Uscire dall’euro, una scorciatoia
Marco Bertorello e Danilo Corradi
vedi il libro “Capitalismo tossico”
La crisi dell’Euro trascina con sé una molteplicità di problemi e potenziali soluzioni. L’economia politica condotta a livello continentale svela tutte le sue contraddizioni, facendo precipitare il contesto e rendendo urgenti scelte di cambiamento radicale. Alla crisi ha corrisposto il riemergere di un’opzione nazionale, che viene interpretata come una prospettiva adeguata ai problemi che abbiamo di fronte. Il rischio è che l’opposizione al rigore e all’austerità slitti verso un progetto di ripiegamento statual-nazionale che non fa i conti con i problemi di ordine globale, rinviando un approccio sistemico e fondamentalmente alternativo. In ogni caso il punto di partenza è rappresentato dal caso greco.
La Grecia esce oppure è fuori?
In un recente intervento Emiliano Brancaccio dava come chiave di lettura della sconfitta di Syriza la sua posizione «palesemente contraddittoria» nel chiedere una rinegoziazione del famoso memorandum, senza affrontare in maniera esplicita le possibili conseguenze derivanti da un eventuale fallimento di tale richiesta. É possibile che Syriza sia stata reticente nel ragionare in dettaglio sulle conseguenze derivanti da una risposta negativa della Troika, ma era piuttosto chiaro che le conseguenze di una chiusura della trattativa avrebbero condotto alla ristrutturazione unilaterale del debito da parte della Grecia. L’atteggiamento di Syriza, dunque, è stato tattico, dato che erano gli avversari a denunciare pesantemente il suo presunto profilo anti-europeista, ma non si può dire che non agitasse l’unico potere di contrattazione di cui disponeva la Grecia: il suo debito e persino la libertà di circolazione di capitali e merci sul proprio territorio. La pesantezza con cui è stata affrontata la campagna elettorale in Grecia, anche con bordate dal resto del continente, è stata all’insegna dell’isteria euro-si euro-no, come se vi fosse stato un referendum sulla moneta unica, piuttosto che su come uscire dalla crisi europea in generale e nello specifico dei suoi debiti sovrani.
La critica di Brancaccio, seppur fondata, appare un po’ ingenerosa. Indubbiamente la ristrutturazione unilaterale del debito pubblico greco avrebbe potuto implicare l’abbandono della moneta unica. Ma benché questo fosse l’esito più prevedibile, non dovrebbe essere considerato scontato. I tatticismi nella partita con la Grecia non provengono solo dalle forze politiche elleniche, ma anche dal direttorio europeo, Merkel compresa. L’uscita dall’euro di un paese, per quanto piccolo, può avere esiti imprevedibili. Se è vero che in questi due anni alla fuga di capitali all’estero ha corrisposto un progressivo disimpegno finanziario straniero in Grecia, le cifre dell’esposizione di Inghilterra Germania e Francia superano i 68 mld di dollari, a cui va aggiunta l’esposizione del fondo salva stati e degli altri paesi europei1. Inoltre considerato il contesto di difficoltà generalizzata non è possibile escludere un effetto contagio per i paesi in maggiore sofferenza.
Da un po’ di tempo si sentiva dire che ormai tutti i soggetti si erano predisposti al fallimento della Grecia, ma sembrava tanto un modo per scongiurare questa evenienza, anziché contenerne gli effetti sul serio. Per ciò non sarebbe stata da escludere la possibilità di alleanze tra paesi dei PIIGS per provare ad affrontare il tema del debito su binari differenti. Insomma una Grecia con Syriza al governo avrebbe potuto giocare una partita per provare a scompaginare le carte, incrinando consolidati equilibri in un contesto in cui di consolidato c’è piuttosto poco.
L’imprevedibilità delle conseguenze in un tale quadro può essere un rischio per tutti, compreso quelli che hanno più da perdere. Esistevano margini politici al di là dei presunti dettami dell’economia. Il testa o croce, fuori o dentro, è in una logica binaria che non sempre vale, tanto più se interviene su architetture e interessi complessi. Persino la bancarotta della finanza pubblica greca non configura automaticamente l’uscita dall’Euro e dall’Unione. Non si hanno procedure per una tale evenienza, nessuno le ha previste, dunque si naviga a vista in un mare aperto, nulla può essere scontato, al fondo contano i pro e contro di ogni opzione. Se si vuole l’unico paragone con qualcosa di simile, per quanto improprio, considerato il maggior grado di integrazione, è quello con gli Usa, dove al fallimento di alcuni Stati non ha corrisposto la loro espulsione dall’Unione. D’altronde per molti versi la Grecia è già tecnicamente fallita e il suo debito è già in corso di ristrutturazione. Come vedremo allora la partita non è se fallire o meno, ma come farlo.
