Piazza Alimonda 11 anni dopo
“I segni sulla pelle bruciano ancora
nella mia mente bruciano ancora.
e allora tu non puoi dimenticare
il soffio del respiro soffocato
l’idea di resistenza e ribellione
e del suo fiore che hanno calpestato…”
Ogni 20 di luglio, in piazza Alimonda puoi sentire cantare canzoni come questa. Puoi vedere centinaia di persone che si riconoscono, che si abbracciano, che si raccontano mille volte la stessa storia, con indosso magliette sempre più sbiadite. Undici anni fa, era venerdì anche allora e come allora c’era il sole, faceva caldo. In questa piazza – fino ad allora, punto di ritrovo per tifosi genoani e snodo stradale tra ponente e levante – la pistola di un carabiniere mise fine alla vita di una ragazzo di ventitre anni incappato negli scontri innescati dalle cariche illegittime di un plotone della Benemerita contro un corteo regolarmente autorizzato. A maggio di due anni dopo un giudice metterà una pietra tombale sulle aspettative dei familiari di quel ragazzo per un pubblico processo che potesse dipanare i misteri di quella pistolettata. Un carabiniere si autoaccusò dopo un misterioso transito al comando provinciale. Ma disse che aveva sparato in aria che neppure vedeva se ci fossero persone di fronte al defender. Un filmato a disposizione di quel giudice mostra che Carlo Giuliani, era il nome del ragazzo, raccolse da terra un estintore dopo aver visto spuntare la pistola impugnata da killer dal lunotto posteriore. Un testimone aggiunse che aveva visto «il carabiniere semidisteso nella jeep che punta la pistola verso l’esterno e grida – Bastardi vi ammazzo tutti. L’arma è puntata verso un ragazzo in grigio che mi staaccanto, quindi si sposta verso un altro.».
Ma il giudice scrisse che la legittima difesa era quella del killer, che gli aggrediti erano i militari, un reparto zeppo di veterani di guerra. «Non vi è dubbio che sussistano i requisiti della offesa ingiusta portata ad un bene (l’incolumità personale) di cui gli occupanti del “defender” erano titolari. Altrettanto pacifico è che la condotta difensiva è stata posta in essere quando il pericolo era attuale.” Era la più importante di quelle che Wu Ming chiama “narrazioni tossiche”: disse che Placanica aveva «sparato senza mirare ma con l’intento di fermare l’aggressione; i colpi sono partiti con una traiettoria versol’alto» ma sarebbero stati deviati da un «bersaglio intermedio», un calcinaccio o magari un asteroide. Questo è il paradosso di Genova 2001: che per un calcio a una vetrina rotta qualcuno sta scontando dieci anni di galera, che per il massacro di 92 civili e il loro arresto illegittimo alla Diaz nessun poliziotto farà mai un istante di prigione, che per le torture di Bolzaneto manca addirittura il reato. E per un omicidio non c’è neppure il rischio di un processo. A parte le sinistre più radicali, solo don Gallo, prete partigiano ultraottantenne, prova a chiedere ancora che si riapra quel fascicolo e ricorda le responsabilità di De Gennaro, Fini, Scajola ma anche quelle di Cgil, Cisl e Uil che lasciarono soli i trecentomila. E, tra i misteri, si potrebbe aggiungere quello della cancellazione della proposta di commissione di inchiesta dalla calendarizzazione di Palazzo Madama nel 2006, all’inizio della breve e infausta era Prodi. Qualcuno a sinistra impedì che la commissione seguisse le procedure più snelle del Senato per inseguire il miraggio di una commissione bicamerale che fu stroncata da Violante e poi dai dipietristi e dagli uomini di Mastella in commissione.
