Perché Evo ha perso il Referendum
Domenica scorsa, il popolo boliviano ha votato al referendum per riformare la costituzione del paese e consentire la rielezione del presidente Evo Morales nel 2019. In questo articolo, scritto prima di conoscere i risultati quasi definitivi (51.30% no, e 48.70% sì, con il 99,72% dei voti contati), Pablo Stefanoni analizza la situazione politica che si sta aprendo in Bolivia.
Evo Morales si è messo da solo in quella che, fin dall’inizio, sembrava la scelta più difficile in una gestione caratterizzata dal susseguirsi per circa un decennio di forti successi elettorali. Come se l'”astinenza” elettorale risultasse insopportabile per un leader che ha bisogno della continua approvazione delle masse, il presidente della Bolivia si è avventurato in un referendum per consentire precocemente la possibilità di un quarto mandato quando gli rimangono ancora quattro anni per finire il suo terzo mandato. Così lo stesso governo che ha proposto la Costituzione dello Stato approvata nel 2009, che ha posto le basi dello stato plurinazionale, ha deciso dopo sei anni di modificarla. La domanda del quesito refendario era: “Sei d’accordo con la riforma dell’articolo 168 della Costituzione per permettere la rielezione del presidente e del vice presidente dello stato per più di due volte consecutive?”.
La prima ovvia difficoltà di un referendum di questo tipo è che unifica tutti gli avversari nell’opzione del No. Dai razzisti che non hanno mai voluto un contadino indigeno come presidente fino ai critici del governo per il fatto che non sarebbe un vero e proprio governo indigeno ma una sua blanda imitazione o addirittura un governo anti-indigeno, la coalizione del No ha permesso l’unificazione intorno a un voto che altrimenti non si sarebbe mai unito su di una candidatura comune. Si tratta di qualcosa di naturale, che non squalifica le loro ragioni, ma chiarisce le interpretazioni che tentano di leggere il risultato in modo unidimensionale. Né Montesquieu resuscitò nelle Ande, né tutto è riconducibile alla mano nera dell’impero, né il famoso “Buen Vivir” ancestrale ha risvegliato le divinità delle cime andine per vendicarsi del “neo-sviluppismo” populista di Evo.
Forse si tratta di qualcosa di più semplice: un’insieme di fattori tra cui l’usura dopo un decennio di governo – e le conseguenti difficoltà nel trasformare in realtà vitale le utopie che mobilitano -, errori politici, come quello di convocare così presto un referendum dopo la vittoria elettorale del 2014, ottenuta con la percentuale record del 61%, oltre ad una brutta campagna elettorale referendaria. Così, ciò che tra il 2010 ed il 2014 era stato ottenuto dal processo di de-polarizzazione, con l’aiuto del successo economico di Morales, è stato praticamente annullato con una nuova ri-polarizzazione intorno alla sua figura. In sintesi possiamo dire che il 21 Febbraio Evo ha perso contro sé stesso piuttosto che contro l’opposizione.
In questo decennio il Movimiento al Socialismo (MAS) si attesta, con successo, a capo di un nuovo modello economico basato sullo statalismo e su una certa ortodossia macroeconomica, e su un nuovo Stato più aperto alla diversità interna del Paese. “Il socialismo è coerente con la stabilità macroeconomica”, ha detto più volte il ministro dell’Economia Luis Arce, che occupa questa carica da più di un decennio (una pietra miliare in un paese noto per le sue convulsioni economiche, che negli anni ’80 portarono all’iperinflazione). I “Chuquiago boys” – un ironico riferimento al nome Aymara di La Paz – hanno infatti dimostrato un’efficienza che i neoliberisti non hanno mai realizzato, in parte grazie agli elevati prezzi delle materie prime, ma anche alla politica di espansione del mercato interno, alla nazionalizzazione degli idrocarburi, alla gestione “prudente” dell’economia e ad una fiscalità più equa ed efficace(1). Oggi lo scenario è cambiato soprattutto a causa del calo dei prezzi delle materie prime, ma la struttura economica funziona ancora e si prevede anche un ciclo di forti investimenti pubblici.
Il problema è che il referendum ha scatenato un sentimento diffuso contrario alla rielezione, presente nel latente spirito anti-statalista dei boliviani (anche se contemporaneamente reclamano la necessità di “più Stato”). Hernando Siles, promotore di un timido riformismo sociale, ha affrontato una rivolta popolare nel 1930 quando ha cercato di “rimanere” al potere; il leader della Rivoluzione Nazionale, Victor Paz Estenssoro, ha dovuto affrontare un colpo di stato dopo aver effettuato un secondo mandato consecutivo nel 1964 e fu costretto all’esilio in Perù. Gonzalo Sánchez de Lozada, nel suo secondo mandato non consecutivo, nel 2003, dovette fuggire in elicottero nel bel mezzo della guerra del gas, e così via… L’avversione per il “perpetuarsi dei mandati” è uno dei tratti della cultura politica boliviana e della sua sfiducia verso il potere. Non si dovrebbe inoltre sminuire la penetrazione di una certa cultura politica “liberale” all’indomani del consolidamento democratico iniziato nel 1982.
