gli operai Fiat. Li possono prendere tutti ma fanno dei tragitti speciali. In media ci vogliono solo 20 minuti per arrivare ai cancelli ma bisogna arrivare alla fermata in tempo, quindi alle 5,10 sono già lì in modo da stare alle 5,45 davanti ai cancelli».
Ore 5,45, ai cancelli
«Lì avviene la prima timbratura, quella ai tornelli. Una volta infilato il badge nella fessura la Fiat sa che sei dentro, sei nel perimetro della fabbrica. Non è ancora l’inizio dell’orario di lavoro, c’è da fare ancora una seconda timbratura, che noi chiamiamo bollatura, subito dopo i tornelli. Da lì si passa agli spogliatoi, ci vogliono cinque minuti per arrivarci e in cinque minuti ci si cambia, ci si mette la tuta dell’azienda e si arriva alla postazione di lavoro. Io ci arrivo a pelo, alle 6 in punto si comincia a lavorare. Se sgarri di un solo minuto, l’azienda ti addebita un quarto d’ora sulla busta paga; dopo il primo quarto d’ora l’addebito sale a mezz’ora dopo la quale i ritardi vengono conteggiati nei minuti esatti». La paga oraria di Pasquale – la prende e la controlla – è di 8,95 euro l’ora. Un ritardo di un minuto, facciamo i calcoli, gli costa circa due euro netti. Per mezz’ora se ne vanno quattro euro.
Ore 6, inizio turno
Alle sei del mattino, quindi, il nostro interlocutore si piazza alla sua postazione di lavoro. Che è quella del giorno prima. L’azienda può cambiare la postazione o la squadra a cui si è assegnati, entro un’ora dall’avvio della produzione ma o ci sono emergenze oppure generalmente si procede come d’abitudine. Pasquale lavora a una postazione «di sequenza», cioè prende i pezzi da montare sulle auto, o su parti di esse, che scorrono lungo la linea di montaggio, e li distribuisce a seconda dei numeri che hanno impressi sopra. «Prima stavo anch’io sulla linea e ho montato per anni i pezzi direttamente sull’auto, poi dopo un’embolia polmonare e altri malanni vari sono stato messo di fianco a sequenziare i pezzi. Il vantaggio è di non essere direttamente legato al ritmo costante della linea che ti impone tempi più rigorosi».
«Ogni numero corrisponde a una posizione sull’auto. I pezzi sono contenuti in vari cassoni – dodici in tutto e ogni cassone è lungo circa tre metri per un metro e mezzo di larghezza – e io li smisto in cassoni più piccoli, più maneggevoli sulla linea». Sulla sua linea passano le portiere: dalla scocca dell’auto, nuda e verniciata, che scorre su una delle tre linee di cui sono composte le Carrozzerie, vengono smontate le portiere che scorrono su una linea separata e lì vengono completate dei pezzi mancanti: si aggiungeranno maniglie, cavi elettrici, insonorizzazioni e così via. I pezzi a volte pesano 6 o 7 chili l’uno: la mansione è sempre la stessa non ha varianti, non prevede imprevisti né autonomia. Si tratta di raccogliere pezzi, distribuirli, raccoglierli e smistarli. Tutto il giorno, per otto ore, anzi un po’ meno perché ci sono le pause che vedremo fra poco. «Quando stavo direttamente sulla linea ricordo che montavo delle boccole – supporti cilindrici per albero motore o cambio -, tutto il giorno a montarle senza sosta. Era un lavoro frenetico e ossessivo, paranoico direi. Perché la cosa assurda che ti capita con la linea di montaggio è che più il lavoro è facile più dai fuori di testa, perché la ripetizione è micidiale. Se è più difficile, magari puoi utilizzare un po’ di malizia per cercare di rallentare il ritmo e provare un po’ a pensare». Sembra di vedere Charlie Chaplin, in Tempi moderni, ma non è uno scherzo. Il fatto è che, parlando con Pasquale, capiamo che la fisionomia dell”operaio massa” è tutt’altro che superata in fabbrica. «L’azienda non fa che parcellizzare il lavoro, semplificarlo al massimo in modo da poterlo far fare a tutti. Abbiamo verificato, parlando con dei compagni di lavoro della Sevel di Atessa, che in quella fabbrica succede che un nuovo assunto viene lasciato da solo dopo solo un’ora. Un’ora, capisci!, per imparare una mansione che dovrà svolgere a tempo indeterminato: ogni giorno un solo pezzo, sempre allo stesso posto, in continuazione; una paranoia». «Quando lavoravo alle Meccaniche – aggiunge Pasquale – usavo di più la testa, il lavoro era duro e ripetitivo ma per sistemare un pistone ci si ragiona un po’ di più».
