La sicurezza negata nelle città – Luigi Manconi su La Repubblica
Paolo Bonetti, docente di Diritto Costituzionale all’Università Bicocca di Milano, descrive il concetto di sicurezza come una «nozione ambigua». E proprio il dibattito attorno a questa parola, dopo i fatti avvenuti nei pressi della stazione del capoluogo lombardo, sta assumendo caratteri di forte equivocità.
Da anni, ormai, le stazioni delle principali città italiane sono protagoniste di una trasformazione visibile a tutti: tornelli all’ingresso dei binari, divisori sulle panchine, spuntoni in marmo sopra a muretti per impedire la sosta, bagni a pagamento e, ovviamente, bar e locali per lo più inaccessibili a chi ha scarsa disponibilità economica.
Sia alla stazione Termini di Roma, sia alla Centrale di Milano, sia, per esempio, a Santa Maria Novella di Firenze, la trasformazione in atto rende questi luoghi pressoché anonimi e, allo stesso tempo, esclusivi. Nonostante ciò, per quanto respingenti, le stazioni – presupponendole come espressione di una volontà comune – non sono riuscite nel loro intento di allontanare coloro che non hanno un riparo o un luogo dove tornare.
Le cronache di questi giorni hanno raccontato di una ragazza che è stata stuprata nei locali della stazione di Milano da un senza fissa dimora. Sono state tre ore di puro terrore per una giovane franco-marocchina che stava per tornare in Francia. Non si conosceva niente dell’uomo che l’ha aggredita, non aveva documenti con sé e non risultava nel data-base delle forze di polizia: “un fantasma”, così lo hanno descritto i quotidiani.
Quanto è successo e quanto succede tutt’ora nelle nostre città, specialmente nei confronti delle donne, merita una riflessione seria, razionale e, soprattutto, sistemica. Ritenere che basti duplicare i presidi di polizia a ogni angolo, procedere con un rigido controllo di chiunque viva per strada, aumentare la videosorveglianza con il riconoscimento facciale, è una scelta politica che si inserisce nel solco più ampio di provvedimenti governativi emanati sull’onda dell’emotività e della ricerca del consenso.
«Esiste – scrive Bonetti in ‘I nodi giuridici della condizione dei Rom e dei Sinti in Italia’ (2010) – la sicurezza di tutti, quella situazione psicologica in cui si trova chiunque nel godimento dei suoi diritti costituzionalmente garantiti e nei rapporti con i pubblici poteri. Quando invece una persona non è certa del proprio status giuridico, della propria cittadinanza, della propria abitazione, dell’accesso ai diritti sociali, quando, cioè, è oggetto di discriminazioni, di emarginazione lavorativa, di marginalizzazione da parte degli interventi dei pubblici poteri e di stigmatizzazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa, allora nessuno di coloro che vivono in una società può sentirsi sicuro».
Le attiviste che a Milano si occupano di violenza di genere, intervistate ieri da Viola Giannoli e da Miriam Romano su questo giornale, sono state chiarissime a riguardo: non basta militarizzare gli spazi, è necessario un cambiamento culturale e politico che prescinda dalla pura e semplice repressione. Ampliare le reti di sostegno e accoglienza delle donne h24 nelle stazioni, aumentare gli sportelli antiviolenza, garantire l’illuminazione per strada, incentivare corsi di educazione sessuale e al consenso e molto altro ancora. Garantire un contesto sociale che sia sicuro è, sia chiaro, un processo lungo e complesso.
Del resto, lo sanno bene negli Stati Uniti, lì dove la repressione, il riconoscimento facciale e l’incarcerazione di massa sono modelli accettati sia a destra che a sinistra. La casa editrice Alegre ha pubblicato, di recente, un libro che potrebbe dare il via anche in Italia a un dibattito alternativo, che rifugga quella nozione ambigua di sicurezza, che miri a creare le basi di un contesto sociale veramente sicuro per tutti. Angela Y. Davis, Gina Dent, Erica R. Meiners e Beth E. Richie con il loro Abolizionismo. Femminismo. Adesso. ripercorrono la storia del femminismo afroamericano negli Stati Uniti e il legame che intercorre tra le battaglie femministe e quelle abolizioniste (del sistema penale, in prospettiva). Il lavoro di queste autrici, come si legge nel libro, non intende sottovalutare il fenomeno o fingere che le forme di violenza nei confronti dei soggetti più vulnerabili cesseranno.
Emerge la consapevolezza che, mentre si ipotizzano modelli alternativi di giustizia e pace sociale, la violenza di genere continua a permeare le case e le strade delle città. Del resto, scrivono Davis, Dent, Meiners e Richie, «la coscienza politica non è un traguardo ma un processo pedagogico continuo e collettivo», che faremmo bene ad ascoltare anche al di qua dell’oceano.