L’ultimo intempestivo
“Militare è il contrario di una passione triste”
Le biforcazioni e i bivi, le pieghe e i salti della storia, i tempi che sembrano accartocciarsi su se stessi, fuori dai cardini, impazziti, o sospesi, gli eventi che sembrano stagliarsi nella loro unicità dal flusso omogeneo dello scorrere del tempo orologiaio, nascondendo agli occhi poco attenti i mille fili sottili che tengono insieme loro malgrado queste temporalità discordi. Daniel Bensaïd aveva ben riconosciuto questa follia del tempo che non ammette giudizio finale, della storia che non si piega alle logiche giudiziarie di un processo inteso ad emettere un verdetto definitivo. Come aveva già riconosciuto un appassionato della rivoluzione quale Auguste Blanqui, uno dei suoi autori più amati, nell’isolamento della sua trentennale prigionia parigina, Bensaïd sapeva che il verdetto non è mai pronunciato in maniera definitiva, e che la storia è continuamente riscritta dalla lotta e dai suoi esiti.
Dal leninismo urgente alla lenta impazienza
Se mai c’è stato percorso intellettuale segnato profondamente dalla biografia personale e dai sali e scendi di un impegno militante mai abbandonato, quello di Daniel Bensaïd, ne è senza alcun dubbio uno. Entrato a far parte della JCR nel 1966 e decisosi ad aderire alla Quarta Internazionale, insieme a tutta l’organizzazione, nel 1969, la sua militanza ha assunto quasi immediatamente il ritmo turbinoso degli anni che hanno preceduto e seguito il Maggio 1968. Anni di una socialità intensa, di creazione di una collettività politica e amicale per la quale i confini tra gli appartamenti privati e i locali odorosi di colla per manifesti rimanevano piuttosto incerti, per quanto, come si può leggere all’inizio della sua autobiografia, «in tempi (gli anni Settanta) in cui la rimessa in discussione delle frontiere fluttuanti tra pubblico e privato fu considerata come il sommo dell’audacia, in cui “mettere a nudo le proprie viscere” passava per gesto liberatorio, ho preferito conservare l’intimo sotto la linea di fluttuazione». Questa collettività non l’avrebbe più abbandonata, sino al suo recente scioglimento nel Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), a cui fino all’ultimo giorno ha voluto dare il suo contributo intellettuale e militante.
Erano gli anni in cui “la storia ci mordeva la nuca”. “Ce la mordicchiava”, corregge la sua autobiografia. In un momento in cui il problema del potere si poneva con un’urgenza a volte immaginaria, la questione strategica ha rappresentato il fulcro degli inizi della sua riflessione teorica. Tratto dalla sua tesi di laurea su “La nozione di crisi rivoluzionaria in Lenin”, l’articolo rielaborato insieme ad Alain Naïr e pubblicato nel dicembre del 1968 sulla rivista Partisans, “A propos de la question de l’organisation: Lénine et Rosa Luxemburg”, faceva prova di un “ultrabolscevismo” in parte giustificato dall’esperienza del Maggio appena conclusasi. Da qui in poi, tuttavia, Lenin sarebbe rimasto un riferimento costante della riflessione di Bensaïd sulla questione strategica e sul partito, pur nel trasformarsi della sua lettura da un leninismo urgente all’arte della lenta impazienza.
In Lenin, infatti, viene individuata la corretta intuizione dello scarto che separa inevitabilmente il politico dal sociale, rendendo impossibile e del tutto fuorviante qualsiasi tentativo di traduzione meccanica dei linguaggi e delle istanze da un ambito all’altro. Il politico funziona attraverso una trasposizione, in cui i contenuti, le istanze, le motivazioni, i rapporti di forza, in una parola: la lotta di classe del sociale, subiscono un processo di condensazione e spostamento simile a quello esistente tra l’inconscio e l’Io. Per imparare a riconoscere il linguaggio proprio del politico e i suoi lapsus rivelatori, il partito deve mettersi nella posizione d’ascolto dell’analista e praticare l’arte dell’interpretazione.
