Torpignabeek, Roma Est
Bollettino della guerra al terrorismo: si registrano movimenti di troupe (televisive) all’incrocio tra la via Casilina, l’Acqua Bullicante e via di Torpignattara. In questo quadrante di Roma Est, i media italiani avrebbero scovato la “Molenbeek d’Italia”: l’espressione viene utilizzata per indicare il quartiere-ghetto all’interno del quale si muovono nell’ombra terroristi dell’ISIS e agenti in sonno della Jihad. Poco importa che Molenbeek, quella vera, sia tutt’altro che un ghetto e che i terroristi che da lì provenivano non erano cresciuti dentro moschee e centri di preghiera, e solo di fresco si erano convertiti a quel fenomeno mediatico e postmoderno di reinvenzione della tradizione che chiamiamo ISIS.
Ma come ci sarebbero arrivati, a Torpignattara, i nemici del “nostro-stile-di-vita”? Le cronache ci dicono che l’ultima vittima del fantomatico scontro di civiltà che cova da queste parti, era un pakistano: Shazhad, così si chiamava, venne ammazzato a calci e pugni da un minorenne romano negli ultimi giorni dell’estate 2014. Il motivo: vagava per il quartiere cantando le sure del Corano. Nel frattempo, la Procura documentava decine di attacchi ai danni dei molti cittadini bengalesi che vivono nel quartiere; il cosiddetto banglatour parte dai quartieri middle-class ed è una specie di rito d’iniziazione per i giovani adepti dell’estrema destra: pestaggi pianificati, raid particolarmente odiosi perché rivolti a persone che non si difendono e soprattutto non denunciano. Eppure, per il raffazzonato reporter in cerca di scoop, sarebbero proprio queste persone l’agente in sonno dell’armata delle tenebre islamica. Eccola Torpignattara, la “Molenbeek d’Italia”.
Questo davvero è un quartiere che merita di essere raccontato, crocevia di flussi ed energie vive, contenitore di storie che rimandano ad altri tempi e che ci proiettano in altri luoghi. Torpignattara si trova subito oltre il Pigneto, la zona che altre cronache a caccia di stereotipi descrivono un giorno come “paradiso degli hipster radical chic”, il giorno dopo come “terra di spacciatori in mano al degrado”. Ospita una componente per così dire “storica”, spesso anziana, figlia di quei meridionali che per gran parte del secolo scorso costituirono la migrazione interna dalla provincia rurale alla capitale delle baracche, e che fecero del quartiere uno dei cuori della Resistenza romana. C’è poi una componente più giovane o meglio “giovanile”, attratta dagli affitti abbordabili e dalla relativa vicinanza al centro (già, perché la “banlieue” Torpignattara, per restare a un’altra definizione molto in voga sui giornali, dista dal Colosseo non più di cinque chilometri).
Infine, eccoli: i migranti, soprattutto asiatici e bengalesi, che costituiscono circa il 10 per cento degli oltre cinquantamila residenti di questo quadrante. A Torpignattara cominciarono ad arrivare ormai un quarto di secolo fa. La città necessitava di essere ripulita in occasione del “grande evento” (ogni epoca ne conosce uno) dei Campionati mondiali di calcio di Italia 90. Centinaia di immigrati scacciati dal centro storico occuparono per sei mesi l’ex pastificio della Pantanella, sulla via Casilina a ridosso di Porta Maggiore. Quell’esperienza si concluse con uno sgombero che diede inizio alla prima emergenza migranti della storia repubblicana. Oggi al posto del Palazzo di Cristallo (così era stato sarcasticamente ribattezzato dagli occupanti asiatici il casermone) c’è una sala bingo e qualche appartamento di pregio.
Il rimosso della Pantanella, di quello che ha rappresentato come luogo di organizzazione dal basso dei migranti in mezzo alle tante contraddizioni della povertà, si rispecchia nel modo in cui ancora oggi gli italiani si rapportano a questi fenomeni. Sgomberato il pastificio occupato, in tanti si spostarono poco più in là, verso questo quartiere che offriva case in affitto (spesso in nero) e che poteva essere facilmente raggiunto dalla stazione Termini. Il toponimo Banglatown col quale ancora adesso viene indicata Torpignattara, comincia a circolare da allora: compare nel lessico dei bangla romani e sulle insegne dei cornershop, i mini-market che prosperarono da queste parti, rinnovando in maniera paradossale la storica attitudine al piccolo commercio degli autoctoni, che stava scomparendo a causa della grande distribuzione.
Accadde dunque che le strade – di giorno pittoresche quanto si vuole, ma dal tramonto all’alba vagamente minacciose – si ripopolarono di un’umanità scomposta e giovane. Lo spazio pubblico tornò a essere invaso da abitanti di nuovo tipo. Il quartiere dal quale in Vacanze di Natale venivano i coatti Mario Brega e Claudio Amendola, accoglieva un altro genere di proletari. Gli studiosi delle trasformazioni urbane, hanno quindi parlato di rigenerazione. Non riguarda soltanto il commercio e la vivacità delle strade: i migranti riuniscono le proprie famiglie, le scuole conoscono nuove iscrizioni (si trova qui la Carlo Pisacane, abbondantemente descritta come “la scuola più multietnica d’Italia”), e i piccoli proprietari accumulano somme di denaro (di nuovo: spesso in nero) affittando ai nuovi arrivati.
