Uno sciopero di classe
Iniziative in più di sessanta città, con modalità diverse. Da semplici presidi antirazzisti a scioperi nelle aziende, nelle cooperative, nei cantieri con cortei che hanno visto come protagonisti migliaia di migranti. Studenti migranti di seconda generazione scesi per le strade e nelle piazze decisi a non subire più discriminazioni. Questo è stato il 1° marzo in Italia. La crisi e il razzismo sono stati al centro di tutte le mobilitazioni. Una crisi che si vuol far pagare soprattutto ai migranti con il ritorno nella “clandestinità” , frammentando ancor di più il mercato del lavoro, per incrementare i tassi di sfruttamento. Non c’è nessuno che più dei migranti conosce il vero significato della precarietà. Che vive sulla propria pelle quella purtroppo modernissima condizione che ricombina continuamente la precarietà esistenziale, con quella sociale e lavorativa. Dove la flessibilità significa solo precarietà e la cittadinanza presuppone l’assoggettamento. E’ per questa loro specifica collocazione nel sistema produttivo, nella società – al tempo della crisi – che i migranti rivestono un ruolo importante per comprendere i comportamenti, le lotte della nuova composizione di classe. Una classe che non esiste a priori, come un qualcosa di già dato che dev’essere solo organizzato, ma che si manifesta nei momenti del conflitto, della mobilitazione. Dunque una classe da attraversare, da esserne coinvolti proponendo quelle forme di autorganizzazione che hanno un senso solo se producono soggettività, alimentano le contraddizioni, mettono in crisi gli attuali sistemi di rappresentanza. I migranti sono a tutti gli effetti tra i soggetti centrali di questo processo.
Il percorso che ha portato al primo marzo, al “giorno senza di noi” è stato difficile e piuttosto accidentato. I tentativi di sminuirlo, depotenziarlo sono iniziati quasi subito. Sono stati prefigurati scenari dai tratti inquietanti: si dividono i lavoratori, è uno sciopero etnico, virtuale, non si deve fare ora ma tra otto mesi. Come se avessimo di fronte una classe operaia italiana ( bianca?) compatta e coesa che esprime lotte e mobilitazioni ed è minacciata dai comportamenti dei lavoratori migranti (tutti della stessa etnia?). Oppure, ma non cambia di molto, facendo leva sull’auspicio, che progressivamente diventa un ostacolo, di costruire prima l’unità dei lavoratori migranti e nativi e poi mettere in capo conflitti e mobilitazioni. Si deve purtroppo registrare che in questa occasione le sinistre sindacali, confederali e di base, con l’eccezione in alcune province, sono state prigioniere di questi ragionamenti. Gli altri sindacati o settori sindacali hanno fatto semplicemente il loro mestiere: i migranti non devono diventare soggetti sociali protagonisti del proprio destino, devono restare essenzialmente dei “fruitori di servizi” che tuttal’più fanno vertenze individuali. Un discorso analogo si potrebbe fare con quell’associazionismo antirazzista rimasto imbrigliato in logiche solidaristiche che non vanno oltre l’evocazione astratta dei diritti e di un’improbabile integrazione.
Invece il primo marzo è importante perché può aprire un nuovo percorso fatto di anticipazioni, di esperienze, di aspirazioni che stanno attraversando il moderno proletariato. Non si ricompone alcunché con le somme aritmetiche, con le mere sommatorie di classe, genere e razza. Sono le soggettività attive del lavoro vivo contemporaneo che possono aprire un nuovo spazio per la ricostruzione delle relazioni di classe e del conflitto.