Siria tra distruzione e ricostruzione
La guerra in Siria ha già portato alla distruzione economica, materiale e umana dello Stato e della società. I numeri sono da capogiro: settantamila persone uccise, e più di due milioni di rifugiati distribuiti tra i campi profughi di Turchia, Libano e Giordania.
A questo si aggiunga la distruzione parziale delle grandi città come Aleppo, Homs e Daraa, con le loro infrastrutture, industrie e abitazioni.
Il prossimo governo, qualunque esso sia, si troverà ad affrontare il compito della ricostruzione e di contrastare l’approccio neoliberista, che metterebbe i mercati e la crescita davanti alle persone e alla cultura, promuovendo l’etica della ricerca del profitto, piuttosto che sistemi sociali di organizzazione economica.
Il che equivarrebbe a una seconda distruzione materiale e dell’anima di uno dei più antichi agglomerati urbani di questo pianeta.
Il partito Baath non è mai stato un’oasi di uguaglianza economica. La Siria è stata gestita come un’impresa privata, con la formazione di una vasta coalizione tra il regime e una business class politicamente obbediente ad Aleppo, Damasco e ad altre città importanti.
La stessa economia puzzava di corruzione, capitalismo clientelare e monopoli.
Emulando il modello cinese, in cui la liberalizzazione economica va di pari passo con l’autoritarismo politico, il regime Baath ha subito un processo di liberalizzazione dopo il 2000, trasferendo proprietà e beni dello Stato a persone di fiducia che avevano stretti legami con il regime.
La famiglia Makhlouf era già nota per la sua corruzione: controllava il settore dei trasporti, come il porto Tartous e gli aeroporti, le società di telecomunicazioni, una parte dell’industria petrolifera, progetti immobiliari, oltre a fare grandi affari con l’esercito siriano.
Questo impero commerciale, che è venuto fuori dalle politiche di liberalizzazione di Bashar Assad, è stato uno dei motivi della rivolta siriana.
La ricostruzione della Siria solleva una questione principale dell’economia politica che riguarda il dilemma tra la crescita e la distribuzione.
Chi sarà in grado di comprendere le cause della rivolta siriana?
Qualora i benefici economici della ricostruzione andassero a una già ricca elite interna o a delle compagnie straniere, le principali condizioni che hanno portato alla guerra civile rimarranno intatte. Vi è una necessità evidente di attrarre capitali esteri che investano nelle infrastrutture, nella ricostruzione delle abitazioni, delle città, dei ponti e delle fabbriche.
L’esempio dell’Iraq è utile in questo contesto.
Le politiche di liberalizzazione economica che hanno portato le società di consulenza internazionali nel processo di privatizzazione dell’industria petrolifera e di altre risorse pubbliche, hanno provocato a un aumento della violenza, che ha destabilizzato l’Iraq per un tempo considerevole.
Il processo di liberalizzazione è una forza di frammentazione che indebolisce lo Stato centrale in relazione alle varie agenzie, siano esse straniere, reti commerciali locali, Ong o altre istituzioni.
In società già attraversate da tensioni interconfessionali e strutture di governance deboli, questo processo potrebbe portare alla creazione di divisioni regionali e, infine, incoraggiare la formazione di signori della guerra e la parcellizzazione delle istituzioni statali. L’Iraq ne è la prova.
Un altro esempio significativo è il Libano. Dopo due decenni di guerra civile, il boom della ricostruzione degli anni ’90 ha lasciato il paese dei cedri con un alto debito interno ed esterno, che si avvicina ai 50 miliardi di dollari.
Inoltre, il processo di privatizzazione è stato condotto in un modo tale che a beneficiarne è stato un piccolo gruppo d’affari che aveva rapporti clientelari con la classe politica. Il processo di sviluppo ha favorito un’elite marginale, trascurando le regioni periferiche.
Le conseguenze sono state enormi, e il Libano non è riuscito a sviluppare una solida infrastruttura, i trasporti pubblici e più in generale un chiaro piano economico per la creazione di posti di lavoro.
Invece di uno Stato che si occupa di nutrire le forze produttive della società, la ricostruzione ha portato all’apertura dei mercati libanesi a flussi internazionali di capitale, che a loro volta hanno alimentato quella bolla immobiliare che ha distrutto lo spazio urbano delle città costiere e creato un’incredibile diseguaglianza.
La distruzione delle infrastrutture siriane ha già stuzzicato l’appetito delle società multinazionali. Imprese concorrenti del Qatar e della Turchia sono occupate a progettare piani per la ricostruzione delle città principali. Anche le imprese russe, iraniane e cinesi si stanno avvicinando.
Una volta che il conflitto verrà risolto, sarà sicuramente tutto un fiorire di contratti per la ricostruzione, che rifletteranno gli equilibri regionali del potere politico. A rendere il processo di liberalizzazione della Siria ancora più traumatico, è il fatto che esso sarà avviato all’ombra di strutture statali estremamente deboli e incrinate.
Sarebbe davvero un risultato paradossale se la Siria tornasse alla situazione in cui si trovava all’epoca post-coloniale; non dimentichiamo che i siriani, come molti altri paesi del terzo mondo, avevano sostenuto progetti di nazionalizzazione proprio al fine di strappare le attività e le risorse del loro paese dal controllo dei capitali stranieri.
Qualsiasi ricostruzione che non riesce a investire nella capacità produttiva dell’economia siriana, e nella creazione di valore aggiunto a lungo termine e di opportunità di lavoro durevoli per migliaia di siriani, indebolirà lo Stato come la società.
Questo dipende ovviamente dalle fonti dei finanziamenti. I flussi di capitale provenienti dal Golfo hanno più probabilità di finire nel mercato immobiliare, piuttosto che nei settori produttivi.
Qualsiasi piano di transizione dovrebbe saggiamente diversificare le fonti di capitale, facendo in modo che il mercato non sia dominato dai grandi monopoli od oligopoli. Allo stesso tempo, particolare attenzione deve essere data agli investimenti nei settori produttivi e alla crescita di quelli innovativi, come le telecomunicazioni, l’IT e la produzione manifatturiera.
Il Consiglio nazionale siriano ha presentato un piano generico per la ricostruzione della Siria, che non risponde in nessun modo a queste sfide. Una dimostrazione di ciò che potrebbe accadere in seguito.
Le città siriane possedevano un’autenticità che è difficile trovare nell’attuale Medio Oriente. Lo spazio urbano rifletteva la storia di una civiltà radicata che ha dato al mondo uno dei primi sistemi di scrittura, insieme alla teologia, all’arte e alla scienza.
La rivoluzione siriana e la sua escalation eroica contro il regime autocratico ha tenuto in alto i valori della dignità umana, dell’uguaglianza e della libertà.
Sarebbe una tragedia essere costretti ad assistere a una seconda distruzione del paese, in cui lo spazio urbano viene consegnato alle multinazionali che costruiranno un’altra Dubai a spese della cultura siriana.
Il movimento sociale siriano deve essere consapevole della necessità di stabilire la democrazia, insieme a dei forti controlli sul governo del dopoguerra, per assicurarsi che i siriani capiscano le condizioni degli aiuti e le conseguenze dei piani di ricostruzione sulla loro vita e su quella dei loro figli.
La Siria non deve essere distrutta una seconda volta.
*traduzione a cura di Anna Toro