Con ciò non si può escludere una precipitazione del confronto-scontro e un’uscita della Grecia dall’Euro e persino dall’Unione Europea. Da questo punto di vista l’ultimo programma presentato da Syriza non era affatto reticente, in quanto non solo si confermava il no al memorandum, ma si parlava dell’abolizione delle leggi sui minimi salariali e pensionistici, i licenziamenti, insieme a processi di rinazionalizzazioni del sistema bancario e della nazionalizzazione delle principali industrie strategiche del paese. Un progetto che implicitamente accettava la difficile sfida di un potenziale isolamento, tentando di riprendere le redini principali dell’economia per reggere la botta. Per tentare di difendere i soggetti maggiormente colpiti da questi anni di austerity.
Quello su cui vale la pena riflettere è se tale prospettiva debba rappresentare l’obiettivo di una politica alternativa all’esistente, in quanto costituirebbe il modo più efficace per uscire o per lo meno attenuare la crisi.
Euro-Totem
Quando si parla di fallimento dell’Euro oppure di fuoriuscita dall’Euro, la moneta unica viene concepita come un Totem, cioè uno strumento praticamente divino e dunque incontestabile, l’unico a cui appellarsi per ricchezza e benessere. Anche se il tenore della retorica in questi anni si è ridotto, viene considerato un obiettivo irreversibile e l’unico che può condurci al di fuori della crisi. Senza nessuna relativizzazione, senza considerarne i suoi limiti. Ma questi incominciano ad essere discussi anche in alcuni ambienti economici più attenti alla sostanza e meno all’ideologia. Persino nel campo degli estimatori fa breccia una critica ai magri risultati ottenuti in dieci anni. Vediamoli ad oggi.
Nell’Unione Monetaria Europea si sono registrati tassi di inflazione simili a quelli registrati al di fuori dell’Eurozona (Danimarca, Svezia e Regno Unito) e tassi di crescita di certo non superiori. Va aggiunto che nel frattempo si sono accumulati all’interno dei paesi Euro squilibri e fragilità crescenti, andando ad approfondire divergenze nei cicli economici. Infine l’integrazione finanziaria ha favorito una sperequazione nel costo del capitale. Simbolicamente possiamo riassumere individuando una prima area centro-europea che ha sostanzialmente guadagnato dalla moneta unica e una periferia che ha visto indebolire ulteriormente la propria posizione, con la Francia in una posizione intermedia, ma che va scivolando verso la seconda piuttosto che verso la prima. L’unico dato incontestabilmente positivo risulta il modesto tasso di interesse, mentre appare più dubbio negli effetti il contenimento dell’inflazione.
Per comprendere adeguatamente il senso di marcia della moneta unica, però, non si può astrarre dal contesto in cui è sorto. Un prezioso testo dell’economista Jacques Sapir [Bisogna uscire dall’euro?, Ombre corte, 2012] sottolinea come l’Europa e successivamente la moneta unica siano la risposta a livello continentale alle trasformazioni dell’economia globale. L’Euro è la risposta ai processi di finanziarizzazione combinati con la crisi dell’economia reale. Cioè è il tentativo di arginare il processo di arretramento dell’Europa su scala mondiale. In questo vortice alcuni paesi hanno individuato nell’Euro un potenziale paracadute. Considerato che tale processo è sempre la risultante di rapporti di forza preesistenti, il nucleo centro-europeo a guida tedesca è il soggetto che è riuscito a imporre un profilo dell’unione monetaria maggiormente corrispondente ai propri interessi. Ciò non esclude che le classi dirigenti dei paesi mediterranei e periferici individuassero convenienze sufficienti per partecipare alla costituzione dell’Euro. Per riassumere la Germania aveva bisogno di orientare la propria economia all’export e creare un deciso surplus commerciale per far fronte ad un repentino invecchiamento demografico e all’indebolimento del proprio apparato industriale sotto i colpi dei processi finanziari e della globalizzazione. Quest’ultimi problemi troppo spesso non vengono considerati adeguatamente, troppo spesso non si valuta come queste tendenze abbiano coinvolto tutti i paesi occidentali, compresa la Germania segnata da un manufatturiero avanzato. L’Euro, dunque, nasce all’insegna di economie che individuano l’export come il segmento trainante in un contesto caratterizzato da iper-competitività. Libertà dei movimenti di capitale coniugata con competitività interna (continentale) ed estera. Queste sono le regole del gioco per difendersi e allo stesso tempo per ottenere una sufficiente convergenza tra paesi tanto differenti. Questi obiettivi, però, a dieci anni non risultano interamente raggiunti. Anzi le divergenze aumentano e alcune dinamiche strutturali determinano l’esplodere della crisi.