La verità scritta nei tribunali è largamente intossicata dalle narrazioni di cui scrive Wu Ming alla vigilia di questo anniversario (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=9071): « Tutto quello che la maggioranza degli italiani sa della morte di Carlo è falso. … La “camionetta isolata e bloccata”, un estintore (vuoto) trasformato in arma letale. L’ignoranza su quell’episodio è trasversale, non conosce appartenenze di partito o coalizione. E’ passata – anche nelle aule di tribunale – una “verità di regime”, confezionata già nella prima ora dopo l’uccisione di Carlo e mantenuta grazie a un’accorta vigilanza mediatica…Vigilanza contro qualunque tentativo di – letteralmente – allargare l’inquadratura e, al tempo stesso, inserire l’episodio nella sua temporalità, nella concatenazione di eventi di quell’orribile pomeriggio».
Ecco perché Haidi e Giuliano, i genitori di Carlo, non sono d’accordo con l’appello di Marco Fiorletta di farla finita «con l’esposizione del corpo di Carlo Giuliani che ogni anno si ripete, spesso anche più volte l’anno secondo il ghiribizzo di ognuno di noi, purtroppo ciclicamente come gli anniversari. Cosa aggiunge, se non dolore su dolore, rabbia su rabbia, l’esposizione del morto un tempo riservato ai parenti ed amici a tutti?». Il papà di Carlo non si sottrae alla discussione aperta: «Senza quelle foto – dice Giuliano in piazza Alimonda – non avremmo potuto spiegare lo scempio che i carabinieri compirono con un sasso sul viso di Carlo, con un’efferatezza maggiore dell’averlo ucciso». Haidi concorda con Giuliano: «Chi non vuole vedere le foto non ha bisogno di sperare ma forse di sparare ancora». Ed è la rimozione il rischio di quella rinuncia. C’è in giro per l’Italia un sempre più nutrito gruppo di madri, sorelle, padri e amici che è costretto a rivivere la tragedia più immane della propria vita, a raccontarla, a spiegarla dipanando immagini fisse o in movimento, per inseguire un barlume di verità e spiccioli di giustizia.
Anche quest’anno, in Piazza Alimonda si è sentito cantare, recitare poesie, si è vista gente abbracciarsi e poi restare in silenzio alle 17.27, il minuto in cui risuonò la pistola del carabiniere. I testimoni di Genova, però, sono sempre meno: meglio, sono sempre gli stessi, quasi fosse, il loro, un dolore privato. La narrazione tossica fa scomparire l’appuntamento dalle pagine dei giornali e dal discorso pubblico. Un sindacato fascistoide di polizia ogni anno prova a infiltrarsi nel cono mediatico per interferire con la memoria. Stavolta ha mandato un furgone pubblicitario in giro per la città con le foto della cosiddetta devastazione.
Ma, attorno ad Haidi e Giuliano c’è stato comunque un bel traffico d’affetto e di rabbia e il giorno successivo si replicherà con la memoria della Diaz. C’erano cantanti, poeti, amici di Carlo, attivisti di movimento. C’erano compagni di strada come Lino Aldrovandi che condivide con i Giuliani la sorte di un figlio ucciso senza ragione da personaggi con la divisa. In discontinuità col passato recente in piazza è passato Marco Doria, sindaco da due mesi. Dice subito che è solidale con chi ha subito violenze e martedì si spiegherà meglio, a Tursi, nel consiglio comunale su quelle giornate di luglio.
Lui era in mezzo ai trecentomila perché non sopportava la militarizzazione della città e il pressing sui genovesi perché lasciassero la città. Sfilò il 19 coi migranti e il 21. Il 20 luglio restò a casa, contrario alla logica dell’assalto alla zona rossa, anche se era un’evocazione simbolica. Anche per lui manca che si faccia luce sulle responsabilità politiche perché i poliziotti indemoniati sembrava agissero come se fossero sicuri di avere piena copertura. Per Vittorio Agnoletto, che fu portavoce del Gsf, la presenza di questo sindaco ripaga almeno un po’ la ferita inferta da un altro inquilino di Tursi che rifiutò di costitursi parte civile per la Diaz.