Ricordate l’anti-berlusconismo? I pericoli dell’anti-trumpismo
Durante l’intera campagna elettorale delle presidenziali statunitensi i paragoni tra Donald Trump e l’ex premier italiano Silvio Berlusconi sono stati molti, e sono ulteriormente proliferati da quando Trump ha dichiarato la propria vittoria. Questi paragoni non sono del tutto privi di senso.
Trump e Berlusconi sono entrambi uomini che hanno raggiunto il potere partendo dal mondo del business e non da quello della politica, ed entrambi hanno presentato la propria estraneità all’establishment politico come segno di purezza. Entrambi hanno insistito sul proprio successo imprenditoriale come prova più evidente della loro capacità di dirigere il paese. Come il tiranno di Platone entrambi hanno esibito un’etica basata sul sogno di una perenne e illimitata jouissance e un eros continuo e tracotante (per quanto Berlusconi preferisca pensare a sé stesso come a un seduttore irresistibile piuttosto che uno stupratore). Entrambi si sono permessi battute misogene e razziste e hanno riformulato il linguaggio pubblico legittimando insulti e scorrettezze politiche ed incarnando un esilarante ritorno del represso. Entrambi si crogiolano nella loro estetica kitsch ed esibiscono un colorito da abbronzatura artificiale. Ed entrambi si sono alleati con l’estrema destra per portare avanti un progetto politico fatto di neoliberismo autoritario e capitalismo sfrenato.
Le analogie si fermano qui. La resistibilissima ascesa di Trump al potere è stata, in un certo senso, una grande sorpresa rispetto alla maggiormente prevedibile prima vittoria elettorale di Berlusconi. Mentre Trump si è appropriato del proprio partito, sfidando l’opposizione di una larga parte dell’establishment repubblicano e dei media, Berlusconi ha usato il suo impero mediatico per controllare l’informazione e creare un nuovo partito, riconfigurando di conseguenza l‘intero spettro della politica. Per via delle caratteristiche del sistema parlamentare Berlusconi fu obbligato ad allearsi con altri due partiti di destra in conflitto tra loro, Alleanza Nazionale e la Lega Nord: il primo un’evoluzione dell’Msi, un partito neofascista, il secondo un partito federalista, xenofobo e di destra. Inoltre Berlusconi non inneggiava all’isolazionismo e al protezionismo, non ha sfidato gli accordi internazionali di mercato e non ha messo in dubbio la partecipazione dell’Italia alla creazione dell’Unione Europea e dell’Eurozona, almeno non fino al 2011. Infine, l’Italia non gioca un ruolo egemonico nella geopolitica paragonabile a quello degli Stati Uniti.
Queste differenze sono sufficientemente rilevanti per invitare alla cautela verso predizioni semplicistiche riguardo la presidenza Trump che si basino su quanto accaduto in Italia. Tuttavia questo non significa che non si possa imparare niente dall’esperienza italiana. Al contrario, possiamo apprendere alcune importanti lezioni se spostiamo la nostra attenzione dalle apparenti similitudini tra Berlusconi e Trump e la dirigiamo invece su quelle tra l’anti-berlusconismo e la forma che rischia di prendere l’anti-trumpismo.
L’amnesia selettiva dell’anti-berlusconismo
In un recente editoriale del New York Times Luigi Zingales dà un’interpretazione indiscriminata degli errori compiuti dall’opposizione a Berlusconi, sostenendo che la resistenza pregiudiziale a qualunque sua mossa, le mobilitazioni popolari contro il suo governo, e un’attenzione eccessiva al suo personaggio, siano stati tutti elementi serviti di fatto a rafforzarne il potere piuttosto che a indebolirlo. Nell’interpretazione di Zingales le uniche sconfitte subite da Berlusconi sono arrivate dalle campagne elettorali di Romano Prodi e Matteo Renzi incentrate su proposte propositive e non su attacchi contro la sua persona. Partendo da ciò sostiene che coloro che si oppongono a Trump dovrebbero smettere di scendere in piazza come stanno facendo ora e mostrare invece la volontà di collaborare con la sua amministrazione, nel Congresso, sulle questioni sulle quali c’è accordo tra il presidente e i Democratici contro l’establishment Repubblicano, come per esempio sui nuovi investimenti per le infrastrutture.