La lettura che incrimina i paesi poco virtuosi, accusati di irresponsabilità fiscale, come la definisce Paul Krugman una sorta di «elenizzazione del discorso economico europeo» appare fuorviante, in quanto come osserva il Nobel americano ancora prima della crisi quei paesi stavano migliorando la propria posizione debitoria in rapporto al Pil. Le ragioni, dunque, sono più complesse. Esistono cause strutturali di ogni singolo paese, come l’entità del debito pubblico, la corruzione e la debolezza del sistema fiscale in Italia, oppure la disoccupazione spagnola, il grado di corruzione e la debolezza industriale greca, ma in questi anni sono emersi anche problemi specificatamente di quello che Michel Husson definisce «sistema -euro». La moneta unica, infatti, ha determinato un contesto monetario rigido, in cui in assenza di un regime fiscale comune, le sperequazioni esistenti non possono essere contenute attraverso una svalutazione monetaria. Per ciò tale processo è perseguito attraverso quella che viene detta «svalutazione interna», costituita dall’austerità salariale. Cioè quando un paese, come è il caso di quelli europei, non può più svalutare la propria moneta, per rendere le proprie merci maggiormente competitive deve ricorrere a politiche di svalutazione salariale. Considerato che per molti paesi dell’area Euro la percentuale di scambi commerciali effettuati con la moneta comune ruota attorno al 60%, si capisce la necessità di tali politiche di contenimento. Queste scelte però hanno come effetti a cascata un’ulteriore depressione della domanda interna e conseguentemente una contrazione della base fiscale imponibile, determinando un vero e proprio circolo vizioso. C’è poi un ultimo problema di ordine strutturale. Dentro il vortice competitivo la sperequazione tra paesi centrali e periferici si è acuita in quanto paesi come la Germania hanno aumentato la propria capacità competitiva attraverso una deregolamentazione del mercato del lavoro e una depressione della domanda interna che non ha permesso a fronte di un crescente surplus di produrre ricadute positive per gli altri paesi. Paradossalmente se i paesi periferici avessero contenuto le importazioni a debito di questi anni, e si fossero riallineati alle performance della Germania la depressione a livello continentale sarebbe più accentuata.
Infine alla prolungata contrazione delle attività e della profittabilità delle attività nell’economia reale ha corrisposto un dinamismo nel movimento dei capitali in cerca di nuovi e più elevati profitti per l’Europa. Grecia e Spagna dopo l’unificazione monetaria sono stati considerati paesi più solidi che in passato attraendo enormi quantità di flussi di denaro contribuendo in maniera significativa alla creazione di bolle speculative. Sono questi paesi che hanno provato a vivere al di sopra delle loro possibilità oppure sono i capitali esteri che lì hanno investito a provare a guadagnare al di sopra del consentito?
Uscire dall’Euro?
Arriviamo allora alla fatidica domanda di questi tempi: per uscire dalla crisi si rende necessario uscire dall’Euro? La destra sembrerebbe non avere molti dubbi, a sinistra si va affermando un crescendo di dichiarazioni in tal senso. Indubbiamente esistono contraddizioni sistemiche della moneta unica che ulteriormente complicano le prospettive di molti paesi aderenti, ma limitarsi a centrare i problemi su quel piano, senza considerare il contesto di fondo, significa non provare a risolvere le questioni alla radice. Auspicare il ritorno alla Lira o alla Peseta generalmente significa indicare una strada percorribile per far tornare nuovamente competitivi paesi come l’Italia e la Spagna. Il problema invece è che il sistema competitivo oggi mostra la corda. E’ il principio della competizione nell’economia di mercato a produrre una fase di crisi che sembra permanente. Non è un caso che la crisi sia crisi ambientale, economica e sociale insieme, sia crisi trasversale nei vari continenti. La tanto decantata crescita economica non è data in maniera stabile in tutti i paesi occidentali e arretra in quelli emergenti. Le contro-riforme ovunque danno respiro alle borse, ma fanno precipitare le condizioni materiali di milioni di individui. All’impoverimento delle classi subalterne si aggiunge quello delle classi medie e nella competizione globale assistiamo al venir meno anche di tanta parte di quell’impresa che non regge i nuovi ritmi e il grado di concentrazione raggiunto.
