Marghera, la parte o il tutto?
Insieme a molte persone abbiamo seguito il convegno di “Uniti contro la crisi” a Marghera, sabato e domenica scorsi, grazie alla diretta tv di globalproject (leggi qui l’articolo conclusivo di Gianni Rinaldini e Luca Casarini). La nostra è stata una visione mediata anche se una parte delle nostre considerazioni sono ricavate anche da colloqui con chi sul posto c’è stato direttamente. E quindi proviamo a fare una valutazione.
Un po’ meno di un migliaio di persone, con molti giovani e giovanissimi, che si riuniscono per due giorni provando a far convergere esperienze di lotta diverse tra loro costituiscono una notizia positiva. E, infatti, abbiamo guardato all’appuntamento veneto con grande attenzione. Perché pensiamo che quel tipo di iniziativa rappresenta la risposta giusta alla fase attuale. Del resto, il logo “Uniti contro la crisi” è stato lanciato per la prima volta due anni fa a Milano, come coordinamento delle fabbriche in lotta, poi è stato ripreso nel corso degi Stati generali contro la precarietà di Milano dello scorso anno. A settembre, poi, la denominazione è stata ripresa da un appello promosso da coloro che hanno dato vita al convegno di Marghera. L’unità dei soggetti colpiti dalla crisi per costruire una resistenza e immaginare un futuro diverso è dunque una prospettiva rilevante, possiamo dire che è centrale almeno dal 2001, da quando, cioè, si diede vita a quel processo di “forum sociali” che ha caratterizzato la stagione del movimento antiglobalizzazione.
A Marghera di questo si è parlato a lungo e si è discusso anche nei singoli workshops, vero cuore collettivo di quell’iniziativa, di come provare a costruire risposte sulle contraddizioni principali della fase: il nodo della conoscenza e dei saperi, i beni comuni, la democrazia e il welfare. Fin qui tutto bene.
I dubbi e gli interrogativi riguardano invece il rischio che l’iniziativa possa assumere quella forma particolare della sineddoche in cui si sostituisce la parte per il tutto. La parte, in questo caso, è l’iniziativa di “alcuni” soggetti sociali, e politici, con una storia ben definita, con collocazioni, identità, progetti, strategie ben chiari, anche se in evoluzione e in cambiamento; il tutto, invece, è un movimento ampio, di massa, formato da altri soggetti oltre a quelli che si sono riuniti a Marghera. Sicuramente non è nelle intenzioni dei promotori ma avendo già vissuto in passato equivoci, divergenze e avendo sperimentato errori e fallimenti, il problema sollevato non ci sembra secondario. Anche perché, non ci sembra di aver sentito ricordare, nelle parole del seminario veneto, l’esigenza di procedere a un allargamento del percorso e a una moltiplicazione degli appuntamenti in grado di costruire una dinamica evolutiva. Anzi, abbiamo percepito proprio il contrario.
A noi sembra invece che da questa necessità non si possa prescindere. Siamo i primi a riconoscere il ruolo “storico” che la Fiom sta svolgendo in questa fase eppure non pensiamo sia inutile costruire unità efficaci con il sindacalismo di base (nonostante i problemi e le contraddizioni che si vivono in questo campo); nemmeno pensiamo che la rivendicazione sacrosanta dello sciopero generale e generalizzato possa costituire la strada per ridare centralità a una Cgil legata mani e piedi alle dinamiche politiche del Partito democratico e del centrosinistra. Soprattutto, pensiamo che sia sempre in agguato il rischio – già corso nel 2003-2006, come ha ricordato Giorgio Cremaschi a Marghera – che l’attività generosa e preziosa dei movimenti sia poi utilizzata come massa di manovra per operazioni politiche: ieri l’Unione nell’alleanza tra Prodi e Bertinotti (apparso nella sessione serale di “Uniti contro la crisi” come “direttore di Alternative per il socialismo”), domani Nichi e le sue fabbriche.
A dissipare queste preoccupazioni, più che l’analisi scientifica di ogni parola detta o intenzione pronunciata, potrà essere il percorso futuro. A partire dalla fase successiva al 28 gennaio e dalla voglia o meno di allargare e spingere all’incontro tra soggetti sociali, di fare assemblee unitarie, comitati, oltre qualsiasi tentazione di una convergenza fatta solo di sigle politiche. Un ruolo importante, poi, lo può giocare il decennale di Genova. Se non si vuole utilizzare questa ricorrenza solo per dare fiato a una nostalgia più o meno dignitosa, l’alternativa resta quella di provare a recuperare lo spirito originario del Controvertice del luglio 2001, il rilancio del binomio “unità e radicalità” e la forza dell’unione tra forze sociali diverse. Pensare che Genova possa essere appannaggio solo di alcune forze costituirebbe la prova dell’errore e non impiegare i mesi che ci separano da luglio per provare a costruire quello che si costruisce in ogni appuntamento internazionale, una “Plenaria dei movimenti sociali”, sarebbe un delitto. Uniti contro la crisi è una parola d’ordine giusta che non può prevedere recinti ma che deve sperimentare la più ampia convergenza. Certamente, non a ogni costo, senza accettare veti o pratiche dilatorie ma anche senza imporre simbologie e ritmi precostituiti che negli scorsi dieci anni sono stati solo una ma una delle cause del nostro arretramento complessivo.