Poliscrittura e polipensiero: un esperimento narrativo sull’Italia che lavora
Già dalla copertina la mia attenzione è stata catturata come un insetto dalla luce: oggetti, colori, grafica eccellente. Tra i banchi della manifestazione BookPride 2017, a Milano, dove protagoniste sono le case editrici indipendenti, spicca questo libro esposto da Edizioni Alegre.
Il contenuto dell’aletta mi avvince ancora di più; ammetto che non ho nemmeno fatto in tempo a finire quelle poche righe prima di cedere all’acquisto. Ci sono testi che rispondono ad un bisogno viscerale di conoscenza, di curiosità, che vanno ad inserirsi nel nostro personale incasellamento storico, come tasselli di un puzzle. Io vivo così la non-fiction e ne sto diventando dipendente proprio per il piacere inusuale che dona, nel suo essere diventata, al giorno d’oggi, curata e preziosa come i migliori romanzi.
Meccanoscritto è un titolo dietro al quale si celano esperienze, incontri, idee, proposte; è costruito secondo tre diverse linearità che si intersecano a treccia, componendo un racconto complesso e fondamentale per capire la storia dell’Italia che scende in piazza lottando per i suoi diritti al lavoro e alla dignità dello stesso. È una storia che si sviluppa in diverse fasi, a partire dalla fine del boom economico degli anni Cinquanta, districandosi sino ai giorni nostri con fatidiche e, talvolta, inquietanti ripetizioni. Il diritto costituzionale allo sciopero, l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, i presidi, le lunghe marce sotto agli striscioni, il valore sindacale, il significato del chiamarsi “compagni, l’unità di intenti, il crumiraggio, le intense discussioni ai tavoli delle trattative, la cittadinanza solidale, gli operai e gli impiegati, il taylorismo mai del tutto scomparso, la fatica, il muso d’uro, la ripresa e la ricaduta…”. La disperazione giovane dei disoccupati odierni che si riflette in quella antica dei licenziati di ieri. Ecco, tutto questo, nella mia piccola biblioteca “del vero”, sembrava un po’ mancare o comunque appariva scarno, sbocconcellato, un insieme di nozioni raccolte qua e là.
Dunque, da dove iniziare? 20 ottobre 1963: La Fiom provinciale di Milano, sezione del sindacato nazionale dei metalmeccanici, fa pubblicare su l’Unità un annuncio per un concorso di narrativa diretto a tutti gli operai interessati a raccontare del periodo di lotte sostenute negli ultimi tre fatidici anni. Forse di questi racconti non si sarebbe mai venuto a sapere nulla se non fosse che, nel 2012, presso l’Archivio del lavoro di Sesto San Giovanni, intento a raccogliere il materiale utile a scrivere la biografia del grande sindacalista Giuseppe Sacchi, il giornalista e scrittore Ivan Brentari si ritrova tra le mani un plico di una ventina di storie, ognuna di cinque cartelle, ognuna un piccolo tesoro. Avrebbe già avuto senso farle conoscere così com’erano, senza contorni; forse, però, serve una qualche contestualizzazione, nulla di eccessivamente ridondante ma che sia comunque incisivo. Contattare i componenti del collettivo Wu Ming è stato il passo successivo: sono infatti i creatori del romanzo “meticcio” e di una non-fiction dai connotati caldi e coinvolgenti, gli unici in grado di dare una giusta collocazione moderna a ciò che resuscita dall’oblio dopo cinquant’anni.
Ed è così che Wu Ming 2 si inventa un parallelismo tutt’altro che scontato: riunisce un gruppo di operai della Fiom in un laboratorio di scrittura che prevede la produzione di storie a più mani, in senso collaborativo. Non più l’approccio solitario al foglio bianco, ma un giustapporsi di pensieri e idee che siano elaborate all’unanimità; è proprio il senso della coesione quello che si vuole sottolineare con questo esperimento, una coesione che negli anni Sessanta si sentiva forte, che usciva dalla vita della fabbrica e si riproduceva all’esterno di essa nel senso di appartenenza, una coesione che si è andata sfaldando nel tempo e che sembra riprendere forma solo ora.
A fare da collante tra questi due filoni di narrazione pura, si inseriscono le cosiddette “infrastorie”, contenuti storici, sociologici e documentaristici, nei quali si ritrovano le motivazioni tangibili dei movimenti sollevatisi per la difesa dei diritti del lavoratore: sono racconti di imprenditori folli o, quantomeno, così pieni di sé e del proprio potere da pensare di aver in mano il mondo; sono racconti di fallimenti, fabbriche che improvvisamente chiudono, nomi importanti come la Geloso, la Breda, la Siemens, fabbriche che gli operai non abbandonano per evitare di ritrovarsi una mattina ad entrare in spazi enormi da cui sono stati portati via tutti i macchinari, verso Stati più economici, verso produzioni di più scarso valore. Sono racconti che rincorrono il tempo fino alla vittoria del No al referendum costituzionale del 2016, che alludono al governo Monti, a Renzi e al Jobs Act, ai sindacati che spesso non sembrano più rappresentare i lavoratori ma soltanto se stessi in un’arena politica agguerrita dove si gioca su equilibri apparentemente delicatissimi. Capo e coda di questo libro molto speciale sono un racconto di Luciano Bianciardi, Alle quattro in piazza del Duomo, intro perfetta, e una storia di un avvenire futuribile, nella quale il concetto di lavoro sembra oramai superfluo.
Mi rendo conto che, degli anni Sessanta e di quello che hanno rappresentato per le generazioni successive, molto è ancora da scoprire o da rispolverare. Ogni volta che tengo in mano un libro che è capace di parlarmi del mio passato attraverso quello degli altri e che mi dice da dove vengo e per quale motivo io mi trovi adesso a farmi certe domande sul mio presente e sul futuro, credo di poter affermare che si tratti di qualcosa di prezioso; e non si tratta di nostalgia verso alcuni ideali o riempitivi per vuoti di senso attuali, ma della costruzione di una consapevolezza, dell’imparare ad esaltare l’individualità valorizzata nel gruppo, nello stare assieme, nel volere il proprio bene accanto a quello dell’altro.
*Fonte: https://viaggionelloscriptorium.com/2017/04/19/poliscrittura-e-polipensiero-un-esperimento-narrativo-sullitalia-che-lavora/