Requiem per il “salotto”
In un libro su Gianni Agnelli, il patriarca di Fiat, il giornalista Alan Friedman descriveva il capitalismo italiano degli Anni 80 come «un piccolo gruppo che si autocelebra e autosostiene». Ora quei rapporti di potere, il «salotto buono alla base di un sistema basato su influenza e connessioni», sono finiti sotto la lente di ingrandimento del Financial Times.
LA FINE DI UN’EPOCA. Mercoledì 21 agosto, il principe dei quotidiani finanziari ha dedicato un lungo pezzo di analisi al mondo industriale e finanziario italiano, ripercorrendo storie note senza fare sconti a nessuno.
La conclusione assai amara del giornale britannico è che «non c’è via di ritorno» per una certa impresa italiana. Perché «è finito il tempo di quel mondo dietro le quinte che ha sostenuto la finanza italiana dalla Seconda Guerra mondiale in poi», ha sottolineato il Ft. La crisi ha distrutto il capitalismo di relazione, infettando le partecipazioni incrociate
Il «salotto buono», in italiano nel testo originale, quasi come un marchio di fabbrica del Paese, è simboleggiato dalle tre sedie di velluto rosso che Cesare Geronzi amava esibire nella sala d’attesa di Capitalia prima, Mediobanca e Generali poi. Ed «era pensato come una linea di difesa, nel timore che mancasse una politica industriale coordinata e potesse servire una protezione contro i tentacoli del crimine organizzato».
UNA RETE OLTRE LA POLITICA. Eppure, ha spiegato il Financial Times, Generali e Mediobanca si sono oggi impegnate a eliminare gli investimenti incrociati alla base del salotto buono, rivedendo attività che vanno dall’editoria alla televisione, dalle assicurazioni a banche, telecomunicazioni, aeroporti, edilizia e intrattenimento. Sbagliavano prima e si sono redente o sono mutate le condizioni?
UN MONDO SENZA SOLDI. «Non si tratta di rendere il mondo un posto migliore, è che sono finiti i soldi», ha riassunto efficacemente il quotidiano. «Le cose stanno cambiando, nel tipico stile italiano. È brutale, un enorme spargimento di sangue», ha raccontato un banchiere, rigorosamente anonimo, al foglio finanziario.
LA CRISI HA SCOPERCHIATO IL SISTEMA. Secondo il Financial Times sono dunque emersi i punti deboli di un sistema che un tempo era visto come baluardo contro le acquisizioni straniere. A scoprire il tallone d’Achille della finanza italiana è stata la crisi del 2011: quando l’Eurozona è arrivata a un passo dal collasso e i titoli bancari hanno bruciato fino al 90% del loro valore, «gli investimenti incrociati sono stati le vene attraverso cui il contagio si è potuto diffondere da un’azienda all’altra», e «dinastie come gli Agnelli hanno ripensato un sistema, che non si potevano più permettere».
Né c’era il tempo di mantenere in piedi il sistema per vie traverse.
IL CROLLO DEL PATTO TRA AMICI. Cosa sia successo dopo è storia nota: le svalutazioni sono state devastanti, la crisi ha colpito l’Italia e ha fatto perdere miliardi di euro a Mediobanca, Generali, UniCredit e Intesa Sanpaolo proprio a causa della forte interconnessione del sistema bancario.
«È successo perché vige la mentalità del ‘ti scelgo perché sei mio amico e comprerai le mie azioni perché ho votato per te in consiglio di amministrazione’. Un patto silenzioso che si è diffuso come un cancro dalla politica agli affari e alla giustizia», ha detto al giornale finanziario Davide Serra, amministratore delegato dell’hedge fund Algebris.
La fine del «modello Cuccia» potrebbe risollevare Mediobanca
Insomma, è finito il sistema di cross-holding (partecipazioni incrociate) messo a punto da Enrico Cuccia, il fondatore di Mediobanca, «un personaggio di grande influenza, a cui gli uomini di affari cedevano il passo quando usciva per prendere il caffè in Galleria Vittorio Emanuele a Milano».
L’AVVENTO DEI NUOVI RICCHI. «I patti stretti da Cuccia consentirono a poche famiglie ricche – gli Agnelli, i Pesenti, i Pirelli, i Ligresti e più tardi i Benetton – di controllare la finanza italiana, l’industria e i media con quote relativamente basse», ha riassunto il Financial Times.
«Famiglie di nuovi ricchi, come quella dell’ex premier Silvio Berlusconi, hanno passato anni cercando di ottenere un seggio nel consiglio di amministrazione di Mediobanca», che è «la Goldman Sachs italiana».
A essere in difficoltà sono dunque i colossi aziendali e finanziari italiani, compresi Pirelli, Rcs MediaGroup e le stesse Mediobanca e Fiat.
IL SACCHEGGIO DEL MADE IN ITALY. Ecco dunque spiegate le vendite all’estero dei gioielli del made in Italy: Loro Piana, Pomellato, Bulgari, Brioni, Valentino, Parmalat, Findus Italy, Marazzi, Ducati e Bertolli sono state rilevate negli ultimi cinque anni.
Ma mentre resta scetticismo sul futuro dell’industria italiana, c’è anche chi vede in modo positivo la fine del salotto buono: gli analisti di Citigroup, ha spiegato il Ft, hanno iniziato a occuparsi di Mediobanca suggerendo di «comprare il titolo». E la valutazione in borsa di Generali ha guadagnato il 50% da quando ha indicato la volontà di imboccare un nuovo corso
«NON C’È VIA DI RITORNO». «Se le regole funzionano nel modo giusto, ci sarà sempre meno bisogno di patti», ha detto al giornale con ottimismo Luigi Abete, presidente di Emittenti Titoli, maggiore azionista italiano del London Stock Exchange.
Cosa succederà nel futuro è tutto da vedere, ma per il quotidiano la conclusione è già nel titolo: «Business italiano, non c’è via di ritorno».