La sfida della transizione energetica: misure anticapitaliste o alternative “diaboliche”
Lo stimato scienziato statunitense James Hansen si è convertito all’energia nucleare. Insieme ad altri tre esperti di riscaldamento globale, l’ex climatologo capo della NASA ha firmato una lettera aperta indirizzata “A tutte le persone che influenzano le politiche ambientali ma si oppongono all’energia nucleare”. Il testo è stato pubblicato dal New York Times a novembre 2013 (1) ed in particolare dice: “le rinnovabili come il vento, il sole e le biomasse occuperanno senza dubbio un posto importante nella futura economia dell’energia, ma quelle fonti energetiche non possono svilupparsi con la velocità necessaria per distribuire elettricità affidabile e a basso prezzo rispetto alla richiesta dell’economia globale. Anche se teoricamente fosse possibile stabilizzare il clima senza energia nucleare, nel mondo reale non c’è nessuna strada credibile verso la stabilizzazione del clima che non comporti un ruolo sostanziale dell’energia nucleare. (…) Non ci sarà una soluzione tecnologica miracolosa, ma è arrivato il momento che coloro che prendono seriamente la minaccia climatica si pronuncino a favore dello sviluppo e dell’utilizzo di installazioni nucleari più sicure (…). Con il pianeta che si surriscalda e con le emissioni di diossido di carbonio che aumentano più velocemente che mai, non possiamo permetterci di voltare le spalle a qualsiasi tecnologia che abbia il potenziale di limitare gran parte delle nostre emissioni di carbonio. Molte cose sono cambiate dagli anni 70. È arrivata l’ora di impostare un nuovo approccio all’energia nucleare del ventunesimo secolo”.
Hansen, Lovelock, Monbiot…
Il testo citato sopra è tipico delle “alternative diaboliche” alle quali si va incontro quando ci si mantiene all’interno della cornice capitalista. Non si può dubitare delle motivazioni di Hansen e dei suoi colleghi: la loro preoccupazione rispetto al grave pericolo dato dal cambiamento climatico non è finta e si basa su una conoscenza scientifica approfondita. Hansen, in particolare, è conosciuto per aver fatto suonare l’allarme già nel 1988 davanti ad una commissione del Congresso USA. Da allora continua a ripetere che bisognerebbe portare in tribunale le imprese del settore dell’energia fossile per crimini contro l’umanità e contro l’ambiente. Lo scorso aprile Hansen ha lasciato il proprio incarico nella NASA per dedicarsi interamente alla militanza “climatica”. Non è un caso, quindi, che la lettera aperta sia indirizzata proprio a chi si batte per difendere l’ambiente…
Non è la prima volta che ricercatori scientifici impegnati nella lotta ambientalista cambiano opinione rispetto all’energia nucleare, asserendo che l’atomo è un male minore rispetto alla catastrofe che causerà il riscaldamento globale. Un altro vecchio collaboratore della NASA, James Lovelock, il padre dell’Ipotesi Gaia, fece lo stesso già qualche anno fa. Un caso un po’ diverso, ma significativo, è quello di George Monbiot. Più militante che ricercatore, anche se i suoi articoli su The Guardian erano conosciuti per il loro rigore scientifico, tanto che la sua conversione all’atomo ha suscitato molto scalpore. Sarebbe stupido affrontare con disprezzo queste prese di posizione a favore del nucleare. Bisognerebbe, invece, vedere in queste un invito a non eludere il fatto che la transizione energetica verso un sistema “100% rinnovabili” costituisce effettivamente un obiettivo che racchiude delle difficoltà enormi, quasi sempre sottovalutate anche dalle pubblicazioni più serie.