La rigenerazione urbana presenta nuove sfide. Allarghiamo per un attimo lo sguardo. Un paio di anni fa, sulle pagine del settimanale tedesco Die Zeit compare un articolo intelligente quanto velenoso sulla gentrificazione del quartiere Schanzenviertel di Amburgo. In soldoni, vi si sostiene che la tanto criticata rivalutazione economica di quel territorio sia stata frutto delle attività del centro sociale Rote Flora, della sua capacità di riportare la vita, la cultura, la socialità in un quartiere prima considerato grigio e ostile. E ora che il quartiere è stato rigenerato… arrivano gli investitori!
La messa in vendita di un quartiere popolare proprio in quanto popolare, ha prodotto effetti caratteristici anche in diversi quartieri romani. La gentrification avanza in pezzi di città resi affascinanti e vivaci dall’azione dei movimenti dal basso e dall’arrivo di nuovi cittadini: l’Ostiense rinasce dai resti della vecchia Roma industriale, del mattatoio di Testaccio e degli ex Mercati Generali; San Lorenzo sciorina l’appeal controculturale delle storiche sedi della nuova sinistra e dell’Autonomia Operaia; il successo di Monti affonda nella poetica della Suburra e dei vicoli della Roma di Monicelli e delle botteghe; il Pigneto, sempre lì a due passi da Torpignattarenbeek, sfodera il brand del Pier Paolo Pasolini cantore del sottoproletariato; per i suoi film, Francesca Archibugi sceglie il Mandrione come location per apericene borghesi e cocktail impegnati. Il mensile IL, ha recentemente cartografato tutte queste zone in una mappa della “Roma Cool”.
La cosa suona come una beffa. Basti pensare alla grottesca operazione che ha trasformato gli spazi dell’ex dogana dello Scalo ferroviario di San Lorenzo, esattamente tra il quartiere universitario e il Pigneto: uno spazio che strizza l’occhio a un certo immaginario contemporaneo e “indipendente”, ma che si traduce esattamente nella mercificazione di quanto in questi anni, proprio a San Lorenzo, è stato sperimentato da centri sociali, associazioni, comitati di quartiere e movimenti per il diritto alla città. Il risultato sono feste goderecce, banchetti di street food; immaginario hipster a prezzi tutt’altro che abbordabili ma con una riverniciatura underground. L’apertura dello spazio ha infine coinciso con una mostra di street art, il che presenta una singolare ma non casuale risonanza con le polemiche che hanno convinto Blu a cancellare le sue opere a Bologna.
Dunque, i processi di gentrification parassitano la vita dei nuovi cittadini e la produzione culturale indipendente, le pervertono, e poi le mettono sul mercato. Per farlo però, hanno bisogno di “disciplinare” i soggetti che hanno rianimato i territori. I flussi della speculazione immobiliare raggiungono quartieri che sono stati rigenerati da processi faticosi e ambivalenti, magari proprio ad opera di migranti e giovani precari. Si tratta di vicende che ci consentono di riconoscere la natura estrattiva dei processi produttivi; per dirla un po’ schematicamente: l’imprenditore non si preoccupa più di organizzare la produzione a monte, si limita a intervenire a valle e a tentare di rivendere quello che viene socialmente creato.
Va da sé che questo meccanismo non avviene in maniera lineare, non tutto scorre liscio. Gli agenti della gentrification hanno bisogno di un territorio vivace, ma al tempo stesso sperano di fare a meno proprio di chi, quel territorio, lo rende vivace. Hanno necessità di mano d’opera in nero, ma cercano di espellerla dai quartieri investiti dalle speculazioni. Lo fanno urlando al “decoro”, alzando i prezzi, invocando la presenza delle forze di polizia. Se l’illusione della città pacificata e inerme è un vecchio sogno di tutti i palazzinari, la pretesa di costruire spazi aperti ai flussi del mercato ma chiusi alle forze portatrici di altri metri di giudizio, fa pendant con l’ondata islamofobica. In questo, la Torpignattara-Molenbeek dipinta dai media nelle ultime settimane, più che un semplice escamotage mediatico è quasi un esperimento sociale.
Le voragini che da un momento all’altro squarciano l’asfalto romano, ingoiando macchine e paralizzando il traffico, mi ricordano alle volte i buchi cognitivi che rimandano alle discrepanze tra realtà e rappresentazione. Ancora a Torpignattara, le leggende metropolitane circa la diffusa illegalità degli esercizi commerciali gestiti da migranti, cozzano con la clamorosa realtà della chiusura per abuso di uno scintillante supermercato Lidl a una settimana dall’inaugurazione. Allo stesso modo, i talk show gettano in pasto agli opinionisti una Torpignattara in mano alla violenza integralista e a chissà quali forze oscure, quando basterebbe una semplice ricerca nelle cronache locali per scoprire che i migranti compaiono nella scomoda parte delle vittime, e non nel minaccioso ruolo dei carnefici. I banglatour, il caso tragico del giovane Shazhad, sono ancora lì. Ma sono dettagli che, mi rendo conto, poco si sposano con l’assai più redditizia retorica della “Molenbeek d’Italia”.
*Fonte: http://www.thetowner.com/it/torpignattara-molenbeek/
Foto di Valerio Mattioli