Queste ragioni sistemiche impediscono di credere semplicemente a un ritorno ad economie nazionali in definitiva sempre in competizione tra loro. Non è da una polverizzazione geografica del livello di competizione che possiamo pensare di uscire dall’attuale crisi. In un contesto globale di relativa salute, come all’inizio degli anni Novanta, la svalutazione competitiva della Lira ha consentito un respiro di alcuni anni, ma non ha certo favorito un’inversione di tendenza, nel cambiare i rapporti di forza tra le classi, anzi da quel momento le disparità tra profitti e salari sono volate anche in Italia.
Il ritorno ai fondamentali economici è il passaggio necessario per comprendere quale strada intraprendere. Le alchimie istituzionali e monetarie non possono fare supplenza al mancato funzionamento dei meccanismi fondamentali del capitalismo. Da un lato c’è chi propone eurobond e possibilità di stampare moneta per la Bce, con tutte le subordinate del sistema bancario unico e norme antispread, dall’altro c’è chi propone il ritorno a monete nazionali per poter svalutare e competere meglio. Nessuno si pone il problema dei meccanismi di mercato siano essi operativi su scala sovranazionale o meno. Monti esulta per il recente accordo europeo e mal tollera le dichiarazioni del presidente di Confindustria Squinzi sulla crisi paragonata alla guerra. Dice che è più facile trovarsi d’accordo con la Merkel in Europa che con alcuni rappresentanti delle parti sociali in Italia. Ma i dati di Confindustria descrivono meglio il contesto in cui stiamo vivendo. Da questo punto di vista l’uscita dall’Euro rischia di essere una scorciatoia.
– Innanzitutto appare un’operazione che risponde a differenti interessi d’impresa in funzione del livello di integrazione economica globale raggiunto, ma difficilmente sarebbero tutelati gli interessi del lavoro.
– Secondariamente un’uscita dall’Euro oltre a rappresentare un’incognita nelle procedure e per le controversie a cui darebbe vita, per esempio sulla possibilità o meno di convertire il valore dei mutui nella nuova moneta, provocherebbe un immediato aumento del costo della vita, soprattutto in un paese come l’Italia che è cronicamente dipendente da materie prime e risorse energetiche. Il passaggio, dunque, sarebbe inevitabilmente pagato a caro prezzo dalle classi subalterne.
Quest’ultimi problemi però non devono indurre a derubricare in modo perentorio la possibilità di un’uscita dall’Euro (processo che sarebbe sempre determinato perlomeno da due soggetti quello che esce e quelli che pongono condizioni talmente capestro da costringere a uscire), ma semplicemente a non considerarlo la via maestra per uscire dalle attuali difficoltà. Perché queste si riproporrebbero su scala locale.
Differentemente si pone immediatamente l’obiettivo di una ristrutturazione dei debiti pubblici in un’ottica sociale, capace di essere l’architrave su cui ridefinire un’idea di Europa alternativa all’attuale Unione Europea. L’uscita dall’Euro è una subordinata di questo scontro. E qui il problema che pone Brancaccio su chi gestisce i processi per uscire dalla crisi è reale, sia per la dissoluzione della moneta unica sia per la ristrutturazione dei debiti non è indifferente chi sarà il soggetto politicamente egemone che condurrà la partita. In questo caso i rapporti di forza tra i gruppi sociali saranno decisivi. Quello però che è urgente in questa fase è una riconversione ecologica e sociale dell’economia che non può avvenire sotto le regole della competizione di mercato, ma attraverso un recupero di investimenti pubblici, nazionalizzazioni del sistema bancario, inibizione della finanza, remissione dei debiti illegittimi, redistribuzione della ricchezza, sperimentazione di nuove forme di pianificazione.