La sfida della transizione
Qualche settimana prima del Vertice di Copenaghen sul clima del 2009, due scienziati statunitensi hanno pubblicato su Scientific American un articolo nel quale affermano che l’economia mondiale potrà abbandonare i combustibili fossili tra 20 o 30 anni. Per fare questo, “basterebbe” produrre 3,8 milioni di aerogeneratori da 5 megawatt, costruire 89.000 centrali solari fotovoltaiche e termodinamiche, installare sui tetti degli edifici pannelli fotovoltaici e disporre di 900 centrali idroelettriche…(2) La contraddizione di questo tipo di proiezioni è che pretendono di affrontare e risolvere il problema della transizione energetica, ma in realtà lo eludono. La questione, in effetti, non è immaginare in astratto un sistema energetico “100% rinnovabili” (che evidentemente è possibile), ma quello di tracciare il cammino concreto per passare dal sistema attuale basato per più del 80% sulle energie fossili ad un sistema basato esclusivamente sul vento, il sole, etc…
Due sono però gli imperativi da tenere in conto. In primo luogo che le emissioni globali si devono ridurre tra il 50 e l’85% da qui al 2050 (dall’80 al 95% nei paesi sviluppati) e, in secondo luogo, che questa riduzione dovrebbe cominciare al più tardi nel 2015. Affinché il piano di transizione non sia mera finzione, gli autori dell’articolo su Scientific American avrebbero dovuto rispondere alla seguente domanda: calcolando che il sistema energetico dipende per l’80% dai combustibili fossili la cui combustione comporta inevitabilmente l’emissione di diossido di carbonio e di altri gas dall’effetto serra, come produrre 3,8 milioni di aerogeneratori, come costruire 89.000 centrali solari, come fabbricare pannelli fotovoltaici da installare sui tetti di tutti gli edifici e come costruire 900 dighe senza contraddire i due imperativi citati sopra?(3)
Produrre di meno
Questa domanda non ha tante risposte possibili, ma una sola: è chiaro che l’aumento delle emissioni che deriverebbero dagli investimenti supplementari richiesti per portare a termine la transizione energetica dovrebbe essere compensata da una riduzione supplementare delle emissioni prodotte da altri settori dell’economia. Una parte sostanziale nel raggiungere tale obiettivo la giocano sicuramente le misure di efficienza energetica. Questo, però, non permette di ovviare al problema, visto che nella maggioranza dei casi un aumento dell’efficienza richiede comunque investimenti e quindi necessita di energia che è fossile per l’80% del totale e dunque questo comporterà un ulteriore aumento delle emissioni che dovranno essere compensate a loro volta da altre riduzioni. E così via…
Quando si esaminano le proiezioni dei sistemi “100% rinnovabili”, si riscontra facilmente che è molto diffuso il grossolano errore di ovviare il problema concreto. Per migliorare l’efficienza del sistema energetico, il rapporto Energy Revolution di Greenpeace, per esempio, prevede, tra le altre cose, di trasformare 300 milioni di abitazioni in case passive nei paesi dell’OCSE. Gli autori calcolano la riduzione di emissioni corrispondente, ma non tengono minimamente in conto l’aumento di emissioni che sarebbe causato dalla produzione dei materiali isolanti, finestre a doppio vetro, pannelli solari, etc. In altre parole, la percentuale di riduzione delle emissioni è lorda, non netta. (4). Da qualsiasi parte si guardi il problema, si giunge sempre alla stessa conclusione: per rispettare gli imperativi della stabilizzazione del clima, gli enormi investimenti necessari per la transizione energetica dovranno provenire da una riduzione della domanda finale di energia, soprattutto all’inizio ed in particolar modo nei paesi più ricchi. Quali riduzioni? Le Nazioni Unite dicono il 50% in Europa e il 75% negli Stati Uniti5. È una percentuale enorme ed è questa che da fastidio, visto che una diminuzione di questo tipo non sembra realizzabile senza ridurre sensibilmente e per un periodo prolungato la produzione e il trasporto delle merci… significa quindi che occorre una certa decrescita (in termini materiali, non di punti del PIL).
