L’interdipendenza oltre l’incuria del mercato – Monica Di Sisto da “Comune-info”
da Comune-Info
Partiamo da cinque accademiche e accademici che, arrivati a Londra da Grecia, Australia, Stati Uniti, Regno Unito, hanno dato vita al Collettivo per la Cura perché, calati nel Regno Unito dove il processo di mercificazione e privatizzazione della cura è tra i più avanzati, hanno sperimentato il moltiplicarsi di iniziative di mutuo soccorso e reti di solidarietà che continuano a concepire il prendersi cura degli altri come un bene comune, un obbligo morale e un processo collettivo.
Attraversiamo insieme a loro la pandemia, fase in cui l’incuria nei confronti della cosa e della salute pubblica provocata dalle politiche liberiste e di privatizzazione dei decenni precedenti emerge con tutta la sua pericolosità, violenza, e il suo devastante potenziale emarginante e securitario.
Nelle pagine del “Manifesto della Cura, per una politica dell’interdipendenza” tradotto per Alegre da Maria Moise e Gaia Benzi, troviamo una rassegna di legami, comunità, politiche e economia della cura, per prendersi cura del mondo, che costituiscono un prezioso patrimonio di analisi, esperienze e sistematizzazione molto interessanti per chi anche in Italia, come ad esempio l’esperienza di convergenza per una Società della Cura, sta provando a mettere in campo un approccio di “cura indiscriminata e promiscua”, per rispondere all’ennesima crisi di modello con un “principio organizzativo” che riattribuisca anche allo Stato le responsabilità che gli competono.
La prima operazione di presa di coscienza che il Collettivo ci indica come necessaria, è quella relativa all’interdipendenza.
Se spesso la narrativa relativa all’”Italia, brava gente” gronda di familismo e mulini bianchi, la realtà che ci rappresenta il volume è quella che nel 2015, ben prima dell’emergenza Covid, ci restituiva l’Istat.
L’Italia è il paese europeo con la maggior percentuale di persone che dichiarano di non avere nessuno a cui rivolgersi – che siano parenti, amici, vicini di casa o conoscenti – per chiedere aiuto di tipo morale o materiale in caso di bisogno.
Per di più, la povertà è stigmatizzata come colpa individuale, i poveri sono indotti a vergognarsi della loro fragilità e dipendenza, mentre i ricchi si circondano di servizi e persone di servizio e servizievoli, dissimulando con i soldi la propria dipendenza e contribuendo, così, a alimentare l’immagine tossica del vincente come solo al comando.
La società costruita intorno a queste icone vittoriose del presepe post-ideologico è una società dell’incuria: non un effetto collaterale inatteso della riorganizzazione moderna della società, ma funzione di questi dèi capricciosi dei profitti che esigono sacrifici voraci e continui da parte della collettività e del pianeta in termini di riduzioni progressive di welfare, salari, opportunità, diritti, addirittura sopravvivenza.
Il Covid fa emergere la centralità dei lavori di cura: degli ospedali, delle scuole, ma anche di chi assicura le sanificazioni dei mezzi pubblici, delle nostre città, la tenuta dei luoghi di lavoro e delle famiglie.
Non appena l’emergenza si attenua ecco che si torna alla vecchia narrativa del “ma quanto ci costano?”, “siamo in crisi, ce li possiamo permettere?”, e alla centralità della ripresa delle speculazioni e dei profitti più che della coesione sociale e del fare pace col pianeta.
Del resto, fanno notare dal Collettivo, il soggetto archetipico del neoliberismo è l’individuo imprenditore che entra in relazione con gli altri soltanto per competere e migliorare la propria posizione. Il neoliberismo, in altre parole, non possiede né una pratica efficace né di un vocabolario per la cura.
Per questo la tesi del Manifesto di concentra sulla cosa pubblica: le pratiche non mancano, emergono costantemente in emergenza e nel lento scivolare della classe media globale verso la povertà di mezzi e di spirito.
Abbiamo urgentemente bisogno di politiche che mettano la cura al primo posto, che riconoscano e accolgano la nostra interdipendenza non affidandola a soluzioni “di mercato”, cioè alle innumerevoli “aziende della cura” pensate da chi ha i soldi per i propri (pochi) pari grado, e ostentate a tutti gli altri “come premio” per chi sceglie, secondo modello, di abbracciare l’incuria nei confronti degli altri come potenziale competitivo.
