La rivoluzione siriana e gli “antimperialisti”
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Il 26 e 27 maggio 2012, bastava vedere – ad esempio sulla Bbc – la popolazione di Hula, presso Homs al centro della Siria, precipitarsi verso i cosiddetti osservatori Onu per circondarli e mostrare loro le foto dei membri della propria famiglia che sono scomparsi o sono stati uccisi, per comprendere che tipo di guerra conduce la dittatura di Bachar el Assad contro la popolazione (…)
Certi “antimperialisti”, fissati sulle loro certezze, danno più credito alle dichiarazioni allucinanti fatte, domenica scorsa, dal portavoce degli Affari esteri del regime Assad, Jihad Makdessi. Quest’ultimo non ha mancato di assicurare che il crimine di Hula deve essere imputato a “dei terroristi”. In quanto il regime siriano avrebbe come dovere costituzionale di “difendere la vita e la sicurezza della popolazione”! Una “commissione d’inchiesta” deve dunque fare ogni chiarezza su questo crimine, ha osato dichiarare sugli schermi della Tv ufficiale siriana [1].
Questi “anti-imperialisti” bacchettoni ripeteranno i loro conteggi crudeli anche se, riunito d’urgenza, il Consiglio di sicurezza ha condannato all’unanimità – governi russo e cinese compresi, malgrado i dinieghi dell’ambasciatore siriano lagnatosi dello “tsunami di menzogne” cui è sottoposto il regime di Assad – questo massacro. Il Consiglio di sicurezza ha sottolineato la responsabilità del governo siriano.
Per coloro che hanno un po’ di conoscenza storica, credere, per un solo secondo, alle elucubrazioni di Jihad Makdessi assomiglia alla stessa “credenza” – e non sono rari i feticisti del “grande complotto imperialista” – di coloro che, nel 1939, pensavano che il presunto attacco della postazione radio di Gleiwitz, da parte di ipotetiche truppe dell’esercito polacco, fosse all’origine e giustificasse l’invasione hitleriana della Polonia, nel settembre 1939 (…)
Oggi, coloro per i quali “il vangelo anti-imperialista” è stampato in Venezuela, non esitano a denunciare come “facenti il gioco dell’imperialismo” i militanti o gli analisti che sostengono l’evidenza: un potere criminale, quello del clan di Assad, ha assassinato più di 12.600 siriani (cifre fornite dall’ONU).
Quanto ai “terroristi” presenti in Siria, nessuno naga che, nell’ambito di una guerra condotta da 15 mes [3] dal nucleo duro delle forze armate siriane contro la popolazione insorta, certe forze “jihadiste”, legate ai paesi del Golfo, siano attualmente presenti in Siria. Quel genere di regime dittatoriale che ha destrutturato ogni cosa sul piano istituzionale, tranne le proprie forze repressive, rafforzate con l’aiuto della Russia putiniana, crea il terreno ideale per suscitare interferenze esterne con il prolungarsi della sua lotta criminale.
A questo proposito non possiamo che essere d’accordo con la risposta fornita da Jean-Pierre Filiu (professore a Sciences-Po, Parigi) alla domanda del quotidiano Liberation (23 maggio): “Occorre quindi pensare che la Siria sia divenuta la nuova terra del Jihad mondiale?“. “Diciamo che al massimo c’è qualche centinaio di combattenti stranieri in Siria. Non abbastanza affinché la loro presenza cambi la natura della ribellione. La confusione sull’importanza del fenomeno dipende in parte dai discorsi dell’amministrazione americana che dietro Al Qaeda cerca di giustificare il suo rifiuto di coinvolgimento”. “Il fenomeno è reale ma resta marginale. Non siamo assolutamente in una situazione irachena, dove i combattenti affluiscono anche dall’Europa” conferma un analista che preferisce mantenere l’anonimato per continuare a recarsi a Damasco (…)
Questo riferimento ad Al Qaeda dovrebbe suonare come curioso alle orecchie di certi “anti-imperialisti” che, di fatto, si allineano al regime di Assad o manifestano, ancora, una neutralità di osservatori scettici poiché la “situazione è complicata”. In effetti, Al Qaeda è stata invocata sia dall’amministrazione Usa che dal regime Assad non appena ci sono state le prime esplosioni in luoghi, a Damasco, dove sorgevano gli edifici della polizia e dell’esercito siriano – sicuramente ben protetti; tra l’altro in occasione della fraudolenta visita della delegazione della Lega araba nel dicembre 2011!