Antagonismo
Non si può negare che questa decrescita materiale contrasti con l’accumulazione capitalista che, nonostante si misuri in termini di valore, è difficilmente concepibile senza un certo incremento quantitativo di beni trasformati e trasportati. La “dissociazione” tra l’aumento del PIL e il flusso di beni, in effetti, può solo essere relativa e ciò significa che in questo punto si manifesta di nuovo l’incompatibilità fondamentale tra il produttivismo capitalista e i limiti del pianeta. Ed è proprio questa incompatibilità ogni giorno più evidente quella che cercano di nascondere James Hansen, James Lovelock, George Monbiot e altri quando chiedono di rivedere le posizioni antinucleariste. È miserevole e indegno del loro rigore scientifico che lo facciano banalizzando i rischi e soprattutto affermando che le tecnologie del XXI secolo (quali?) garantiranno una energia nucleare sicura e il riuso delle scorie.
“Nel mondo reale (capitalista) non c’è nessuna strada credibile verso una stabilizzazione del clima che non preveda un ruolo sostanziale dell’energia nucleare”, dice la lettera aperta di Hansen e degli altri scienziati. Questa affermazione è completamente falsa: per triplicare il peso dell’energia nucleare nel consumo elettrico da qui al 2050 (e con questo rappresenterebbe poco più del 6%) bisognerebbe costruire quasi una centrale nucleare a settimana in tutto il mondo per 40 anni. Al di là dei pericoli dimostrati dal disastro di Fukushima, ci troveremo allora con un sistema elettrico ibrido, che obbedirebbe a due logiche opposte: centralizzazione e sperpero con l’atomo, decentralizzazione ed efficienza con le rinnovabili. Non è una strada credibile quella proposta da Hansen e colleghi, bensì una contraddizione (tecnica) in termini. Non porterebbe che ad un vicolo cieco, visto che combinerebbe insieme riscaldamento e radiazioni.
Geoingegneria
Lo stesso rifiuto ad opporsi al capitalismo si traduce in altri scienziati nella rassegnazione dinanzi ai progetti di geoingegneria. Questa viene tra l’altro menzionata nei rapporti del Gruppo Intergovernativo degli Esperti sui Cambiamenti Climatici (GIECC): la sintesi del primo tomo del 5° rapporto evidenzia che “sono stati proposti metodi che hanno l’obiettivo di alterare deliberatamente il clima terrestre in modo tale da arrestare il cambiamento climatico. Si tratta della cosiddetta geoingegneria”. Gli autori segnalano che questi metodi “potrebbero avere effetti collaterali e conseguenze a lungo termine su scala mondiale”. A prima vista, la prudenza usata nel rapporto è ragionevole. Ma, nonostante questa, il fatto che la geoingegneria venga citata dal GIECC è estremamente inquietante. Ciò significa che alcune ricette da apprendisti stregoni iniziano ad essere considerate concretizzabili nel futuro.
È certo che dietro le quinte si moltiplicano le ricerche e le esperienze sul campo, a volte anche in maniera illegale. Bill Gates e altri investitori destinano milioni di dollari a questo. Il loro ragionamento è molto semplice: consapevoli del fatto che un capitalismo senza crescita è un ossimoro, concludono che sarà impossibile raggiungere gli obiettivi di riduzione dei gas serra, ma anche che l’urgenza climatica impone di fare qualcosa, qualsiasi cosa, quindi prima o poi suonerà l’ora anche per la geoingegneria e questo aprirà le porte ad un immenso mercato. Scienziati senza scrupoli, gruppi finanziari, petrolieri, uomini d’affari, tutti si fregano le mani senza pensare alle conseguenze a meno che le conseguenze non facciano parte del piano. Non sono un fan delle teorie del complotto, ma se pensiamo al giorno in cui alcune alcune grandi imprese potrebbero possedere i brevetti dei cosiddetti specchi speciali (che alcuni immaginano già come soluzione per impedire l’alzamento della temperatura), non c’è dubbio che il loro potere politico sarebbe immenso e che sarebbe praticamente impossibile toglierglielo. È la stessa logica capitalista che li porta a sognare che un giorno esista una sorta di termostato terrestre il cui controllo assoluto gli permetterebbe di incassare un dazio continuo sull’intera popolazione del pianeta.
