Nel segno del keynesismo finanziario
Nel suo ultimo libro Joseph Stiglitz riassume con precisione quanto avvenuto quando dichiara che «siamo arrivati al culmine di un trentennio speso a schivare una crisi dopo l’altra». La sfera economica si è trovata sotto l’incombere di una continua crisi che ha schivato, per l’appunto, principalmente con espedienti finanziari. È la finanza, sempre più slegata dai fondamentali, a trasformarsi nel motore della crescita e a sopperire ai limiti che emergono dai fattori produttivi tradizionali. Con l’ultima crisi questa arma sembra mostrare la corda, eppure dopo un primo momento di panico il tentativo è quello di ripartire proprio dalla finanza per risolvere i problemi causati dalla finanza stessa.
Scopriamo così che negli ultimi sei anni l’ammontare di denaro circolante su scala globale è aumentato del 70%, passando da 31 mila miliardi a quasi 54. Questa politica del denaro a condizioni vantaggiose e in quantità pressoché illimitata è guidata dagli Usa e ora in maniera consistente anche dal Giappone. Nel solo 2013 si prevede un’iniezione di liquidità della Fed e della Banca centrale giapponese pari a 2 mila miliardi di dollari. Segno che i problemi non si esauriscono in Europa, ma che sono di ordine globale e che le principali potenze provano a farvi fronte con manovre dal carattere eccezionale. A ciò fa seguito da parte della Bce un’ulteriore riduzione del costo del denaro che scende ai minimi storici di 0.50%. Sono queste operazioni su scala monetaria e macroeconomico a determinare un raffreddamento della crisi dei debiti pubblici. Non è un caso che la prima discesa dello spread in Italia sia avvenuta tra il 2011 e 2012 con l’immissione di mille miliardi di euro al prezzo risibile che oscillava tra 1 e 0.75%. Altro che governo Monti! Oggi lo spread scende per il medesimo motivo, cioè per l’invasione sui mercati di denaro facile, anche di fronte a due mesi senza un governo.
Questa massa monetaria ridimensiona l’emergenza dei debiti pubblici e incentiva le grandi imprese, cioè le uniche che se lo possono permettere, a emettere obbligazioni per raccogliere direttamente denaro a tassi particolarmente convenienti. Potrebbe apparire come un tentativo per ridare fiato all’economia, magari saltando l’intermediazione bancaria, ma in realtà è un’operazione basata nuovamente su debiti, perché di questo si tratta, e caratterizzata da un keynesismo finanziario rivolto a segmenti ristretti della società, cioè non solo non teso a una redistribuzione della ricchezza, ma neppure a intervenire per agevolare imprese medio-piccole e semplici cittadini che continuano a sottostare a condizioni capestro nel credito.
Tale inondazione monetaria produce nuovamente la ricerca di investimenti finanziari rischiosi, ricerca che si riversa su titoli a rischio per il semplice fatto che non vi sono canali di sbocco sicuri a sufficienza. Ecco perché i titoli di debito dei paesi con problemi di insolvenza sono tornati a essere interessanti. Ma la sconnessione con l’economia reale di questo ulteriore espediente finanziario conferma come il debito non sia in funzione del rilancio degli investimenti e della domanda. Si continua a perseverare nella mancata circolarità del rapporto credito/debito, nel procrastinare il pagamento del debito, anzi nell’aumentarne il suo volume in rapporto alla ricchezza realmente a disposizione. Non si vede mai la fine del rapporto tra creditore e debitore. Semplicemente si rimanda la possibilità di risolvere problemi che sono urgenti e che ormai da troppo tempo incombono sul sistema. Nell’attesa dell’esplosione di nuove bolle perseverare è diabolico.