La ballata delle narrazioni tossiche – Enrico Manera su Doppiozero
Diversi anni fa, alla prima collaborazione con un quotidiano, ebbi un assaggio del mondo della comunicazione nel terziario culturale avanzato del nuovo millennio. In breve, non si riusciva a trovare un collaboratore disponibile in tempo zero a scrivere l’obituary di un intellettuale; ero il redattore che doveva risolvere il problema e dopo un po’ di telefonate andate a vuoto presi una decisione impulsiva. Scrivere il pezzo, senza saperne niente, ma proprio niente. Dopo un’ora di ricerca in rete e di stesura mi trovai con un buon pezzo che piacque a tutti, pronto per andare in pagina. Era solido e rigoroso, persino toccante: sembrava l’omaggio, breve e intenso di un vero specialista, un allievo devoto, un lettore attento e di lungo periodo. Problema risolto, grande soddisfazione di tutti. Fui portato ad esempio di efficienza e professionalità con altri giovani collaboratori. Mi presi le pacche sulle spalle e restituii i sorrisi. Non sapevo se essere felice o sentirmi un falsario. Sembrava il pezzo che avrebbe dovuto essere e, in qualche modo, lo era.
Avevo realizzato il potere del registro, del tono, della misura. Mi spaventai di quello che sarebbe potuto diventare il mio lavoro; di quale sarebbe stato il prezzo da pagare rispetto alla mia personale carta dei valori e alla relativa procedura operativa – necessità di studiare, occuparsi di cose che si sanno, controllare fonti e dati, leggere, rileggere, fare leggere, ricontrollare, aspettare, eventualmente pubblicare. Per come la vedo io dall’idea iniziale all’editing finale ne va, del patto con il lettore, della fiducia in chi scrive, dell’etica (e) della scrittura. Del guardarsi allo specchio al mattino.
Poi le cose presero un’altra piega. Entrai a scuola e altre vicende mi portarono, senza drammi, lontano dal mondo della carta stampata e dell’informazione digitale; non ho avuto modo di rispettare o tradire il mio codice. In ogni caso, in quella situazione avevo scoperto qualcosa su di me. Se tutto sommato ero stato onesto – non avevo inventato niente – avevo avuto la prova di come si poteva costruire la verità, montando in fretta buone informazioni ben “cucinate”. Questo mio personale conflitto con la pubblicistica impallidisce in confronto alla vicenda umana e professionale che Selene Pascarella racconta nel suo Tabloid inferno, Alegre 2016 .
Uscito nella collana Quinto tipo, diretta da Wu Ming 1, il libro ha come sottotitolo Confessioni di una cronista di nera ed è la vera, irresistibile e dolorosa, confessione di chi, con un percorso lungo e travagliato, ha bazzicato i fondali fangosi dell’industria culturale. Di chi su riviste improbabili ha scritto, inventato e ritritato storie a sfondo morboso e al tempo stesso moraleggiante per nonne e zie, a base di sesso e orrore, delitto, perdizione e redenzione, non prive di sfondi nazionalisti, xenofobi, misogini.
Pascarella racconta l’itinerario professionale di scienziata della comunicazione, da notista politica-locale a scrittrice di crime-non-fiction di serie Z, sulle molte riviste che in edicola guardiamo sorridendo (salvo poi ritrovarle nei bagni di qualche parente); ci regala ritratti delle persone che lavorano e abitano l’ambiente, su tutti il mentore Senpai, il Virgilio che conosce tutti i segreti del mestiere, la guida e la protegge, mette a tacere i suoi rigurgiti di correttezza politica e le evita – in quanto donna – le storie più controverse e con il quale condivide il codice d’onore che regola il sistema.
Con autoironia e senza autoindulgenza, Pascarella ci mostra come la sete di fiction e il suo sfruttamento commerciale, nichilista e parossistico, sia alla base della degenerazione del giornalismo – tutto il giornalismo –, in cui da anni si dibatte un precariato culturale nutrito di buone letture e critica sociale, capace di sprofondare lentamente nel cinismo, nel trash e nel disincanto per pagare bollette e affitti.
Figlia di una generazione cresciuta «a manga e scuola di Francoforte», nutrita di Barthes, Star Wars e Tarantino e immersa nella controcultura e nella militanza da centrosociale, ha «predetto finti oroscopi senza avere la minima nozione di astrologia, reso omaggio alle più inutili boy band del pianeta, scandagliato gli insondabili misteri dell’universo in riviste specializzate in “ufo & misteri”, portato a un nuovo livello la narrazione sulle madonnine lacrimose e i santuari miracolosi». E si ritrova a «scrivere porcherie illudendosi di combattere il sistema», fino a sentire di meritare di «bruciare all’inferno dei giornalisti per l’eternità». Con i suoi molti pseudonimi, Pascarella si specializza infatti in narrazione criminale sui tabloid di nera, pensata per «donne con l’affezione per il rituale dell’acquisto in edicola, il commento collettivo con le amiche e il dibattito dalla parrucchiera», un mondo in realtà molto maschile in cui vigono «irresponsabilità, legge della giungla, istinti primordiali, violenza, sessismo».