Morales è riuscito a intorpidire quelle pulsioni, e come presidente-simbolo di una nuova era ha vinto elezioni su elezioni per un decennio. Ma ora la magia è in gran parte dissipata. In ogni caso però, dopo un decennio, in un paese politicamente instabile come la Bolivia, continuare ad avere quasi la metà dei voti non è un dettaglio da poco. Se i voti del No sono espressione di diverse sensibilità, quelli del Sì, sono un appoggio chiaro alla continuità del progetto di Morales. Per questo l’opposizione sa che il MAS non è stato sconfitto ma che sicuramente il progetto pro-governo si è indebolito.
I risultati di Domenica 21 febbraio possono essere interpretati come una perdita dei settori che il MAS aveva “guadagnato” nelle urne – attraverso la sua espansione egemonica -, ma che erano lontani da una fedeltà elettorale assoluta: gli elettori delle grandi città e quelli dell’oriente autonomista guidato da Santa Cruz. I contadini e le città intermedie sono stati i settori che hanno salvato il presidente da una grande sconfitta. Tuttavia, i conflitti locali di Potosi ed El Alto, mal risolti, hanno indebolito Evo in queste zone andine, bastioni storici del MAS.
Evo ha sempre creduto che il suo “patto di sangue” sia con i contadini, che sono quelli che non lo abbandoneranno mai, mentre il supporto “urbano” è sempre stato visto con sospetto e qualificato come volatile. Questi due aspetti sono sempre stati i punti di forza e di debolezza del progetto di Evo, che si è sempre appoggiato sulla sua base contadina (paradossalmente quando il paese diventa sempre più urbano).
A questi elementi si deve aggiungere una campagna referendaria più efficace da parte del fronte del No, soprattutto sui social network (in realtà il presidente ha chiamato, dopo il referendum, a “discuterne l’utilizzo” perché su quei mezzi si organizzano guerre sporche per “rovesciare i governi”). Una serie di figure – come i giornalisti Amalia Pando(2) o il più controverso Carlos Valverde da Santa Cruz – si sono uniti alle grandi quantità di autorità regionali situate all’opposizione ed hanno dinamizzato la campagna per il No (un’altra difficoltà per il MAS è stata sempre quella di ottenere il governo delle grandi città e dei governatorati: il prestigio di Evo è sempre stato inversamente proporzionale alla poco brillantezza dei suoi governi locali).
Dal 2009 il pragmatismo ha permesso ad Evo di ampliare la sua base a Santa Cruz, mentre il suo governo stava diventando sempre più “normale” e stava perdendo l’epica rivoluzionaria. Non a caso il discorso della stabilità ha pian piano sostituito il discorso del cambiamento. E per la prima volta dal 2005 la campagna elettorale di Morales per il 21 febbraio non ha proposto un immaginario per il futuro e si è rifugiata nelle conquiste del passato. Non è usuale che, dopo i risultati negativi, ancora in attesa dei risultati ufficiali, Evo Morales abbia ricordato gli attacchi che, come candidato presidenziale contadino, ha ricevuto nel 2005, quando fu accusato di essere “talebano” o “narcotrafficante”. È stato una specie di rifugiarsi nell’immaginario dell'”Evo contadino”, che la gestione del potere aveva quasi cancellato; un ritorno alle origini e all’ambiente in cui si sente più sicuro, quello del “patto di sangue” etno-culturale.
All’interno di una crescente perdita di iniziativa, i colpi dell’opposizione – certamente molto dispersa – hanno iniziato a scalfire il muro costruito negli anni precedenti. Così la scoperta che un ex compagna di Morales era a capo di una società cinese che ha ricevuto appalti pubblici senza gara ha avuto un impatto sul capitale morale di Evo, fonte principale della sua legittimità politica. A questo si sono aggiunti gli scandali del Fondo indigeno: progetti fantasmi finanziati dallo Stato che sono finiti per essere una messa in discussione della capacità indigena di rinnovare la politica. Inoltre la rivelazione che il vicepresidente Alvaro Garcia Linera non ha completato la sua laurea in matematica in Messico ha avuto un impatto eccessivo costringendolo a porsi sulla difensiva, ed ha indebolito il suo status di intellettuale nonostante sia un ospite fisso in diverse università di prestigio e sia profondamente stimato per il suo lavoro teorico e politico.