A partire dalla constatazione di questa irriducibilità di politico e sociale, peraltro messa in luce sin da subito dallo scarto tra l’esplosione sociale del ’68 e degli anni successivi e i magrissimi risultati delle due elezioni presidenziali a cui la Lcr prese parte candidando Alain Krivine (rivelatori del fatto che “le vie elettorali sono spesso più imperscrutabili delle vie del Signore”), la questione della non coincidenza tra partito e classe e, quindi, della pluralità delle organizzazioni politiche della classe diviene ineludibile. Questione che Trotskij avrebbe riconosciuto solo negli anni Trenta, dopo le cocenti sconfitte dell’Opposizione di sinistra. Bensaïd ritrova in Lenin alcune intuizioni fondamentali del problema, ad esempio nella sua difesa dell’autonomia dei sindacati, nel 1921, contro il progetto di militarizzazione del lavoro di Trotskij, e nella sua insistenza sulla necessità di una pluralità interna al partito.
Sempre Lenin è servito da antidoto, anche negli anni recenti del movimento altermondialista, contro “l’illusione sociale” dell’autosufficienza movimentista e per sottolineare costantemente la necessità della ragione strategica.
In un momento in cui lo strutturalismo di Althusser occupava il campo della teoria rischiando di annegare la possibilità dell’intervento soggettivo nella “tirannia della struttura impersonale” , il ricorso a Lenin ha offerto il punto di partenza per pensare l’irruzione della soggettività rivoluzionaria. Declinata in chiave a volte ultra-volontarista negli anni del leninismo urgente, questa irruzione continuerà tuttavia a costituire una costante del pensiero di Bensaïd, sollevando non solo il problema delle forme organizzative, del rapporto tra partito e classe, del pluralismo politico, ma anche quello decisivo del potere e della crisi rivoluzionaria. La questione cruciale – come articolare l’evento alla struttura? – avrebbe assunto negli anni del passaggio alla lenta impazienza il carattere di un interrogativo costante sulle forme della temporalità. Come pensare la crisi rivoluzionaria in controtempo, in anni di riflusso e di sconfitta, in decenni in cui agli scoppi insurrezionali, alle guerre anticoloniali, all’esplosione politica di una nuova generazione ribelle, alla creatività traboccante delle sue forme di espressione, si doveva sostituire per necessità il lavorio lento e paziente della talpa? Come riannodare le temporalità discordi dell’evento rivoluzionario e della sua lenta preparazione? Se Lenin aveva colto appieno – sul piano dei processi di soggettivazione – questa logica delle discordanze e la conseguente necessità di imparare a “saltare” e, dunque, di tenersi sempre “pronti” all’imprevedibilità dell’evento, è in Benjamin e, soprattutto, in una rilettura del Marx critico dell’economia politica che Bensaïd troverà gli strumenti per l’elaborazione di una nozione di temporalità in grado di resistere all’“aria dei tempi”.
Alla fine degli anni Settanta era arrivato il momento di fare i conti con un decennio intenso di lotte vissute correndo più veloci della propria ombra. Dopo l’esperienza sessantottina, Bensaïd aveva seguito da vicino, come membro dell’Internazionale, le vicende di un’Argentina in sommovimento, che gli avrebbero lasciato un segno indelebile. Consapevole dei danni provocati da una feticizzazione della lotta armata e da un volontarismo poco attento a un’analisi dei reali rapporti di forza tra le classi, di cui egli stesso si sentiva responsabile, la scia di morti lasciati dalla sanguinosa repressione argentina, la cancellazione delle decine di volti conosciuti durante il suo viaggio del 1973, è diventata per lui una figura del Super Io: «Per quanto breve, l’episodio argentino resta il più doloroso della mia vita militante. Esso è senza dubbio costitutivo del Super Io che detta l’imperativo di continuare, di non rinunciare alla prima difficoltà, di non cedere alla prima esitazione dell’anima. Contrariamente all’evocazione che ne fanno a volta gli ex disincantati, la nostra lotta non era un gioco».
Il governo di destra prima e l’inizio dell’epoca Mitterand dopo, il riflusso della fine degli anni Settanta e l’avvio dei penosi anni della restaurazione, unito alla chiusura dell’esperienza del quotidiano “Rouge”, nato e vissuto in controtempo, avrebbero segnato una svolta nel percorso di Daniel Bensaïd. Di fronte al peso della sconfitta, comprende la necessità di compiere il medesimo gesto compiuto dai maggiori pensatori rivoluzionari prima di lui. Per non cadere nella ripetizione di una politica di mera resistenza o difensiva a rischio di continuare a girare a vuoto, era arrivato il momento di tornare ai fondamentali della teoria – partire da Marx ed Hegel – e di ripensarli in profondità. Di risalire alla critica dell’economia politica, per ritrovare questa discordanza dei tempi nella logica di funzionamento stessa del Capitale.
