«Prodi e Tremonti per me pari son»
Tremonti fa la stessa politica economica di Prodi! Non è la dichiarazione di uno dei soliti estremisti di sinistra usi a banalizzare e semplificare, ma l’affermazione di una figura importante dell’establishment economico del paese: Tommaso Padoa-Schioppa. Dentro una lunga intervista a Il Sole 24 Ore di venerdì scorso il ministro del tesoro della passata legislatura sottolinea la sostanziale persistenza tra gli ultimi due governi dell’Italia: «Nel suo agire [di Tremonti] vedo una continuità con la politica del governo Prodi. La vedo e la condivido». Quello che Padoa-Schioppa mette in evidenza è la comune cornice entro la quale si realizzano le politiche economiche di questi anni. In definitiva i parametri macroeconomici che determinano a cascata tutti i provvedimenti che un governo deve assumere. Dalle politiche di spesa fino alle scelte sul ruolo e la dimensione dell’intervento pubblico in economia. Rigore versus stimoli, priorità alle politiche di bilancio, con conti in ordine, ma non solo: assenza di interventi per tutelare il lavoro, principale agnello sacrificale del tentativo di contenere la spesa pubblica e mantenere la centralità delle esigenze dell’impresa e dei mercati. Si potrebbe parlare di un globalismo, nonostante le critiche espresse in passato dall’attuale ministro del tesoro, coniugato con la blindatura delle politiche su scala europea, al traino della Germania. Senza però che vi siano le medesime condizioni di favore tedesche, fatte di Stato sociale ancora forte, salari relativamente elevati, prezzi contenuti, e un export notevole. Export che Draghi invita a emulare senza spiegarne la possibilità non tanto dal lato dell’offerta quanto da quello della domanda. Non si intravedono, infatti, all’orizzonte mercati di sbocco per politiche dedite all’esportazione generalizzabili su scala internazionale. Di una Germania si vedono gli sbocchi commerciali, di tante invece no. Non è soltanto un problema di modello, di organizzazione produttiva, di relazioni industriali, ma un problema di livelli della domanda, specie in questa fase di crisi.
Il giudizio dell’ex ministro, comunque, appare autorevole sia per gli incarichi governativi ricoperti, sia per lo sguardo distaccato con cui legge le politiche attuali e quelle passate. Egli rappresenta quella parte di classe dirigente che rivendica politiche che pongano al centro l’impresa e i suoi meccanismi di mercato, in un quadro di stabilità e di compartecipazione dei vari attori alla gestione delle logiche del capitalismo. Non è un caso che nella stessa intervista parli di un Marchionne che avrebbe «gettato un sasso nello stagno» di cui ancora è difficile prevedere gli effetti, mettendo in guardia un sindacato che «ha difeso troppo a lungo uno stato di cose non più difendibile», rischiando di vincere «la battaglia e perde[re] la guerra» impantanato tra i dilemmi della deindustrializzazione e lo smantellamento dello Stato sociale.
Tale intervento è importante per come è stato, o non è stato, commentato. I giornali di sinistra, presi dalla tardo recrudescenza dello scontro contro Berlusconi, non mi pare l’abbiano commentato, mentre risultano di interesse le considerazioni presenti sempre su Il Sole 24 Ore del giorno seguente ad opera di politici, giornalisti militanti, operatori economici. Fuori dagli scontri propagandistici emerge una obiettiva convergenza nei giudizi sulle dichiarazioni di Padoa-Schioppa. Persino un ultras come Feltri, direttore de Il Giornale, riconosce che «chi non coglie quella continuità lo fa solo perché è accecato dallo schieramento di appartenenza». Mentre Silvio Sircana, ex portavoce di Prodi, e Mario Baldassarri, finiano, rilasciano dichiarazioni coincidenti sul fatto che «il rigore non è né di destra né di sinistra», confermando la necessità di uniformarsi a quel «principio di realtà» a cui fa appello Angelo Tantazzi, presidente di Borsa Italiana. Esistono dei distinguo di Tito Boeri e Nicola Rossi, entrambi economisti, sull’incisività della lotta all’evasione e i tagli al sud, ma tutti sono disposti a riconoscere che le politiche economiche italiane trovano attuazione nel medesimo solco prescindendo dai governi.
Le dichiarazioni che provano a smarcarsi da questo unanimismo appaiono poco credibili e segnate da un intento propagandistico, come quelle di Bersani che sottolinea come il rigore del passato governo sia stato coniugato con riforme e redistribuzione. In realtà sono proprio queste, soprattutto nel senso di un’inversione di tendenza sui macro-movimenti su squilibri, diseguaglianze, penalizzazione e precarizzazione del lavoro, a non essere state prodotte.
A chiudere questo dibattito dopo alcuni giorni sembra la lunga lettera al direttore de Il Sole 24 Ore di Enrico Micheli, sottosegretario alla presidenza del precedente governo, che si distingue per un dissenso più netto e ragionato nei confronti dell’interpretazione di un asse Prodi-Tremonti. Egli avanza delle critiche dirette al ruolo di Padoa-Schioppa, al suo eccessivo protagonismo solitario da ministro, e sottolinea alcune differenze di sostanza tra i due governi, come la scelta del cuneo fiscale per le imprese (sic!), il contenimento delle tasse centrali, il controllo del rapporto deficit/Pil e una manovra finanziaria che doveva essere a favore dei redditi meno abbienti. In verità Micheli è costretto a riconoscere che tali provvedimenti siano stati un sostanziale fallimento: paradigmatica fu la scoperta che le buste paga del gennaio 2007 rappresentavano una profonda delusione, con detrazioni modeste (e aggiungerei non sempre progressive) e con la crescita indiscriminata delle tassazioni locali a complicare una situazione già difficile. Nonostante gli attacchi al governo provenienti dall’allora presidente di Confindustria Montezemolo, di cui l’ex sottosegretario non sa darsi spiegazione tuttora, l’unico soggetto a godere di indubbi vantaggi fu l’impresa. Seppur Micheli invochi politiche che affrontino la questione sociale, nessuno ha promosso o sta promuovendo politiche che provino a invertire quel processo che lui stesso definisce di «progressiva proletarizzazione» di settori considerevoli della società.
Significativa, infine, risulta essere l’ammissione, forse involontariamente ironica, di Antonio Polito, direttore de Il Riformista, quando nella sua analisi dei consensi-dissensi ottenuti dai rispettivi governi dice che la differenza l’ha fatta il contesto e non le politiche attuate: il rigore di Prodi ha operato in un clima sfavorevole socialmente, caratterizzato da «prezzi alti e salari invariati», mentre Berlusconi, nonostante la crisi, ha avuto la fortuna di operare dentro a «prezzi più bassi e salari invariati». Il comune denominatore sono sempre i salari invariati. In realtà il loro potere d’acquisto negli ultimi venti anni si è ridotto, si pensi soltanto all’introduzione dell’Euro, come si è ridotto il loro valore percentuale sul Pil in raffronto a rendite e profitti. Questo forse è il problema principale che rappresenta il termometro di una fase di diseguaglianze crescenti, ma nessuno se ne cura. Le classi dirigenti attuali sembrano ancora legate mani e piedi al pensiero unico. Per cambiare bisogna certamente guardare altrove.
Genova, 7 settembre 2010