Ore 8, le prime parole
In postazione si lavora con qualche operaio di fianco. Si può parlare ma «prima delle 8 del mattino nessuno apre bocca, siamo ancora assonnati» anche se spesso «se fai una domanda la risposta arriva dopo qualche minuto, perché prima c’è da finire una portiera o un vetro da montare. Però chi si trova vicino uno con cui non va d’accordo è davvero sfortunato, mica si può spostre da un’altra parte. Quello che ti sta di fronte è il tuo unico interlocutore, o te lo fai piacere o stai zitto».
Pasquale lavora in una squadra come tutti gli operai di Mirafiori. Ogni squadra conta circa 30-35 operai ma non è il capo-squadra l’interlocutore di riferimento. «No, è il “team leader”, uno ogni dieci operai circa». E’ lui che sorveglia la produzione, interviene in caso di pezzi mancanti, sostituisce eventuali assenze per malattia, raccoglie le richieste o i bisogni dei dipendenti e riferisce al capo-squadra. Un team-leader è un’operaio di quarto livello, prende un po’ di euro in più e ovviamente è particolarmente affidabile: «Io non ne ho mai visto uno scioperare».
«Sono loro che quando serve assegnano straordinari serali per mansioni che non rientrano negli straordinari comandati al sabato, quelli cioè previsti dal contratto. Passano per le linee e si rivolgono agli operai più fidati, ai “loro”, per offrire un paio d’ore per ripulire un piazzale, sistemare del lavoro arretrato, mai per aumentare la produzione, quello si fa solo al sabato. Ovviamente due ore fanno spesso comodo, si guadagna un po’ di più anche se alle dieci di sera – il secondo turno comincia alle 14 e termina, appunto, alle 22 – è faticoso».
Tre pause di 10 e 15 minuti
La fatica si sente. «Lavoriamo in piedi tutto il tempo. Io a fine turno ho davvero bisogno di togliermi le scarpe, riposarmi, mi fanno male i piedi e le gambe, la schiena è bloccata. Devo dire che chi soffre di più sono le donne, le vedo spesso lamentarsi per il mal di gambe tanto che ne ho viste molte portarsi una cassettina di legno accanto alla postazione su cui sedersi non appena scatta una pausa o anche durante l’ora di mensa». A Pomigliano la Fiat porterà, in base all’accordo sottoscritto, la pausa mensa a fine turno e ridurrà di dieci minuti le pause. Come funziona ora? «Le pause sono tre, una ogni due ore, per un totale di quaranta minuti: 15+15+10». Ma che succede durante la pausa? «Intanto si va in bagno, poi chi fuma esce fuori a fumare – nello stabilimento è vietato, chissà come farà Marchionne… – ci si prende un caffè. Per chi svolge attività sindacale è l’unico momento per parlare con i compagni di lavoro ma spesso è impossibile perché, appunto, ognuno ha qualcosa da fare. E poi dieci o quindici minuti durano davvero poco».
Ore 11,45, la mensa
Con la pausa mensa forse va anche peggio. «L’interruzione è di mezz’ora, dalle 11,45 alle 12,15 e dalle 18,45 alle 19,15 per il secondo turno. Ma dobbiamo mangiare in non più di quindici minuti. Ci vogliono infatti tra gli 8 e i 10 minuti per raggiungere la mensa, spesso c’è da fare la coda e quindi non c’è molto tempo». L’azienda trattiene dalla busta paga 1,19 euro per ogni pasto. Eppure, spiega Pasquale, «ci sono davvero tanti operai, soprattutto donne come dicevo prima, che preferiscono portarsi da casa un panino o qualcosa da mangiarsi lì accanto alla propria postazione, così da recuperare un po’ di tempo e far riposare le gambe».