La cura ossessiva “per ciò che ci appartiene” a spese di tutti gli altri che siano fuori dalla nostra cerchia, dalle nostre mura, dal nostro orizzonte immaginario che nega l’evidenza dell’interdipendenza fino all’ossessione negazionista.
Le nuove politiche della cura indicate nel Manifesto superano il modello dell’”universal caregiver”, il “datore di cura universale” formulato dalla teorica femminista Nancy Fraser per archiviare l’archetipo del percettore di reddito, uomo o donna, stimolati a accumulare un eccesso di lavoro come misura della propria realizzazione.
La cura, secondo le dieci mani del Collettivo, deve essere posta al centro di ogni aspetto della vita, dove tutti siamo responsabili in maniera collettiva del lavoro di cura, sia a livello quotidiano, sia nella sua accezione di sostegno necessario per la tutela delle comunità e del mondo intero.
Nella pratica non significa, spiega il Collettivo, che “tutti devono fare tutto”. Significa dare centralità agli strumenti sociali, istituzionali e politici che ci consentono di potenziare le nostre capacità di cura reciproca e di rigenerare il mondo naturale anziché saccheggiarlo.
Un progetto politico di questa capacità innovativa deve poggiare, concretamente, nei territori, su comunità di cura caratterizzate da quattro elementi fondamentali: il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità.
Alcune di queste pratiche rimarranno inevitabilmente informali, ma altre devono essere assunte e praticate dal pubblico a partire dalle amministrazioni locali, pena il rischio continuo di spoliazione e sfruttamento a fini non condivisi di innovazioni, spazi, creatività delle comunità.
Chi si è assunto questa responsabilità politica – e nel Manifesto si citano le esperienze di Preston, nel Nord Ovest dell’Inghilterra e di Cleveland in Ohio, ma anche del Comune di Barcellona – ha spostato fette ingenti di spesa pubblica dalle grandi aziende appaltatrici ai fornitori locali e alle cooperative di comunità.
Sceglie la coprogettazione rispetto ai bandi, internalizza nel perimetro pubblico i servizi essenziali in modo da garantirli universalisticamente con criteri solidali, dialoga, si confronta, accetta la sfida della trasparenza e della coprogrammazione.
Il Manifesto ci spinge a sorpassare a sinistra una visione classicamente Keynesiana dell’economia dello Stato, facendo evolvere il concetto di Stato sociale in quello di Stato di cura che abbandona il paternalismo e i suoi meccanismi di sfruttamento di genere, etnico o razziale nella priorità del “far quadrare i conti”, e dell’investimento pubblico “dall’alto verso il basso”, garantendo una dimensione orizzontale e di comunità anche attraverso un rapporto tra i diversi livelli di governo basato sulla mutua responsabilità, soprattutto soggetto a continuo dibattito e rinegoziazione.
L’economia che ci serve per alimentare questo nuovo progetto di società considera necessario abbattere il feticismo del mercato, per ricollegare i consumatori con i produttori, e i destinatari della cura con chi la fornisce.
I passaggi irrinunciabili a questo scopo, secondo gli estensori del Manifesto, prevedono di cominciare col portare i nostri sistemi di cura fuori dal mercato capitalista, in tutta la loro eterogeneità e complessità. dobbiamo ri-regolarli, assicurandoci che siano le persone e il pianeta a beneficiare della loro funzione distributiva, e non la classe capitalista.
Questa riconfigurazione può assumere diverse forme, secondo il Manifesto: delle cooperative, della nazionalizzazione, del municipalismo progressista, della localizzazione dell’internalizzazione o di partenariati pubblico‑comune.
Sono tutti modi in cui i nostri mercati e mezzi di produzione e consumo possono essere collettivizzati, socializzati e democratizzati.
Attraverso queste e altre strategie possiamo assicurarci che i consumatori tornino in contatto diretto con i produttori, chi riceve cura con chi la fornisce.
Dobbiamo “defeticizzare” il mercato: rimettere al primo posto le relazioni sociali rispetto alle relazioni tra merci, sostituire il valore della cura al valore di scambio.
Un progetto ambizioso e non più rinviabile, che ha bisogno di più di dieci mani di studiose e studiosi. Il suo successo ci saprà mostrare chi saremo dopo il Covid, ha bisogno della nostra forza e volontà di convergere senza annullarci, di fare sintesi e spingere per un obiettivo più alto e urgente: resistere, riconoscerci e farci (meglio) rappresentare. Per cambiare senza più assolverci, e farci bastare di averci solo provato.