Questa è una ricetta per il disastro. Ripercorriamo per bene i fatti. Il primo governo Berlusconi, nel 1994, durò solo sette ingloriosi mesi. Fu spazzato via da una combinazione di fattori eterogenei ma possiamo individuarne due di primaria importanza. Il primo fu l’incapacità di governare della Lega Nord, i cui voti furono necessari a Berlusconi per assicurarsi la vittoria nel settentrione, ma alla quale lui non aveva nulla da offrire in cambio. In particolare il tentativo di riformare il sistema pensionistico e la sua incapacità nel portare avanti una riforma federale andarono contro gli interessi elettorali della Lega, che si preoccupava del rischio di perdere una grossa fetta di sostegno della classe lavoratrice. Quando la Lega decise di ritirare il suo supporto al governo, Berlusconi fu costretto a dimettersi. Il secondo fattore fu la mobilitazione popolare, in particolare lo sciopero generale dei tre principali sindacati, nell’ottobre del 1994, contro la riforma delle pensioni, che – secondo le fonti sindacali – vide 3 milioni di persone scendere in strada in novanta città; e un secondo sciopero a novembre, durante il quale un milione di persone manifestò a Roma, una delle più grandi manifestazioni sindacali fino ad allora.
Ma è ciò che è successo dopo la caduta del primo governo Berlusconi a offrire le lezioni più importanti all’opposizione anti-Trump: è stato proprio grazie alle politiche neoliberiste e di austerità applicate dal centrosinistra nei successivi sei anni che si è consolidato il potere di Berlusconi. Innanzitutto il governo tecnocratico con a capo Lamberto Dini varò tra il 1995 e il 1996 la più devastante riforma delle pensioni mai vista fino ad allora, introducendo per la prima volta lo schema contributivo che avrebbe progressivamente sostituito quello retributivo. La riforma passò con l’appoggio del centrosinistra e l’accordo dei sindacati, pur di evitare a ogni costo il ritorno al potere di Berlusconi. Nelle elezioni del 1996 la coalizione di centrosinistra riuscì ad assicurarsi la maggioranza parlamentare grazie all’appoggio esterno di Rifondazione Comunista e al rifiuto della Lega Nord di formare una coalizione con Berlusconi. Il centrosinistra produsse il primo governo Prodi e successivamente quello di Massimo D’Alema. Nell’arco di cinque anni i governi di centrosinistra votarono le prime riforme del lavoro introducendo la precarietà di massa ed erodendo significativamente i diritti dei lavoratori; tentarono di far passare una riforma della scuola devastante e introdussero politiche di autonomia scolastica che aprirono la strada a un sistema aziendalistico di gestione dell’istruzione pubblica e a riforme neoliberiste del sistema educativo superiore; privatizzarono risorse e compagnie pubbliche come mai prima in Europa; parteciparono ai bombardamenti della Nato in Serbia; votarono la legge sull’immigrazione istituendo i primi centri di detenzione per migranti senza documenti. Infine il governo D’Alema creò l’infame “bicamerale”, una commissione bipartisan che – sperava – avrebbe portato a un accordo con Berlusconi su un progetto di riforma semi-presidenziale della Costituzione che avrebbe rafforzato le prerogative del potere esecutivo a spese della rappresentanza e della democrazia parlamentare.