In fabbrica fa freddo d’inverno e caldo d’estate, non è un ufficio, non c’è l’aria condizionata. «I capannoni sono alti anche trenta metri, ci sono spifferi, sono stabilimenti vecchi ma soprattutto la fabbrica è in parte deserta e quindi i riscaldamenti vengono accesi solo parzialmente. E quindi fa freddo. Per mettere un po’ di stufette in giro per i reparti o le pale di ventilazione non sai quante ore di sciopero abbiamo dovuto fare». Il momento più difficile della giornata è dopo pranzo «perché senti di più la stanchezza. Al mattino sei più riposato ma hai sonno, dopo ti svegli ma sei stanco». Mentre scriviamo ci rendiamo conto che nel farci raccontare una giornata di lavoro abbiamo avuto un resoconto limitato a poche decine di minuti: l’avvio, le funzioni, le pause, la mensa. L’andata e il ritorno dal lavoro. Per il resto non c’è più nulla da raccontare, solo una costante ripetizione di movimenti che non cambiano mai. Eppure a Pomigliano si vuole portare la mensa a fine turno e ridurre le pause da quaranta a trenta minuti, lavorano così per sette ore e mezza con solo due pause da quindici minuti o tre da dieci minuti l’una.
Ore 12,15, si riprende
Ma non c’erano i robot che avevano sostituito gli operai? «I robot ci sono ma solo alla lastratura e alla verniciatura. In realtà sono pochi mentre le case automobilistiche concorrenti ne hanno molti di più. Gli operai non sono del tutto contrari ai robot perché ci sono lavori, come la lastratura – dove praticamente si “incolla” il pianale dell’auto alle portiere e al tetto – che erano davvero micidiali. O la verniciatura che ci portava via i polmoni. Però, nonostante i robot gli operai ci sono ancora e sono loro a far andare avanti la produzione, da qui non si scappa». Pagata quanto?
Alla Fiat si sopravvive con poco. Pasquale tira fuori dalla tasca la busta paga, quella dell’ultimo mese. Il minimo contrattuale lordo, per un operaio di terzo livello, è di 1.395,44 euro a cui si sommano, dopo 22 anni di fabbrica, 125 euro di scatti di anzianità e 27 euro di premio produzione. In totale fanno 1548 euro lordi che diventano 1.239 al netto delle molteplici trattenute. «Sempre che non ci sia stata cassa integrazione oppure qualche ora di sciopero». Se si hanno dei figli, l’affitto e le bollette i conti sono facili da farsi.
Ore 14, fine turno
La nostra chiacchierata finisce qui. La giornata è praticamente conclusa e fuori dalla fabbrica ne resta solo il rumore, costante, avvolgente, fatto di ferraglia, di colpi sordi, di martelli pneumatici e di trapani elettrici. O del clangore dei pezzi metallici. Un rumore confuso che lascia un ronzio nella testa. E poi c’è il silenzio, fatto dall’esterno della fabbrica pochi minuti dopo l’uscita, lo sciame operaio si disperde subito, veloce come la rassegnazione che si è impadronita del mondo del lavoro.
Resta però una sensazione, quella della dignità. Pasquale, e molti come lui, minimizzano la fatica, lo stess, l’alienazione, «la paranoia» come la chiama lui. La sente ma non se ne lamenta, non si atteggia a vittima. Sarà perché è iscritto al sindacato, perché crede nella lotta comune e in qualche possibilità di riscatto. Sarà perché con qualcosa bisogna pure difendersi e resistere. Gli operai metalmeccanici in Italia sono quasi due milioni e di questi 363 mila sono iscritti alla Fiom, primo sindacato di categoria. Sarà mica la dignità il problema?