Ma il No ha colto anche un’argomentazione che è diventata un’arma potente perché in linea con un sentimento generalizzato, presente specialmente nelle aree urbane: che quello di Evo sia stato un buon governo per diversi aspetti, ma non sia un fatto positivo che rimanga al potere. Ad esempio lo scrittore Edmundo Paz Soldan ha detto che vede la Bolivia di questo decennio “come un’economia che non ha smesso di crescere, che ha permesso la riduzione della povertà estrema, l’espansione della classe media e il marcato miglioramento dei nostri indicatori sulle politiche riguardanti la sanità e l’istruzione”. Aggiunge poi che “Morales ha gestito l’economia, ha promosso necessarie politiche di inclusione di gruppi esclusi, e ha stabilito una politica marittima coerente; ha anche proiettato il paese nel campo internazionale”. Sostiene però che “d’altra parte ci sono aspetti negativi come la corruzione istituzionalizzata, la mancanza di indipendenza della magistratura, la mancanza di politiche di uguaglianza di genere, e l’assenza di un vero piano di industrializzazione che renda la Bolivia indipendente dall’andamento dei prezzi delle materie prime”, e conclude dicendo che “Spero solo che la Bolivia sia all’altezza e mostri al continente che, anche se ammira Evo e approva la sua gestione, ha più fiducia nelle sue istituzioni e in una democrazia che limiti gli impulsi che hanno i leader a rimanere sempre al potere”.(3) In questo ragionamento sono contenute molte delle opinioni che hanno rafforzato il voto per il No, le più difficili da neutralizzare dal governo.
Ma la perdita della “magia” ha sollevato anche altri fantasmi. Il rogo del palazzo comunale di El Alto, governato dalla giovane sindaca dell’opposizione Soledad Chapetón(4), causato da “padri di famiglia” che protestavano, ha chiarito che l’eredità della capacità di azione collettiva, che nel 2003 aveva aperto la strada alla guerra epica del Gas, in un altro contesto ha portato alla sopravvivenza di forme eccessive di protesta, che impediscono il normale funzionamento delle istituzioni e causano morti. Tutto questo crea un forte rifiuto da parte della “maggioranza silenziosa” per i movimenti sociali, ridotti spesso ad essere considerati mere istanze corporative, spesso con sfumature mafiose, come nel caso del “caudillo” di El Alto, il sindacalista Braulio Rocha, che aveva avvertito Chapetón che sarebbe stato il suo “incubo” ed ora è stato arrestato con l’accusa di incendio doloso.
Un aspetto dei governi nazional-popolari è la loro difficoltà ad accettare un nuovo ordine, ne troviamo un esempio nella tendenza a considerare le costituzioni approvate durante i loro mandati come risultato di correlazioni di forze transitorie che si devono cambiare di fronte alla minore possibilità di “avanzare nel processo”. Questo provoca situazioni paradossali, che si sono verificate anche in Venezuela: i tentativi di cambiare le nuove costituzioni fanno sì che la loro difesa finisca nelle mani della destra che in passato ha cercato di impedirne l’approvazione. Un’altra difficoltà è quella di fare politica con efficacia una volta indeboliti i propri nemici.
Se si confermassero questi risultati il MAS dovrebbe pensare ad un altro candidato per il 2019, cosa che potrebbe avere come risultato positivo l’obbligare il partito ad abbandonare l’inerzia data dai trionfi elettorali automatici e attualizzare le sue proposte di trasformazione. Adesso è troppo presto per anticipare i potenziali candidati: il cancelliere David Choquehuanca? Il Vicepresidente Álvaro García Linera? Il presidente del Senato ed ex giornalista Gringo Alberto Gonzalez? In una recente intervista al quotidiano El Deber il presidente è sembrato a disagio quando gli hanno fatto una domanda sulla possibilità che il vice presidente (che lo ha accompagnato durante questi dieci anni) fosse il piano B in caso di sconfitta. Anche se lo ha elogiato come una sorta di co-pilota, lo ha descritto più come un segretario che come un “presidenziale”.(5) Forse era solo una frase dovuta al disagio di rispondere a una domanda su una possibile sconfitta. Ma forse anche lui voleva dare un segnale. D’altra parte il referendum sarebbe un No per Garcia Linera, infatti il quesito riguardava la possibilità di rieleggere per un nuovo mandato presidente e vicepresidente. Evo proverà ad essere una sorta di Putin in cerca del suo Medvedev o un Lula alla ricerca di un candidato che non sia un mero delfino? A un certo punto si era parlato di una donna “per completare la rivoluzione culturale”, ma almeno oggi Gabriela Montaño, ex presidentessa del Senato e attuale presidentessa dei deputati, ancora non ha raggiunto un alto livello nei sondaggi. Anche se Evo non deve escludere sorprese in termini di nomi futuri. In generale i cambiamenti a livello continentale di certo non aiutano il MAS.