L’unica via credibile
Bisogna allora partire da quello che lo stesso James Hansen ha detto più volte: il principale ostacolo al salvataggio del clima sono le grandi imprese multinazionali che ottengono profitti dal sistema energetico fossile. Stiamo quindi parlando di un ostacolo colossale. Questo sistema, infatti, conta migliaia di miniere di carbone e di centrali termiche alimentate a carbone, più di 50.000 campi petroliferi, 800.000 km di gasdotti e oleodotti, migliaia di raffinerie, 300.000 km di linee ad alta tensione. Il suo valore complessivo si aggira tra i 15.000 e i 20.000 bilioni di dollari (quasi un quarto de PIL mondiale!). Ora per superare questo sistema tutte queste infrastrutture, finanziate a credito e concepite per durare 30/40 anni, dovrebbero scomparire ed essere sostituite nei 40 anni successivi, nella maggior parte dei casi senza che i loro costi siano stati ammortizzati. Ma questo non è tutto. Le compagnie fossili, infatti, dovrebbero anche rinunciare a sfruttare i 4/5 di riserve di petrolio, gas e carbone che figurano già nei loro bilanci…
L’unica via “credibile” verso la stabilizzazione del clima, allora, è quella che passa attraverso l’espropriazione di queste aziende e della finanza, che lo stesso Hansen ha definito “criminali climatici”. Trasformare l’energia ed il credito in beni comuni è la condizione necessaria per elaborare un piano democratico finalizzato a produrre meno ed in base ai veri bisogni sociali, in maniera decentralizzata e più condivisa. Questo piano dovrebbe anzitutto prevedere la cancellazione di tutti i brevetti in ambito energetico, la lotta contro l’obsolescenza programmata dei prodotti, la fine del primato delle automobili, un’estensione del settore pubblico, in particolare nell’isolamento degli edifici, la lotta alla disoccupazione attraverso una generale e drastica riduzione dell’orario di lavoro (senza intaccare il salario), l’eliminazione dei beni inutili e nocivi come le armi (con il reimpiego dei lavoratori), la localizzazione della produzione e la sostituzione dell’agroindustria globalizzata con un agricoltura contadina a km 0. È sicuramente più facile dirlo che farlo, ma la prima cosa che dobbiamo fare è dirlo. E subito dopo fare in modo di promuovere mobilitazioni sociali tali da poter trasformare questa utopia in una utopia concreta.
Note
1. http://dotearth.blogs.nytimes.com/2013/11/03/to-those-influencing-environmental-policy-but-opposed-to-nuclear-power/?_php=true&_type=blogs&_r=0
2. “A plan to power 100% of the Planet with renewables”, Mark Z. Jacobson and Mark A. Delucchi, Scientific American, 26 ottobre 2009, pag.188.
3. In questa sede non ci pronunciamo sulla pertinenza del piano in questione nei suoi diversi aspetti. Inoltre, questo elenco degli investimenti necessari è incompleto. Come segnalano gli autori, infatti, al di là delle migliaia di aerogeneratori, etc etc, bisogna anche concepire un nuovo sistema di trasmissione dell’energia sostituendo qualcosa come 300 mila km di linee elettriche ad alta tensione da una rete “intelligente” adattata all’intermittenza che caratterizza le energie rinnovabili.
4. Energy Revolution, A Sustainable World Energy Outlook. Greenpeace, GWEC, EREC, 2012.
5. ONU, Studio Economico e Sociale Mondiale, 2011.