La lunga malattia iniziata a partire dai primi anni Novanta avrebbe poi funzionato da convertitore di energia, segnando in maniera definitiva il passaggio dal responsabile del servizio d’ordine e dall’ardente agitatore politico a un’attività teorica di una prolificità straordinaria. Pur senza mai abbandonare la propria identità di militante, pronto a impilare diligentemente le sedie al termine dell’ennesima riunione, Daniel Bensaïd si sarebbe quindi trasformato nel pensatore dell’intempestività.
Controtempi e intempestività
Contretemps è il nome scelto da Bensaïd per la rivista teorica da lui fondata nel 2001 e diventata dall’anno scorso la rivista ufficiale dell’Npa. Non si tratta solo di un nome, ma di un programma di riscoperta dei controtempi e delle intempestività implicati insieme sia dal modo di funzionamento specifico del Capitale sia dal gesto teorico che li svela rendendo così possibili un’altra intempestività e un altro controtempo: quelli della ragione strategica e della sua realizzazione pratica e organizzativa. In Marx l’intempestivo e La discordance des temps sono raccolti i risultati di un quindicennio di ricerche su Marx, nutrite dei seminari e delle letture condotte insieme ai suoi studenti nel corso degli anni, “contro venti e maree”.
La pubblicazione di questi due volumi è stata preceduta dall’apparizione in rapida successione, tra 1989 e 1991, di tre saggi di filosofia storica, definiti dallo stesso Bensaïd come una trilogia sulla storia e sulla memoria e dedicati alla rivoluzione francese e alla riscoperta di Benjamin e Giovanna d’Arco: Moi, la Révolution: remembrances d’une bicentenaire indigne (Parigi 1989), Walter Benjamin, sentinelle messianique (Parigi 1990), Jeanne de guerre lasse (Parigi 1991). Un preludio, o una deviazione necessaria prima di tornare finalmente a Marx e alla sua critica della ragione storica.
In Marx l’intempestivo e ne La discordance des temps si trattava non solo di “verificare i fondamenti teorici alla luce della contingenza”, ma anche di liberare Marx dalle incrostazioni ideologiche di un secolo di interpretazioni positiviste e deterministe, che avevano proliferato in seno alla Seconda Internazionale e alla tradizione socialdemocratica prima, e alla Terza Internazionale stalinizzata poi. Per far questo Bensaïd fa ricorso alla riscoperta del Marx delle tre critiche fondamentali: dell’economia politica, della ragione storica e del positivismo scientifico. La riflessione sul tempo si sposta così dal piano esclusivo dei processi di soggettivazione e del progetto strategico alla scoperta nel Capitale stesso (nei due sensi: nel modo di produzione capitalistico e nella sua critica) della compresenza di forme discordi di temporalità. In altri termini l’intempestività del gesto teorico marxiano, così come quella del salto insurrezionale leninista trovano un fondamento e una ragione in una discordanza dei tempi che caratterizza sia la relazione tra sfera della produzione, sfera della circolazione e sfera della riproduzione di insieme del Capitale sia lo sviluppo ineguale e combinato.
Come scrive Tombazos, uno dei maggiori interlocutori teorici di Marx l’intempestivo: «Il capitale è un’organizzazione concettuale del tempo. Non è né una cosa, né un semplice rapporto sociale, ma una razionalità viva, un concetto attivo, l’astrazione in actu, scrive Marx a più riprese: Il capitale è la logica della sua storia».
