Benedetto Vecchi da il manifesto
L’atelier di una insurrezione che illumina il presente
Benedetto Vecchi (da il manifesto del 26/01/2012)
Il settimanale «Economist» non è nuovo a queste provocazioni. Questa volta tocca a Lenin, che con un sigaro in mano annuncia il ritorno del «capitalismo di stato». Il riferimento è alla formula usata dal leader bolscevico del «capitalismo di stato gestito dal partito comunista» come passaggio obbligato per gestire la difficile transizione – dopo la Rivoluzione e la feroce guerra civile condotta dalla «guardia bianca» contro la Rivoluzione d’Ottobre – al socialismo. Una provocazione, visto che la rivista inglese fa riferimento a quei modelli di capitalismo incardinati sul protagonismo statale, come accade in Cina, Russia, India. Un numero che merita attenzione e una riflessione meno legati alla contingenza. Quello che sorprende è che l’«Economist» coglie sicuramente delle tendenze profonde nel capitalismo contemporaneo. Lo aveva già fatto con Karl Marx, invitando a rileggerlo dopo l’avvio della crisi economica globale nel 2007.
Non è dato sapere se i «potenti della Terra» abbiano letto o solo sfogliato il «Capitale». C’è solo da constatare che le politiche economiche nei paesi capitalistici europei e statunitense sono caratterizzate da una continuità rispetto al passato. Il neoliberismo occupa ancora il centro della scena e non c’è all’orizzonte nessuna inversione di rotta. Eppure quell’invito a rileggere Marx andrebbe raccolto, almeno da parte di chi vede l’interpretazione del mondo come parte del movimento che punta a trasformare lo stato di cose presenti. Da questo punto di vista la nuova edizione degli scritti di Karl Marx e Friedrich Engles sulla Comune di Parigi è da salutare come una ventata di aria fresca nel plumbleo clima della discussione pubblica «a sinistra» (Inventare l’ignoto, pp. 262, euro 22, Alegre edizioni). Sia chiaro: sono testi, lettere, saggi più volte pubblicati, ma da molto tempo assenti nelle librerie. Per precisione, va anche ricordato che la Comune di PArigi costituì, per Marx e Engels, un vero e proprio «evento», cioè un’esperienza, un tumulto, pardon un’insurrezione che determinò un discrimine tra un prima e un dopo. Il prima era costituito dalla rivoluzione francese del 1830 e dalle rivoluzione europee del 1848, dove lo spettro che si aggirava nell’Europa mostrava tratti fondamentali, ma minoritari dal punto di vista politico. La Comune fu altro. Mesi durante i quali la presenza politica del movimento operaio fu posta, per un usare un lessico marxiano, in quanto «classe in sé e per sé». Rileggere gli scritti di Marx o le lettere di Englels su quanto accade in quei mesi restituisce un percorso teorico e politico che merita attenzione sulla capacità dei due studiosi di mettere in relazione riflessioni di «lunga durata» sul capitalismo e l’analisi legata alla contingenza. Come d’altronde sottolinea l’autore dell’introduzione, Daniel Bensaïd. Lo studioso e militante francese, scomparso poco più che un anno fa, non nasconde i problemi che ha incontrato a mettere insieme i testi – ovviamente frammentari – ma pone con forza un problema: è possibile una teoria della rivoluzione a partire da quanto hanno scritto centocinquantanni fa sia Marx che Engles?
La risposta non è netta, semmai pone problemi sulla necessità di usare Marx per andare oltre il marxismo. Con ordine. Bensaïd affronta la «questione» se esiste o meno una teorica marxista della politica. Lo studioso francese ricostruisce storicamente il nodo da sciogliere. Ne esce fuori un affresco nel quale l’autore del Capitale è un critico abbastanza feroce delle decisioni che furono prese subito dopo che gli inserti avevano preso a fucilate gli orologi, simbolo della scansione del ritmo capitalistica della produzione. Marx non ha però dubbi sulla necessità di schierarsi a favore di quegli stessi insorti. Anche, perché interessato sia alle forme di organizzazione dell’insurrezione che del loro consolidamento. Marx non si pone la definizione aprioristica di una teoria della rivoluzione, bensì di una teoria del potere politico, cioè dello Stato.
Le pagine che scorrono veloci nella lettura come le immagini di una avvincente soap opera restituiscono una realtà in continua evoluzione. Ogni scelta, decisione che viene presa modifica la realtà, così come «sovverte» la composizione sociale degli insorti. Prima ci sono gli artigiani, poi i piccoli commercianti, infine gli operai salariati. Ognuno, a modo loro, si trova di fronte alla domanda di come recidere il nodo gordiano dell’ordine sociale dominante. Anche gli scritti postumi, cioè successivi alla sconfitta della Comune, pongono lo stesso rovello: dove l’errore? dove la possibilità di un «nuovo inizio»?
Gli scritti presentati nel volumi possono essere considerati un, seppur interessante, materiale di archivio. Eppure hanno una loro vitale attualità. Le domande che sono poste sono le domande che ogni movimento sociale si trova di fronte. Ogni risposta mancata è come quella «cosa» che accade nel gioco dell’oca: ritorna all’inizio. In altri termini: «l’ignoto» contenuto nel libro coincide proprio con la scommessa politica che attiene alla nostra opaca contemporaneità: un movimento sociale può anche far intravedere il superamento dell’ordine costituito; ma questa intuizione, prefigurazione rimane tale. Non diventa cioè pratica politica corrispondente alla posta in gioco data nella contingenza, cioè nel presente.
In queste ultime settimane, anche su questo giornale, sono stati ospitati molti interventi su un altro ordine di problemi riguardanti la crisi del neoliberismo. Finora è mancato, eccetto per gli articoli di Rossana Rossanda, il mancato ancoraggio della crisi economica al possibile spazio politico che i movimenti sociali possono occupare. Nessuna risposta è certa, su questo terreno, ma si mettono in relazione questi scritti con la realtà contemporanea, il problema che si ripropone investe la capacità di tradurre politicamente movimenti sociali tutti opachi, cioè marchiati dai rapporti sociali dominanti. Il curatore del volume ha avuto esperienza dell’opacità dell’azione politica. La sua proposta è di fare leva sulla tradizione politica della «classe». Proposta non condivisibile, perché la posta in gioco non coinvolge solo il come prendere il potere per poi consolidarlo. Bensì le forme situazionali di una rivolta, pardon tumulto, pardon insurrezione che considera il conflitto elemento fondamentale nella definizione del nuovo ordine politico.
Il filosofo di Treviri annota pazientemente errori e potenzialità della Comune. Lo fa con una tensione teorica e politica che manca nelle contemporanee discussioni pubbliche. Non propone ricette, ma chiarisce però la posta in gioco, con una chiarezza che farebbe impallidire ogni sociologo o studioso che occupa la scena pubblica contemporanea. Ed è quel filo rosso che andrebbe raccolto per tessere una trama che non inviti a baciare o ingoiare rospi, come viene chiesto per accettate un neoliberismo temperato. Una prospettiva, questa si rivoltante..