Una risata li seppellirà
Succede spesso che, quando un personaggio politico vede distrutta la propria immagine e il patrimonio di credibilità che si è guadagnato, la sua reazione punti a confondere le idee. E’ successo alla ministra Cancellieri, nel caso delle telefonate per Giulia Ligresti, dove, davanti a tutto, è stato posto il sacrosanto concetto di “umanità”. Un espediente per nascondere la relazione incestuosa della ministra con un pezzo marcio dei poteri italiani. Lo stesso ha fatto Nichi Vendola (e già l’analogia con Cancellieri è inquietante).
Quando Il Fatto quotidiano ha pubblicato l’intercettazione incriminata, Vendola ha menato scandalo per via dei titoli del giornale e per l’ingiuria subita nell’aver minimizzato, deridendola, la questione delle morti per tumore. In quella telefonata, invece, non c’entra nulla il merito della vicenda Ilva né quanto fatto dal presidente pugliese nei confronti dell’acciaieria e nemmeno il profilo giudiziario. Quello che ha colpito tutti quelli che l’hanno ascoltata è la sostanza: quella sottile e sguaiata subalternità a un potere forte, fortissimo, del capitalismo italiano e, segnatamente, pugliese. Subalternità talmente forte da essere esibita nemmeno al protagonista principale, Emilio Riva, ma a uno dei suoi tanti luogotenenti.
Quante volte la sinistra è morta di questa subalternità? Il conto è lunghissimo. Vengono alla mente i “capitani coraggiosi” di un Massimo D’Alema assurto alla presidenza del Consiglio, trasformata in “merchant bank” con cui osannare l’allegra combriccola che si accingeva a scalare Telecom. Viene alla mente Fausto Bertinotti che salutava in Marchionne un possibile esempio di borghesia illuminata con cui allearsi alla vigilia del secondo governo Prodi. Vengono alla mente i tanti casi di relazioni dirette dei vari amministratori di sinistra, in tutta Italia, con questo o quel potere costituito: i palazzinari romani, la Fiat o le banche torinesi, i “borghesi illuminati” milanesi. Forse anche la camorra napoletana e, chissà, la mafia in Sicilia. Relazioni servili funzionali all’idea che, in fondo, sia possibile amministrare, con narrazioni di sinistra, il capitalismo esistente.
La realtà è più dura della demagogia o della propaganda. E così succede che se ti trasformi nella rana che si allea con lo scorpione quello, alla fine, ti pungerà perché “è nella sua natura”. Il film è stato trasmesso ininterrottamente nel corso del Novecento e ogni volta c’è stato qualcuno che ha garantito che la trama sarebbe stata diversa. Come è noto, non è andata così.
I vizi di una tale sinistra, però, non si sono limitati alle forze che hanno scelto di allearsi in forma strutturale con borghesie più o meno illuminate. Oltre il tran-tran della sinistra riformista europea anche quella che si vorrebbe più “radicale” (o presunta rivoluzionaria) riesce a stupire ancora. Pensiamo per esempio all’intervista di Paolo Ferrero a il manifesto di qualche giorno fa, nella quale spiega con una certa sicurezza che “Rivoluzione civile e la Federazione della sinistra sono stati due fallimenti”, che “bisogna costruire la sinistra fuori dal centrosinistra” e che l’errore più grave che si addebita è “il governo con Prodi”. “Credevamo di poter cambiare l’indirizzo politico”, aggiunge, “la vicenda del ’98 l’avevamo superata nel 2001,con il movimento di Genova. Poi, con la scelta del governo, abbiamo chiuso le possibilità a quel movimento e piallato la nostra credibilità”. Il che è piuttosto bizzaro venendo da un ministro di quel governo, che difese quella scelta contro ogni critica e contro ogni evidenza e che oggi resta attaccato al suo ruolo di dirigente in maniera ormai parossistica.
Oppure pensiamo all’uscita del sindaco di Milano Giuliano Pisapia che durante le celebrazioni per il decimo anniversario dei soldati morti a Nassiriya riesce a dichiarare che “il loro esempio, quello dei tanti italiani impegnati nel mondo per portare pace, democrazia e speranza alle popolazioni, ci rende fieri e orgogliosi”, e lo fa stando accanto quei generali che furono tra i responsabili politici e morali di quella guerra illegale e illegittima e quindi di quelle morti – mostrando ancora una volta la subalternità dell’esperienza “arcobaleno” meneghina a qualsiasi potere forte, non solo finanziario e immobiliare, ma ora anche militare.
In questo doppio fallimento, di strategia politica e di “forma” della politica, Vendola segna, dopo il fallimento bertinottiano, un nuovo capolinea. Fanno un po’ sorridere, però, i commenti gaudenti del resto della sinistra politica che, pensando di lucrare vantaggi elettorali, fa il tiro al piccione nei confronti di Vendola. Spesso, come visto, sono figli della stessa impresa, solo declinata un po’ più diversamente. Sicuramente, sono figli della stessa sconfitta. Il problema di una ricostruzione radicale, che abbiamo posto a fondamento della nostra impresa, si pone senza alibi o fingimenti. Una risata li seppellirà, anzi lo ha già fatto.