Su ognuna di queste misure questi governi subirono solo l’opposizione organizzata nelle strade dalla sinistra radicale, perché i sindacati e gli elettori di centrosinistra erano disposti a ingoiare qualsiasi cosa pur di evitare il ritorno al potere di Berlusconi. Il brillante risultato di queste politiche fu il vero inizio dell’era Berlusconi con la sua vittoria alle elezioni de 2001 che gli assicurò una maggioranza schiaccciante sia al Senato che alla camera dei Deputati. Mentre dopo quella data gli elettori di centrosinistra iniziarono a scendere in strada per manifestare contro di lui in difesa della democrazia e contro la corruzione, i loro parlamentari continuavano a collaborare con Berlusconi ogni volta che era possibile e a proteggerlo dalle inchieste giudiziarie, nello stesso modo in cui durante i governi di Prodi e D’Alema avevano rifiutato di approvare una legge contro il monopolio dell’informazione. La ciliegina sulla torta è stato l’accordo del 2014 tra Renzi e Berlusconi sulla riforma costituzionale e sulla nuova legge elettorale, benedetta dal Presidente della Repubblica ex comunista Giorgio Napolitano. Vale la pena di ricordare anche che Berlusconi perse le elezioni del 2006 e tornò al potere solo dopo il tentativo del governo Prodi di conservare la sua stretta maggioranza parlamentare, fallito a causa della defezione di un piccolo partito di centro (l’Udeur).
L’anti-berlusconismo mainstream ha sempre sofferto di una grave forma di amnesia selettiva. Gli effetti di sei anni di dure politiche di austerità ed opposizione sociale insignificante non sono mai stati considerati come elementi decisivi che hanno causato il consolidamento del potere di Berlusconi. Né l’anti-berlusconismo mainstream ha mai mostrato l’intenzione di ammettere la sostaziale continuità tra le politiche di austerità del secondo governo Berlusconi e quelle del centrosinistra. L’attacco della destra ai diritti dei lavoratori, per esempio, fu solo il tentativo di estendere la precarietà lavorativa introdotta dal centrosinistra (un obiettivo realizzato anni dopo dal governo di centrosinistra di Renzi con il Jobs Act). Le privatizzazioni dei servizi pubblici sono state preparate dalla condivisione da parte del centrosinistra dell’idea che “il privato è meglio”. La legge sull’immigrazione del centrodestra non è altro che un emendamento alla precedente del centrosinistra. La partecipazione italiana alle guerre in Afghanistan e Iraq fu resa possibile dalla prima violazione dell’articolo 11 della Costituzione – che impedisce all’Italia di partecipare a guerre di aggressione – fatta da D’Alema per permettere alle forze italiane di contribuire ai bombardamenti in Serbia.
L’anti-berlusconismo mainstream ha infatti sempre preferito avere a che fare con percezioni e impressioni che non con i fatti veri e propri. Nell’immaginario anti-berlusconiano il potere di Berlusconi è durato venti lunghi anni invece di nove, Berlusconi era un fascista, la democrazia italiana era in pericolo, la sinistra radicale ha aiutato a consolidarne il potere grazie al settarismo e al rifiuto di cooperare con il centro-sinistra, gli elettori di Berlusconi erano tutti degli sfigati razzisti, maleducati e misogeni, il paese era per sua natura di destra ragion per cui perfino delle moderate politiche keynesiane erano impossibili, perciò la sinistra aveva bisogno di allearsi con qualsiasi tipo di tecnocrati neoliberisti pur di evitare a ogni costo il ritorno al potere di Berlusconi. Tutto questo suona familiare?
Dall’anti-berlusconismo all’anti-trumpismo: evitare gli stessi errori
La conclusione di questa storia è illuminante. Dopo tutto il parlare fatto sul fascismo di Berlusconi, il suo irrefrenabile impero mediatico e il controllo sull’informazione pubblica, la “videocrazia”, e la fine della democrazia republicana, sono bastate una settimana di blando “terrorismo” finanziario e l’alleanza di interessi fra la Commissione Europea, la BCE e il settore europeista del capitalie italiano – con il supporto del Presidente della Repubblica e del centrosinistra – per cacciare Berlusconi dal suo ufficio e rimpiazzarlo con il governo tecnocratico di Mario Monti. È stata la fine di quel centrodestra che agli occhi dell’anti-berlusconismo mainstream solo pochi mesi prima era così invincibile.