Il Capitale riorganizza il tempo, stratificandolo in una compresenza di anacronismi e punte di estrema modernità, linearità della produzione e vertiginosa circolarità dello scambio, intrecciando e incastrando insieme “tempo meccanico della produzione, tempo chimico della circolazione e tempo organico della riproduzione”. In questo turbinio di temporalità intrecciate Bensaïd prova a individuare la chiave dell’enigma del tempo della politica, cioè del tempo storico. Attraverso questa mossa – la riscoperta del Marx critico dell’economia politica – gli è quindi possibile fondare una concezione del tempo della politica che eviti due pericoli opposti, ma speculari. Da un lato, la fiducia in un tempo storico lineare e progressivo, già lapidariamente smascherata dal Benjamin delle Tesi sul concetto di storia, e la concezione per stadi della lotta politica rivoluzionaria. Dall’altra un’assolutizzazione della singolarità dell’evento rivoluzionario come svelamento di una verità che lo rende incommensurabile alla routine della situazione che lo precede e che lo segue. Entrambe le posizioni celano infatti la traduzione in termini secolarizzati di una visione teologica della storia: da un lato, l’idea di una provvidenza il cui disegno si svelerebbe progressivamente nel corso dello sviluppo storico sino a giungere al radioso sol dell’avvenire; dall’altro, una mistica dell’evento come istante della rivelazione.
A queste forme secolarizzate di concezione teologica della storia, della politica e del loro rapporto, si contrappone allora una politica che prova a essere radicalmente e interamente profana, intesa come arte strategica, libera da ogni ipostatizzazione misticheggiante della storia e dall’elaborazione di una nuova filosofia della storia universale, ma allo stesso tempo resistente alla frammentazione proposta dalle varietà delle teorie postmoderne: «Occorrerà […] spezzare il circolo vizioso del capitale globale e del feticismo assoluto della merce. E ciò passa attraverso pratiche e lotte, attraverso un nuovo ciclo di esperienze, attraverso una paziente attenzione alle lacerazioni del dominio da cui può sorgere una possibilità intempestiva, attraverso la preparazione a “questa decisione eccezionale che non appartiene a nessun continuum storico”, e che è l’anima della ragione strategica».
La lotta non è un gioco
Se il tempo è un rapporto sociale, la classe non è certo da meno. Il Marx critico della ragione positivista applicata al progresso storico è anche il Marx che concepisce le classi nelle loro relazioni reciproche, come rapporti e campi di forze, contro ogni deriva nel positivismo di una sociologia classificatoria: «La teoria di Marx non è nemmeno una sociologia empirica delle classi. Contro la razionalità positiva, che ordina e classifica, che costruisce inventari e repertori, che tranquillizza e pacifica, essa innesca la dinamica del conflitto sociale e rende intelligibile la fantasmagoria delle merci. Non che i diversi antagonismi (sessuali, gerarchici, nazionali) siano riducibili al rapporto di classe. La diagonale del fronte di classe li lega e li condiziona senza confonderli. Da questo punto di vista, l’altro (straniero per la sua religione, le sue tradizioni, la sua origine, la sua parrocchia o il suo campanile) può sempre divenire un altro me stesso in un processo di universalizzazione reale. Per questo le classi non sono mai oggetti o categorie di classificazione sociologica, ma l’espressione stessa del divenire storico».
In Marx l’intempestivo Bensaïd prova a ripercorrere, come un detective sulle tracce di un misfatto, il modo in cui le classi si rivelano per approssimazioni successive attraverso i tre libri del Capitale. Nel Libro I la classe si rivela come un produttore frammentario e mutilato, la cui definizione tuttavia appare già intimamente legata alla lotta sulla giornata di lavoro e dunque attorno al saggio del pluslavoro. Già nel Libro I, quindi, la classe non è riducibile alla semplice funzione di soggetto passivo dello sfruttamento, dal momento che essa è già da subito polo di un antagonismo con il Capitale attorno al tempo di lavoro socialmente necessario per la propria riproduzione.
Il rapporto di sfruttamento che determina la classe nel Libro I del Capitale, appare trasposto nel Libro II nella «negoziazione conflittuale della forza lavoro in quanto merce», un antagonismo i cui due poli sono da un lato il salariato che vende la sua forza lavoro, dall’altro il capitalista in quanto detentore del capitale monetario. Ma è solo nel Libro III, e nell’incompiutezza esasperante del capitolo sulle classi, che emerge finalmente la questione ineludibile della concezione delle classi come rapporti. Allora rispondere alla domanda “che cos’è una classe”, come se si trattasse di un fatto etichettabile, classificabile, fotografabile in sé, indipendentemente dalle sue relazioni conflittuali con le altre classi, diventa semplicemente un controsenso. Come scrive Foucault, citato più volte da Bensaïd: «i sociologi dibattono all’infinito su cos’è una classe e chi vi appartiene. Ma, fino ad ora, nessuno ha esaminato o approfondito la questione di cosa sia una lotta. Che cos’è la lotta quando si dice lotta tra le classi? Ciò di cui mi piacerebbe discutere, a partire da Marx, non riguarda il problema della sociologia delle classi, ma il metodo strategico che concerne la lotta».