Al di là delle candidature, la domanda è se il governo riuscirà a far “innamorare nuovamente” i boliviani con nuove proposte di trasformazione. Le idee sulla Bolivia come nuova potenza energetica contenevano un eccesso di ottimismo (e toni da anni ’50) che hanno offuscato i progressi reali nel settore degli idrocarburi, mentre questioni come la sanità e l’istruzione rimangono progressi portati avanti a metà. Lo stesso è accaduto con l’acquisto di un satellite cinese che ha portato ad un suo sovrautilizzo, efficace all’inizio, ma controproducente in seguito. Come osservato in un recente articolo “la possibilità di fare il ‘grande balzo in avanti’ nell’industria, senza un apparato tecnico-scientifico adeguato, diventa illusoria. Il piano di sviluppo 2025 è troppo generale […] L’importanza che il presidente boliviano ha assegnato al passaggio del rally “Dakar” in Bolivia, nonostante gli aspetti neocoloniali ed i suoi effetti ambientali, è uno degli elementi di tensione dei discorsi ufficiali, che stanno andando verso una maggiore deriva centrista. Allo stesso tempo l’accento sulla macroeconomia e le sue cifre occlude alcune discussioni più generali sul futuro all’orizzonte del Paese”.(6)
Dal punto di vista del No un’opposizione di “nuova destra”, con basi territoriali in varie regioni, cercherà di capitalizzare il risultato contro una minoranza che cercherà di costruire un’opzione progressista non legata a Morales. Il campo del No vivrà le sue battaglie, per superare una forte disgregazione, lo screditamento delle vecchie figure (associate con i governi del passato) e la necessità di rinnovamento generazionale (ci sono sindaci e governatori under 50 che guardano con occhi nuovi il loro futuro politico ). Per il momento il No è un insieme di più voci (contro l'”arroganza”, gli “abusi”, le “nuove élite” e, tra i più esaltati, contro la “dittatura» e, per quelli ancora più esaltati, contro gli indios ed in favore della “democrazia” o della “Costituzione”), che pongono richieste genuine, rifiutano lamentele inutili e rimettono in discussione la gestione di una Costituzione che è stato definita come una rifondazione. Ma, come sappiamo, la politica dipende molto da chi si appropria dei “momenti decisivi” della storia. E questi momenti capiteranno una volta finito il gioco elettorale con l’apertura di una situazione completamente nuova rispetto a quella vissuta dal 2006. Nel frattempo l’immagine delle “due Bolivie” – così citata tra il 2006 e il 2008 – torna sulla scena. Tuttavia contro la tentazione di pensare che la storia abbia un moto circolare possiamo affermare che la Bolivia non è più la stessa di prima del 2006. Indubbiamente è progredita sotto diversi punti di vista. Anche se molti dei suoi fantasmi si rifiutano di andare in pensione.
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Note:
1. Óscar Granados, “Un decenio con los ‘Chuquiago boys’ de Evo Morales”, El País, Madrid, 20-2-2016.
2. Pando rinunciò al suo programma su Radio Erbol, uno dei più ascoltati, denunciando che il governo stava strozzando finanziariamente la radio togliendole la pubblicità ufficiale.
3. “Evo Morales tiene muchas características de caudillos de siglos pasados”, La Tercera, Santiago de Chile, 20-2-2016.
4. Pablo Stefanoni: “La nueva derecha andina”, rivista Anfibia, http://www.revistaanfibia.com/cronica/la-nueva-derecha-andina/.
5. Pablo Ortiz: “Evo Morales: ‘Álvaro es mi mejor secretario, jamás se ha creído presidenciable’”, El Deber, Santa Cruz de la Sierra, 20-1-2016.
6. Pablo Stefanoni: “¿Puede perder Evo el 21F?”, rivista Panamá, http://panamarevista.com/puede-perder-evo-el-21f/
7. La frase, pronunciata da Mussolini, è citata in Emilio Gentile, “El fascismo y la marcha sobre Roma. El nacimiento de un régimen”, Edhasa, Buenos Aires, 2014.
* Traduzione di Dario Di Nepi
Fonte: http://www.eldiplo.org/notas-web/un-referendum-por-penales?token=&nID=1