Ed ecco la lezione: l’anti-berlusconismo italiano, invece di colpirlo, ha finito per consolidare e rafforzare il potere di Berlusconi ignorando costantemente le cause reali del suo successo e giustificando e legittimando anni di dura austerità pur di evitarne a ogni costo il ritorno al potere. Ha contribuito all’autodistruzione della sinistra italiana e ha permesso l’ulteriore degenerazione tecnocratica e neoliberista del Partito Democratico. Nel 2014 Paolo Flores D’Arcais, direttore di Micromega e tra i fondatori dei “girotondi” – uno del movimenti democratici anti-berlusconiani e allo stesso tempo tra gli esempi di molti dei limiti del’anti-berlusconismo mainstream – avrebbe detto che Renzi è peggio di Berlusconi. Alla fine della fiera sembra che il “menopeggismo” abbia portato al peggio.
L’anti-trumpismo corre lo stesso rischio. Subito dopo le elezioni presidenziali la classe lavoratrice bianca è stata individuata dagli opinionisti democratici come la ragione della vittoria di Trump e liquidata come intrinsecamente razzista ed esageratamente non istruita. Gli elettori di partiti terzi sono stati accusati di aver contribuito alla sconfitta di Clinton. Tenativi di spiegare sia l’appoggio a Trump da parte di esponenti della classe lavoratrice, che l’astensione, come effetti della globalizzazione neolibersta e della delusione per la presidenza Obama, sono stati liquidati e scherniti come riduzionismo economico. E un certo numero di analisi ha descritto la fine della democrazia e l’avvento del fascismo americano.
Un’analisi dettagliata della composizione del voto a Trump e del suo significato per i cambiamenti politici molecolari che stanno avvenendo negli Stati Uniti si potrà fare dopo la fine del conteggio dei voti. Tuttavia sembra siano emersi alcuni nuovi elementi significativi. Contrariamente a quanto riportato dalle analisi della scorsa settimana, pare che Trump abbia in realtà ottenuto un milione di voti in più rispetto a Romney ed è probabile che sia andato addirittura meglio di Romney tra gli elettori latinos. Il margine della vittoria di Clinton nel voto popolare è aumentato fino a un sorprendente 1,7 milioni, ma è ancora sotto di 2,3 milioni di voti rispetto a Obama nel 2012, ed è probabile che un certo numero di ex sostenitori di Obama abbia votato per Trump. Infine la percentuale di votanti è stata più alta di quella del 2012.
Ciò che sembra aver condotto alla vittoria di Trump è la combinazione di due fattori principali. Uno è ovviemente un sistema elettorale profondamente anti-democratico, che il Partito Democratico non ha mai realmente messo in discussione. L’altro è l’abilità di Trump di fungere da catalizzatore per motivazioni di voto del tutto eterogenee. Una parte significativa del suo elettorato bianco è stata certamente galvanizzata dai suoi pesanti razzismo, omofobia e misoginia, e lo ha identificato come agente della vendetta per l’elezione di Obama e la nomina di una candidata donna da parte del Partito Democratico.
Ma una significativa componente del voto a Trump non si può spiegare senza fare riferimento alla disillusione nei confronti della presidenza Obama, ai drammatici effetti sociali della crisi economica mondiale, alle delocalizzazioni, all’austerità e alla radicata percezione dei legami di Clinton con Wall Street e il vecchio establishment.
Questa eterogeneità di motivazioni ed aspettative, combinata con i rapporti tesi tra Trump e un vasto numero di ufficiali repubblicani, rappresenta un elemento di fragilità per la sua futura presidenza.
Un’opposizione efficace a Trump dovrebbe basarsi sulla disconnessione di queste motivazioni eterogenee e persino incompatibili tra loro, da un lato combattendo contro la nuova ondata razzista, e dall’altro rispondendo al legittimo desiderio di cambiamento radicale espresso in una parte di voti per Trump e nell’astensione di milioni di ex elettori democratici. Questo implica lavorare sul creare grandi coalizioni sociali e movimenti che si oppongano a ciò che avverrà, ma anche abbandonare una volta per tutte l’idea che il “menopeggismo”, che ha già causato seri danni, sia un’opzione perseguibile. Come insegna il disastro dell’anti-berlusconismo italiano l’unica maniera per opporsi in maniera efficace al neoliberismo autoritario, razzista e sessista è offrendo un’alternativa radicale e credibile.
*Fonte: http://www.versobooks.com/blogs/2956-lessons-from-italy-the-dangers-of-anti-trumpism
Traduzione di Marta Autore