Prendetevi cura delle persone e del mondo – Alberto Prunetti da “Ribalta”
da Ribalta
Mi trovo nella situazione migliore per leggere (e sperimentare) questo bellissimo libro edito da Alegre: il Manifesto della cura scritto a più mani da The Care Collective. La mia sposa è ospedalizzata da quasi due settimane (non per il covid) e io mi prendo cura di mia figlia. Lo facevo anche prima, in un contesto di cogenitorialità, ma adesso devo fare davvero tutto io: da tagliarle le unghie a pulirle il sedere a fare con lei i compiti e poi le lavatrici.
Le persone mi incontrano per strada e mi fanno i complimenti dicendo che sono un “mammo” o un “padre coraggio”. Mi chiedo se avrebbero fatto la stessa cosa con mia moglie se ci fossi stato io in ospedale. Probabilmente no: darebbero per scontato che lei, donna, deve “naturalmente” prendersi cura di sua figlia e chiederebbero piuttosto “E Alberto come sta in ospedale?”.
Che una donna da sola si prenda cura della figlia è nell’ordine delle cose. Se lo fa un maschio è uno scandalo oppure un miracolo, a seconda dei punti di vista: “Ma come fai?”, “Ma la bimba deve stare male senza la mamma, poverina”, “Che forza, devi avere i superpoteri per resistere in un momento del genere”. Momenti che le donne da sempre affrontano da sole, penso io. E dopo rapidi saluti che mi chiedono di girare alla moglie, subito si preoccupano non di lei, allettata, ma di me, che sto in piedi davanti a loro. Perché sembra che sono io quello “malato”, costretto a fare cose così poco “maschili” come prendersi cura di mia figlia. “Ma come fai a tagliarle le unghie?”, e io rispondo: “Con le forbici. E il culo glielo pulisco con la carta igienica, sapete? Incredibile cosa possa fare un uomo, vero?”.
A quel punto le strade si divergono, in chi mi sta di fronte: chi mi invita a mercificare la cura, invocando una babysitter (“hai soldi? Te li do io, altrimenti”); oppure a familiarizzare la cura: “Non avete i parenti vicini, come fate, senza la famiglia?”, dove per famiglia si intende sempre che a tagliare le unghie alla bambina sia una donna, ovviamente, meglio se consanguinea. Sia mai lo faccia un maschio, che poi si ritrova distratto dagli eroici furori o dal mansplaining.
Insomma, leggetevi questo libro. Così capirete che da un lato la cura è sì un atto di amore, ma è anche un lavoro di riproduzione sociale e come tale purtroppo contiene una dimensione di sfruttamento oppressiva. E che lo sfruttamento non si combatte con la mercificazione liberista o col familismo feudale. Non si risolve con le zie e le babysitter, insomma, ma con la socializzazione.
Ma allora chi mi aiuta? La scuola, che per fortuna in Toscana è ancora aperta. E dopo sì, le reti di mutuo-aiuto. Le reti di vicinato e di “compagnanza” scolastica. È la socializzazione della cura quel che serve, non il modello liberale che la mercifica o quello mediterraneo che lo scarica su altre donne consanguinee, così che la cura “rimanga in famiglia”. Quel che serve è una cura ibrida, “promiscua”, come si scrive in questo libro, e socializzata.
E allora leggiamo il Manifesto della cura e lottiamo per socializzare questa dimensione importante del vissuto, per non cederla al neoliberismo o al feudalismo. Per condividerla nella lotta e nell’amore. Prendetevi cura delle persone e del mondo: siate femministe, siate femministi, siate antirazzisti, lottate per l’eguaglianza e la giustizia sociale. È l’aiuto migliore che potete darmi, perché si traduce in più asili, più scuole pubbliche, più ospedali, più circuiti di solidarietà. Nella cura socializzata, insomma, l’aiuto che serve a tutte e tutti.
(E grazie a Sara Farris per l’introduzione e a Marie Moïse e Gaia Benzi per la traduzione. Per la cura che hanno dedicato a questo testo).