L’analisi di questo consumo culturale, fatto di shock controllati, riprese infinite, what if, ipotesi implausibili, ritorni da mondi paralleli, fa emergere l’eterno bisogno del racconto meraviglioso, inquietante e terrifico, in quanto flusso continuo e seriale che ha la struttura della soap opera e la forma cognitiva a metà tra graphic novel e fotoromanzo. Un genere codificato che ha le sue “regole di notiziabilità” e che si ritrova imparentato con la narrazione popolare e favolistica di lunghissima durata; che ha subìto un processo di reversione mitica come la società a cui è destinata e che trova i suoi momenti apicali in storie «di giovane mamme spezzate negli anni»; che si decidono redazionalmente con dialoghi come questo: «al primo sguardo pensi “ammazza che bagascia”, poi capisci che dietro al reggiseno push-up a vista c’era una donna vera, che […] si sentiva sola e la vita le aveva voltato le spalle». Pensare sempre a quello che il lettore vuole.
C’è nel libro la tragica consapevolezza di aver contribuito, nonostante i tentativi di sabotaggio e l’esercizio di stile, a diffondere immondizia all’interno di un mondo di «meccanismi perversi che […] producono mostri mediatici e giuridici, dove a farne le spese sono, quasi sempre, le donne» e di aver alimentato l’immaginario di una readership nazionalista, di area razzista-forcona-gentista «genere Meloni-Salvini», che ama leggere storie informate dal principio che «quando si tratta di morti ammazzati, prima gli italiani».
Allo stesso tempo è condotta un’indagine economica e sociale sulla crisi del settore dell’informazione, vista dall’interno dei service informali del ghostwriting, basati sul principio del subaffitto (la “Rete” è l’agenzia delle agenzie per cui si lavora). Da cui emerge che almeno in serie Z, in nome dei rapporti personali si pagano i collaboratori, a differenza della serie A, che tende a pagare regolarmente solo i professionisti arrivati, lasciando gli altri, la legione pr(ol)ecaria, nell’attesa.
Ma il lavoro non sono solo i soldi. C’è la questione di fare bene comunque, qualcosa che rigurda il piacere del testo e della scrittura, il privilegio di essere letti e «la capacità del testo di scivolare a piombo, inarrestabile, con la facilità di una conversazione da bar e la precisione di un meccanismo di fiction ben oliato».
Complici dell’autrice, attraverso questo intreccio di pulsioni contrastanti rileggiamo i tanti casi di cronaca italiana degli ultimi decenni e scopriamo che alto e basso hanno il confine incerto, che le regole di genere sono le stesse osservate dai criminologi di prima serata in TV e dei quotidiani di classe A. E che la narrazione di fiction stringe in modo indistinguibile la produzione di inchieste giudiziarie e la copertura mediatica scandalistica dei giornali “seri”, in un cortocircuito mediatico tra fiction, cronaca nera e pratica giudiziaria e nel progressivo disarticolarsi della verità in fattuale, mediatica e giudiziaria. Il racconto seriale coincide con la dilazione dei tempi processuali, le inchieste bis funzionano come spin off e le controperizie come colpi di scena. I plot e i frame possono essere classici o eccentrici, ma sono comunque a base di topoi come l’odio intrafamigliare, l’ignoranza atavica, il satanismo di provincia, l’adolescenza maledetta, gli orchi della porta accanto, secondo le esigenze delle ossessioni collettive e delle legge per cui misteri grandi invocano la spiegazione con complotti grandi. Molti osservatori pensano che lo stingere delle regole della fiction su quelle dell’informazione stia riguardando ormai diversi ambiti della comunicazione, come quelli delle campagne o delle maratone elettorali…
L’uscita dalla Rete e l’approdo umano e professionale di Pascarella sono felici: un’intera sezione del libro è dedicata all’uso pubblico della narrazione e della hyper-media litteracy di cui tutti abbiamo bisogno. Pagine in cui vibra l’impegno per una bonifica degli eco-sistemi cognitivi in cui viviamo, come la parte sulla realtà del femminicidio (a dispetto del suo racconto che non lo riconosce come tale) o su come gestire la riabilitazione da cattiva reputazione dei colpiti da stigma social, ambiti che per la giornalista-pirata traggono forza dell’esperienza della frequentazione delle taverne più equivoche.
Su tutto un Caveat lector solca l’intero cantiere da cui queste confessioni provengono, come leggiamo nella gemma nascosta a p. 209, mantra e filastrocca che fa da controcanto alle murder ballads disseminate: «Vivo in un paese che confina per metà con la disperazione e per metà con il mare e crede alle leggende che inventa per dimenticare. Per questo molto spesso non credo a quello che scrivo e nemmeno voi lo dovreste fare».
Fonte articolo: http://www.doppiozero.com/materiali/la-ballata-delle-narrazioni-tossiche