Saviano, l’investitura
Parte con i temi suoi, il Sud di cui poco si parla, il voto di scambio che arriva a infettare le primarie del Partito democratico a Napoli, la macchina del fango che ci dipinge tutti ugualmente “immondi”, e dunque vinca il più furbo. All’improvviso, però, Roberto Saviano cambia registro.
Giù dal palco c’è una folla di 12 mila persone, raccolte al Palasharp di Milano da Libertà e Giustizia per invocare le dimissioni del presidente del Consiglio, travolto dallo scandalo ormai universalmente noto come bunga bunga. Altri duemila lo ascoltano dagli altoparlanti piazzati fuori. E l’autore di Gomorra si lancia in un discorso apertamente politico.
Talmente politico che qualcuno legge i segni di una suo prossimo impegno in prima persona. Si fa fatica anche solo a pensarlo: dopo l’anziano miliardario in perenne fuga dalla giustizia, lo scrittore trentenne baciato dal successo mondiale e braccato dalla camorra di Casal di Principe.
“È inutile avere le mani pulite se si tengono i pugni in tasca – afferma Saviano – Vedo l’assenza di un progetto alternativo di governo, io sogno un progetto diverso. Ma non basta dire di essere diversi”. E ancora: “Dobbiamo dimostrarlo, comunque la pensiamo politicamente”.
E qui arriva il passaggio che fa pensare a una possibile svolta nella vita di questo ragazzo napoletano da nove milioni di spettatori, tanti ne ha tenuti incollati al video, insieme a Fabio Fazio, con la trasmissione Vieni via con me: “È il tempo di ritrovare l’unità, invece di fare la gara a chi è più puro, a chi è meno traditore”. E poi la conclusione, ispirata ad Albert Camus: “In genere andiamo contro qualcuno, ora invece serve l’amore verso qualcosa di nuovo. È giunto il momento di pensare a ciò che siamo e a ciò che vogliamo”.
Il popolo del Palasharp accompagna il suo ingresso e la sua uscita dal palco con lunghe standing ovation, grida di ammirazione: “Vai Roberto!”, “grazie!” e, appunto, “presidente!”. Qualcuno ha gli occhi lucidi, altri protendono i telefonini a catturarne il verbo. Quale che sia la meta di Saviano, il suo intervento tocca il punto dolente: se l’indignazione contro Berlusconi accomuna la folla degli auto-convocati di Libertà e Giustizia, resta apertissimo il tema del “che fare?”.
Sotto questo stesso tendone, nel 2002 ebbero il primo bagno di folla i “girotondi”, che Fausto Bertinotti definì “ceto medio riflessivo”. Nove anni dopo quel ceto medio è meno riflessivo e più arrabbiato, esasperato, rumoreggiante. In quale altro guaio deve finire il Cavaliere di Arcore per essere costretto a lasciare Palazzo Chigi?
Quante altre manifestazioni ci dovranno essere per costringerlo alle dimissioni? Ammesso che succeda, il centrosinistra sarà in grado di proporre un’alternativa credibile? Sul palco intervengono anche Sandra Bonsanti, Gustavo Zagrebelsky, Umberto Eco, Susanna Camusso, Concita De Gregorio, Gad Lerner e tanti altri, ma stranamente ci pensa un grande musicista, il maestro Maurizio Pollini, a evocare lo spettro di “un altro plebiscito per Berlusconi” in caso di elezioni anticipate.
In prima fila, seduto accanto a Carlo De Benedetti, uno dei fondatori di LeG, c’è il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini. “Alle dimissioni di Berlusconi bisogna arrivarci davvero, con una grande mobilitazione”, si limita a dire. Prende la parola Umberto Eco, tra i più applauditi. Il suo intervento è disincantato e ironico: “Possiamo gridare quanto vogliamo, ma lui non se ne andrà, perché in comune con Mubarak non ha soltanto la nipote, e poi finirebbe nelle mani della magistratura”. Anche il professore, però, conclude con un appello a fare sul serio: “Bisogna allargare il numero di quelli che scendono in piazza per dire no, se serve anche tutti i giorni”.
Tutti i giorni? Oggi il Popolo Viola replica vicino al cuore del bunga bunga: ad Arcore, in piazza del Municipio dalle 14. “Non siamo l’Italia migliore, siamo solo l’Italia più informata”, ha detto ieri Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e Giustizia. Avrà avuto modo di vedere la lista delle testate accreditate. La Cnn c’è. Il Tg1 no. Il Financial Times e El Pais ci sono, i tre telegiornali di Mediaset no. Un semplice cittadino indignato si è portato un cartello fatto in casa: “Silvio, go to Russia!”. E se lui avesse già portato la Russia qui?
La primavera di Milano
di Norma Rangeri (da il manifesto)
Una primavera anticipata e proprio a Milano, nella roccaforte del potere. Nonostante le anticipazioni della vigilia lasciassero intuire il rilievo politico e la forte partecipazione all’appuntamento, la realtà ha superato ogni aspettativa. Migliaia e migliaia di persone hanno risposto all’appello di Libertà e Giustizia con la forza contagiosa di un’energia che rompe gli argini.
Il PalaSharp gremito e la fiumana rimasta all’esterno ravvivano la situazione delle api di Zygmunt Bauman, «espressione di un intenso traffico sociale che intreccia relazioni tra diversi, associazioni di cittadini che chiedono risposte, gruppi con una spiccata soggettività e identità sociale». Come era già successo qualche settimana fa a Marghera, quando un altro alveare produceva i suoi frutti. Anche lì migliaia di persone, nei grandi spazi del Rivolta, hanno connesso esperienze e storie diverse. Operai, studenti, ambientalisti insieme chiamati dal movimento «Uniti contro la crisi». Anche lì la Fiom di Landini e gli intellettuali (da Marco Revelli a Guido Viale) hanno cercato e trovato il filo di un pensiero e di una pratica che, come ha detto Zagrebelsky ieri, «non chiede niente per ciascuno perché chiede tutto per tutti». Le api italiane sono al lavoro da tempo e nella straordinaria assemblea di Milano hanno depositato il miele di un’opposizione larga e profonda, radicata e consapevole. Diritti civili e diritti sociali, interpretati dalle voci autorevoli dell’intellettualità e del sindacato, si ritrovano e si riconoscono. Dicono che la costruzione della democrazia deve cucire nuove bandiere.
Dal Rivolta a Milano, un’altra mappa dei desideri viene disegnata da chi ha saputo resistere alle armate di un potere che ha corrotto l’etica e l’estetica della convivenza civile. Perché oggi l’Italia non è solo sfigurata dalla corruzione che si fa valore, dalle donne trattate come tangenti del potere, non è solo spaccata tra nord e sud, tra salario e profitto, ma è divisa tra chi sa e chi non sa, è ferita dall’ignoranza che l’ammutolisce con la bomba mediatica. Al punto che non ci sarà da stupirsi se l’eco della manifestazione di Milano sarà più forte all’estero che in Italia. Colpire questo infrangibile muro di cristallo che spezza in due il paese è in cima alla lista degli obiettivi dell’opposizione sociale e culturale.
Eppure, nonostante la camicia di forza di una propaganda pubblicitaria asfissiante, formidabili anticorpi resistono e fanno rete. La farsa della cricca al potere, l’arroganza dei Berlusconi e dei Marchionne, dovranno fare i conti con chi ha l’intenzione e la convinzione di non concedergli repliche.