Occupy la sinistra
Il sindaco Bloomberg e la polizia di New York non hanno perso l’occasione per scatenare l’ennesima caccia all’uomo con la solita brutalità che li contraddistingue. Sabato sera il movimento Occupy Wall Street ha tentato di rioccupare Zuccotti Park a sei mesi dalla prima occupazione. La risposta è stata durissima, diverse centinaia di poliziotti hanno sgomberato la piazza dopo che erano comparse le prime tende, operando una cinquantina di arresti – non ci sono ancora cifre ufficiali – con lo scopo di mandare un messaggio esplicito sia a Occupy Wall Street che al Left Forum che si svolgeva ad alcune centinaia di metri di distanza. Cresce infatti la preoccupazione da parte del sistema politico americano, e di conseguenza dei suoi apparati repressivi, in vista dello sciopero del 1° maggio. Una scadenza che sta coinvolgendo gran parte del movimento all’insegna dello slogan : no work, no school, no housework, no shopping, no banking, take the street.
Dalla costa est a quella ovest si stanno moltiplicando gli incontri per organizzare i blocchi della produzione e della circolazione delle merci di qualsiasi natura, materiali o immateriali che siano. Una sfida ad altissimo livello lanciata a un sistema politico-economico-finanziario tanto potente che può riuscire ad impedirla ma al tempo stesso talmente debole da non poterla sopportare. E’ su questa contraddizione che si sta giocando l’intera partita del movimento americano. Intanto nel fine settimana si è tenuta a New York l’edizione 2012 del Left Forum. Il forum annuale, circa 400 tra workshops, eventi culturali e musicali, della sinistra radicale degli Stati Uniti. Più o meno tutto ciò che esiste a sinistra del Partito democratico. A parte il folklore di piccolissimi gruppi che pensano che la Cina sia la patria del comunismo e che le rivolte arabe siano una macchinazione dell’imperialismo, le migliaia di partecipanti si sono confrontati con il tema centrale del forum: occupy the system. Le risposte da dare alla crisi e il rapporto con il movimento nato sei mesi fa sono state le tracce di discussione che hanno attraversato le tre giornate.
Discussioni non semplici che hanno scontato il ritardo della sinistra radicale americana nei confronti di un movimento che l’ha vista completamente impreparata e che ora si trova obbligata a rivedere analisi, contenuti e linguaggi. Quest’anno con l’esplosione del movimento Occupy, probabilmente gli organizzatori avrebbero dovuto rivedere, anche solo parzialmente, la formula del forum. Invece di lasciare, come negli anni precedenti, alla completa spontaneità dei soggetti partecipanti i contenuti e i percorsi dei workshops c’era la necessità di articolare alcuni momenti centrali di incontro tra movimento e soggetti politici. Purtroppo si è riprodotta una separazione tra gli workshops di movimento sullo sciopero generale, sulla costruzione di reti, sul debito studentesco – che ha superato i mille miliardi di dollari incatenando alle banche la vita di milioni di universitari – e gli workshops di associazioni, organizzazioni politiche con l’obiettivo soprattutto di ricercare la giusta analisi della crisi del capitalismo, del sistema finanziario con l’annessa ideologia dominante. In sostanza non si è colta un’occasione per colmare un divario che tuttora esiste, pur nella differenza di ruoli, tra la vivacità sociale di un movimento e la difficoltà di un discorso politico che non riesce a fare breccia come dovrebbe.
La fotografia che ne è uscita è quella di due soggetti collocati nello stesso luogo che però guardano in direzioni diverse. Altre due questioni comunque hanno aleggiato durante tutto il forum anche nelle discussioni informali tra gli attivisti presenti: il rapporto tra sindacati e movimento e le prossime elezioni presidenziali. Le organizzazioni sindacali, uniche strutture negli Stati Uniti con un impianto nazionale, dopo una prima fase di supporto – in molti casi solo formale – del movimento e dopo lo sciopero di Oakland e il blocco dei porti della West Coast hanno cambiato atteggiamento. Le pratiche e gli obiettivi dei vari Occupy stavano raccogliendo consensi e sostegno all’interno di strutture sindacali di base incominciando a mettere il discussione il monopolio della rappresentanza sindacale. Si è arrivati addirittura alla ridicola scomunica, da parte della direzione nazionale del sindacato dei portuali, dei propri iscritti che partecipano non solo alle iniziative ma anche alle riunioni del movimento. La politicizzazione in atto nel movimento, soprattutto sulla West Coast tra Oakland e Seattle, pone ormai questioni che sono incompatibili con organizzazioni sindacali che mescolano la contrattazione collettiva con la presenza nei consigli di amministrazione delle aziende e gli investimenti in borsa dei fondi pensione. L’attestarsi, come fanno non poche organizzazioni della sinistra radicale, su una difesa di principio delle attuali forme di sindacalizzazione o al limite ad avanzare un’astratta critica dei vertici sindacali, corrotti e compromessi, in difesa di una base sana e pronta al conflitto non regge alla prova dei fatti. I milioni di precari, migranti, disoccupati, lavoratori non iscritti al sindacato che rappresentano l’89% della forza-lavoro sempre più spesso vedono come inutili se non controproducenti, per la loro condizione, le politiche sindacali. A tutto questo si aggiunga l’appoggio incondizionato della grandissima maggioranza dei sindacati alla rielezione di Obama che non ha certamente brillato, in questi quattro anni di presidenza, nella difesa dei diritti dei lavoratori, dei precari e dei migranti.
Ma la pressione dei sindacati sul movimento e sulla sinistra radicale americana è fortissima. Il discorso è il solito che si conosce bene anche in Europa: Obama è il meno peggio. Di fronte alla rissa in atto nelle primarie del Partito repubblicano bisogna abbassare i toni del conflitto per creare le condizioni di una riconferma di Obama. Per fortuna i movimenti sociali non si possono attivare o spegnere alzando o abbassando un interruttore. Quando una trasformazione sociale è in atto, la sinistra radicale o è in grado di essere all’altezza delle domande che vengono poste oppure semplicemente non è.