Una lettura strategica delle classi è quindi la sola che possa permettere di coglierne la natura sfuggente allo sbriciolamento classificatorio. Lettura strategica che si oppone a qualsiasi riduzione degli antagonismi di classe alla “teoria dei giochi”, tentata da una parte del marxismo analitico. La lotta è la cifra nascosta della determinazione di una classe, una lotta che prende avvio già dall’opposizione del lavoro vivo al lavoro morto nel rapporto di sfruttamento e che non svanisce nel momento in cui si dileguano le sue forme più vive o più coscienti. Una lotta che inizia per non finire più.
Zavorre o bagagli?
L’acuta consapevolezza dell’impossibilità della riduzione della lotta di classe a gioco derivava a Bensaïd certamente ancor prima che da una presa di posizione teorica, da un’adesione politica senza soluzioni di continuità. Un’adesione al comunismo come “movimento reale”, ma anche un’adesione più specifica, quella a una corrente politica, la Quarta Internazionale, che dal 1969 in poi non avrebbe mai abbandonato. All’interno dell’Internazionale ha ricoperto un ruolo dirigente per molti anni, occupandosi dell’Argentina, poi della ricostruzione della sezione brasiliana, senza tralasciare un ruolo di formatore svolto per lungo tempo all’IIRE di Amsterdam. Di questa appartenenza, in Chi sono questi trotskisti?, Bensaïd rivendica in particolare il “diritto a ricominciare” conquistato da una corrente internazionale, che, per quanto minoritaria e lacerata da ripetute scissioni al limite della patologia, sintomo ed effetto della sua condizione di isolamento, non ha «condiviso il fallimento politico e morale dei […] partiti maggioritari» del movimento operaio. Una corrente che per settant’anni si è trascinata appresso, faticosamente, attraverso le sconfitte, la repressione stalinista e quella fascista, i “bagagli dell’esodo” che le hanno consentito di continuare a pensare la rivoluzione in assenza della rivoluzione.
Confondere la continuità di un’appartenenza politica e quella di un’appartenenza teorica sarebbe però fuorviante. Bensaïd era consapevole che i bagagli – il patrimonio teorico e politico elaborato da Trotskij negli anni Trenta – devono essere costantemente messi a verifica e ripensati per non trasformarsi in pesanti zavorre.
Già controcorrente con il suo volontarismo ultraleninista degli anni giovanili, Bensaïd non lo è stato di meno con il gesto teorico compiuto a partire dalla fine degli anni ’80 e che lo ha portato a pubblicare più di venti libri in un costante corpo a corpo con la morte. La straordinaria ricchezza di riferimenti teorici e letterari di cui si è nutrita la sua scrittura e la sua riflessione ha allargato i confini del patrimonio a disposizione della sua corrente ad un’ampiezza sino ad allora sconosciuta, certamente sconosciuta a partire dai tempi di Trotskij. La sua concezione della discordanza dei tempi, se da un lato approfondisce alcune potenzialità insite nella teoria dello sviluppo ineguale e combinato, cozza però indubbiamente con un certo residuo di positivismo che viveva nelle pagine di Trotskij stesso e che ritorna ancora nell’opera di Mandel.
Se la teoria vive di un’inevitabile autonomia rispetto alla quotidianità della militanza, per non rischiare di rimanere schiacciata sulla contingenza e l’impressionismo, questa autonomia non può però mutarsi in schizofrenia. L’impegno di Bensaïd è stato attraversato dal costante tentativo di tradurre nel linguaggio performativo della prassi la critica sviluppata nel laboratorio della teoria. Senza mai rinunciare a nessuno dei vecchi bagagli che potesse rivelare ancora di svolgere un ruolo prezioso nel vivo della lotta presente, ne ha messo a disposizione della sua corrente politica anche di nuovi. Sta ora a questa collettività, che aveva scelto, imparare ad usarli e continuare a trasportarli.