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Si tratta, infatti, si sapere se la sollevazione prolungata contro la dittatura del clan Assad affondi le sue radici in una crisi sociale che non ha smesso di acuirsi dagli anni 90, innanzitutto nella periferia agricola, poi nella periferia delle grandi città, infine al centro stesso delle città considerate “stabili”. Porsi la domanda significa darsi la risposta.
Il sociale è intrecciato al politico, al rifiuto popolare di vedersi espropriare beni materiali e diritti civici e civili. Che delle forze politiche – ad esempio i Fratelli musulmani – dispongano di un ascolto e di un sostegno dal Qatar, non c’è dubbio. Come potrebbe essere altrimenti quando sappiamo che il regime clanico-alauita di Assad (una sorta di residuo storico del partito Baas) ha condotto una repressione sistematica, non solo contro la sinistra ma anche contro le forze politico-religiose? Queste ultime dispongono dunque di una credibilità anti-dittatoriale.
E’ precisamente nel processo di lotta anti-dittatoriale, nella lotta per obiettivi democratici e sociali che possono chiarirsi le differenti opzioni su tutti i terreni. E’ una battaglia che è in corso, in contesti politici e di formazioni sociali che hanno le loro specificità, in tutta la regione. Questo lungo processo sociale e politico è cominciato, apertamente, dal 2010. E’ stato definitivo come “primavera araba”. Ha dei flussi e riflussi. In questa marea, con le sue risacche, nascono dibattiti politici, controversie, confronti sociali che rendono più evidenti le relazioni tra i bisogni sociali, i rapporti sociali di classe e le loro traduzioni ideologiche e culturali, in un campo politico più aperto perché liberato dai dittatori (Tunisia, Egitto, Libia) o in un contesto in cui la paura di un tiranno crudele e senza vergogna – Assad – scompare, con il peso di odio accumulato. Un tiranno che non ha smesso di coltivare, con determinazione, le fratture comunitarie. Ora, quelle divengono, per uno strano gioco di prestigio, un “argomento” per denigrare la sollevazione popolare contro il clan al potere a Damasco. “Dimenticando”, con cura, di mettere in evidenza la tendenza opposta: l’unità del popolo, proclamata nel corso delle manifestazioni; che non impedisce certamente le tensioni o la diffidenza. Un tratto che resta forte malgrado tutte le provocazioni del potere che punta a scatenare i contrasti settari.
Perché un processo sociale e democratico possa prendere la propria forza – che uno slancio di “rivoluzione permanente” si sviluppi – deve esistere una precondizione: il rovesciamento della dittatura. Ne derivano due esigenze.
– La prima, manifestare un’opposizione a quel discorso, tenuto anche da Ban-Ki-moon, segretario generale dell’ONU, secondo il quale ci sarebbero due campi militari che si affrontano. E’ una deformazione fattuale grossolana. C’è un potere militare che annienta una popolazione. Questo potere è strutturato. Impiega un armamento pesante, forze di polizia, una sorveglianza sofisticata delle reti di comunicazione elettronica (fornito dal regime di Putin), milizie che agiscono agli ordini del regime e commettono i loro crimini, estorsioni e mercanteggianti, il che evidenzia, tra l’altro, lo stato di putrefazione del potere di Damasco (…)
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Quanto all’Esercito siriano libero esso non costituisce un esercito. Non è dotato di una catena di comando appena unificata e di un armamento in grado di fronteggiare quello comandato dal fratello di Bachar, Maher el Assad; forze che dispongono di un armamento “sovietico”, buono per una guerra repressiva contro la popolazione ma che non permetterebbe di condurre una cosiddetta guerra convenzionale. Questa frammentazione dell’Esl – con la mancanza di direzione politica unificata – può evidentemente essere all’origine di strappi, regolamenti di conti, di possibili derive comunitarie e vendette.
Ma non cambia in nulla la questione decisiva che poggia sull’origine della sollevazione, sulla legittimità inconfutabile di una lotta di liberazione anti-dittatura. La sua validità è, al contrario, confermata da questo terribile bilancio, redatto il 14 maggio da una delegazione clandestina di Medicins sans frontiere: “Un collega chirurgo siriano mi ha detto: “Essere presi con un paziente è peggio che essere presi con un’arma. E’ la morte per il paziente e per me stesso”. Un’altra constatazione: gli ospedali e le strutture di cura in generale sono obiettivo delle forze di sicurezza siriane”.
