“Scambiare diritti con denaro è un pessimo baratto”
Articolo pubblicato sul Fatto quotidiano di domenica 5 febbraio
Sulla riforma del mercato del lavoro quando si arriva al nodo della licenziabilità scoccano le scintille. Ieri se ne sono viste alcune tra Susanna Camusso, segretario della Cgil e Elsa Fornero, ministro del lavoro. La prima ha infatti accusato, sia pure velatamente, la seconda di voler favorire i licenziamenti. Eppure il ministro, in un’intervista a SkyTg24 aveva lavorato a ripulire l’immagine del governo invitando a “non demonizzare il posto fisso”, giudicando “infelici” le dichiarazioni del suo sottosegretario Martone sui “laureati sfigati” e soprattutto chiedendo alle imprese di “pagare di più” la flessibilità del lavoro per favorire una flessibilità “capace di generare occupazione e stabilizzare dalla precarietà”. “Non è ottimale che un lavoratore sia stretto all’impresa a tutti i costi – ha detto Elsa Fornero – pur ribadendo che “il divieto del licenziamento discriminatorio è un atto di civiltà e come tale va tutelato”. Immediata la replica stizzita di Camusso: “Si vuole facilitare la licenziabilità? Non è assolutamente questo il tema da affrontare e non lo è tanto meno adesso in una fase di recessione”.
In realtà, il ministro Fornero ha semplicemente chiarito le ipotesi di modifica che circolano in queste ore e di cui abbiamo parlato con il professor Luciano Gallino che sui temi della lotta alla precarietà si è cimentato moltissimo.
L’articolo 18 e i licenziamenti
Su articolo 18 e licenziabilità esistono ormai due ipotesi molto chiare. Pur salvaguardando il divieto del licenziamento discriminatorio avanza l’idea di sostituire il diritto di reintegro per il lavoratore ingiustamente licenziato con un’indennità economica, da un lato, oppure con l’ipotesi di far scattare anche per il licenziamento individuale le condizioni della mobilità stabilite dalla legge 223 del 1991 che fissa a un minimo di 5 i dipendenti per cui l’impresa può accedere al licenziamento in cambio della messa in mobilità e dopo aver concordato la procedura con i sindacati.
“C’è però una grande differenza – dice Gallino – tra una legge che dice “non puoi licenziare per ingiusta causa” e una ipotesi di monetizzazione. Scambiare denaro con diritti significativi è un pessimo baratto. Si tratterebbe di un abbassamento del tono civile e non solo delle relazioni industriali. Bocciata anche l’estensione della mobilità: “Sarebbe solo un baratto collettivo”.
Arbitrato e processo breve
Qualche novità ci può essere, afferma Gallino, sulla velocizzazione del processo, un “processo breve” per l’articolo 18 in modo da rendere più celeri e certe le cause tra imprese e dipendenti. “Ma solo se non è un trucco per rendere inagibile il processo. Le cause del lavoro sono lunghe perché mancano i magistrati”. Poi c’è il ruolo dell’arbitrato ipotizzato per sottrarre al magistrato il giudizio finale. “Anche questo rischia di essere un trucco per rendere meno attraenti i ricorsi al tribunale” perché la preferenza per l’arbitrato, sottoposta al dipendente al momento dell’assunzione, ha evidenti risvolti di ricatto. “Si può intervenire su qualche aspetto della regolamentazione del processo, se non si tratta di trucchi ma di effettivi interventi per accorciarne la durata, ben vengano”.
La flessibilità “buona”
Nel dibattito è stato introdotto il tema della flessibilità “buona”. “Ma in Italia di flessibilità ce n’è già troppa. Dal 2005 a oggi oltre il 70 per cento di nuove assunzioni è avvenuto con contratti di durata inferiore all’anno. E sono quelli che più interessano le imprese perché le solleva dall’obbligo di licenziare qualcuno”. Questo aspetto finora è stato recepito nelle proposte di nuovo contratto – Unico, di Ingresso, di Inserimento – con la possibilità di prevedere diritti ridotti per i primi tre-quattro anni (e forse più). “Ma se ora un contratto dura tre-sei-nove mesi domani durerebbe due anni e 11 mesi. L’impresa avrebbe tutto il tempo di licenziare il lavoratore e poi magari riassumerlo”. Per questo, aggiunge il professore torinese, “occorre vedere se i contratti di apprendistato non diventino l’anticamera di una precarietà trasferita da un bacino all’altro”. L’apprendistato oggi dura tre anni e prevede riduzioni di qualifiche, di stipendio e sgravi contributivi per le imprese prorogabili di 12-24 mesi dopo lo scadere del contratto stesso. “Ma ci sono mansioni che richiedono solo una settimana o un mese per essere apprese e altre, più complesse, per le quali esiste già la formazione scolastica”.
La flessibilità “cattiva”
Accanto ad alcune forme considerate positive di contratto flessibile – apprendistato, lavoro interinale, stagionale, contratto “di inserimento” – il ministro Fornero vorrebbe penalizzare la flessibilità “cattiva”: Co.co.pro., partite Iva, contratti a tempo determinato. “Non c’è dubbio che una grandissima quota di questi contratti sono stati utilizzati per mascherare rapporti dipendenti. Con orari predeterminati, compiti assegnati, obbligo di presenza. Se quei contratti fossero ricondotti alla loro effettiva natura verrebbero soppressi al 90 per cento. Gli intenti sono quindi apprezzabili ma non si vedono ancora le ricette avanzate”.
Il “modello danese”
L’ultimo miraggio che ogni tanto si intravede nel dibattito di questi giorni – Monti ne ha parlato negli studi di Matrix – è quello del “modello danese” conosciuto come Flexsecurity. “Quel modello si fonda su un equivoco e un’opacità consistenti: non è affatto vero che la “sicurezza” danese ha ridotto drasticamente la disoccupazione. Ad esempio coloro che seguono un programma di riqualificazione mentre percepiscono un’indennità non sono conteggiati. In qualunque paese sarebbero considerati disoccupati. Si tratta di almeno 5 punti di differenza nel tasso di disoccupazione che lo pone a livello europeo”.