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Qualcuno forse dira che i rapporti di Msf dipendono dalla propaganda imperialista! Non è impossibile.
In questo mondo risorge un campismo – altrimenti detto annullamento di un’analisi concreta di una situazione concreta con considerazioni vaghe (in genere sbagliate) sull’opposizione tra gli Stati Uniti e i loro alleati, da un lato, e la Cina e la Russia, dall’altro. Tutto questo ha il sapore di quella “guerra fredda” che ha portato tanti militanti della sinistra, detta radicale, a negare (se non ad approvare) i terribili misfatti del regime anti-operaio staliniano in Urss, le sue diramazioni nei “paesi dell’Est” o ancora gli effetti disastrosi del “grande balzo in avanti” della Cina con la fame che ne è derivata. Un “grande balzo in avanti”, applaudito, dal punto di vista della “gestione delle tecniche moderne dalle masse”, tanto per fare un esempio da Samir Amin (5).
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Pertanto, se le manovre imperialiste e dei loro alleati regionali devono certamente essere svelate e denunciate dalla sinistra della sinistra, la priorità politica resta quella della solidarietà incondizionata con la sollevazione del popolo siriano insorto, appoggiando le forze che al suo interno si battono per la giustizia sociale e contro le politiche economiche proprie del regime Assad ma anche dei Fratelli musulmani. Quest’ultimi hanno sempre espresso il loro sostegno alle opzioni economiche liberiste e la loro feroce opposizione alle rivendicazioni e, ancor più, all’organizzazione indipendente dei lavoratori (…)
La seconda (esigenza, ndt) rinvia a una questione sotto forma di dittico. Il primo è quello di una lotta contro una dittatura che esige accordi concreti di unità d’azione, in Siria, su obiettivi di resistenza, di “disobbedienza civile” che ostacolino gli scontri comunitari. E’ quello che i Comitati locali ralingano con successo, se si considerano gli ostavoli come la repressione spaventosa alla quale sono sottoposti.
Un secondo aspetto risiede nella traduzione di questa resistenza in termini di direzione politica, nel senso di un organismo che possa riunire le diverse energie della “disobbedienza civile”, di massa e dispersa, nonostante la conquista di una città dopo l’altra.
Qui risiede la debolezza di questa rivoluzione. In effetti, i rappresentanti messi in mostra dai media e dalle potenze occidentali o regionali sono, essenzilmanete, esterni alla resistenza interna, compresi certi settori di rifugiati che hanno trovato rifugio in Turchia, Giordania, in Libano. Essendo la politica di espulsione della popolazione una delle armi rivelatrici della tirannia di Assad.
Il Consiglio nazionale siriano (Cns) è l’espressione di questa debolezza di direzione politica esterna al processo, e non soltanto all’estero. Le tendenze al suo interno hanno come opzioni prioritarie non il sostegno organizzato, massiccio, senza condizioni, alla resistenza interna ma la ricerca di appoggi diversi. Questi vanno dalla Francia agli Usa passando per la Turchia, il Qatar e l’Arabia saudita. Gli interessi e gli obiettivi di questi “sostegni” si neutralizzano in gran parte. Rispondono a disegni regionali che si confondono con una riorganizzazione regionale che è caotica e incontrollata. Le voci del popolo siriano nel suo insieme non pesano molto nei loro calcoli (…)
In alcuna misura questa grave carenza di direzione politica – che non impedisce all’insurrezione di mantenersi, e questo rappresenta il punto nodale dell’analisi e delle scelte per una sinistra radicale, internazionalista, impegnata verso le popolazioni del “mondo arabo” e della lotta del popolo palestinese contro il potere coloniale dello Stato sionista – non può essere un preteso per non accrescere, sotto forme diverse, la solidarietà con la popolazione siriana insorta. Poiché il rischio è concreto che i traumi inflitti a un paese e alla sua popolazione, alla lunga, accentuino le difficoltà della società a ricostruirsi e dare vita a una dinamica sociale e politica che superi il momento, imperativo, del rovesciamento della dittatura. La solidarietà con la rivoluzione siriana non può essere relegata in secondo piano.
Tratto dal sito www.alencontre.org
traduzione Imq
Note
[1] http://www.bbc.co.uk/news/world-mid…