Sabina Morandi su Liberazione
di Sabina Morandi
Alcuni sono andati in guerra perché ci credevano davvero, altri invece ci sono rimasti incastrati. L’altra faccia del conflitto in Iraq emerge dalle lettere raccolte nell’arco di un anno sul sito dei familiari dei militari, “Military families speak out” (letteralmente: Parlano le famiglie dei militari), e di quelle comparse sul sito di “Bring them home now! ”
«Sono stata arrestata mentre marciavo da Lafayette Park verso i cancelli della Casa Bianca. Io, mia sorella, alcuni rappresentanti di Gold Star Families for Peace e alcuni membri dell’associazione Military Families. Non hanno nemmeno voluto consegnare le lettere e le fotografie dei nostri ragazzi morti in guerra». A parlare è Cindy Sheehan, la “madre coraggio” che ha deciso di usare il proprio dolore per squarciare il velo di censura che copre ogni informazione relativa ai militari in Iraq e alle loro famiglie.
Cindy ha perso il figlio nel 2004 a Sadr City, e ora pretende risposte sulla “nobile causa”, come l’ha definita Bush, dell’ennesima sporca guerra, e andrà avanti nella sua battaglia se necessario fino alla galera prevista per chi rifiuta di pagare i 75 dollari di multa per manifestazione non autorizzata.
In Riportiamoli a casa – il dissenso militare nelle forze armate statunitensi, edito dalla giovane cooperativa giornalistica Edizioni Alegre e che sarà il edicola con Liberazione sabato 15 ottobre, ci sono anche le sue lettere insieme alle invettive, le riflessioni, gli interventi pubblici, i comizi e soprattutto le testimonianze di prima mano dei ragazzi spediti al fronte insieme a quelle dei commilitoni, degli amici e dei parenti che Phil Rushton ha raccolto nel libro.
C’è chi è partito perché ci credeva davvero e chi invece c’è rimasto incastrato. Ragazze come la figlia di Adele Kubein, entrata nella Guardia Nazionale per pagarsi la specializzazione in biologia marina, che si ritrovano con una mitragliatrice in mano. C’è la moglie che chiede conto a Bush del marito appena tornato «senza pezzi di corpo» e ci sono le invettive di un padre disperato, che non riconosce più il suo ragazzo nel «reduce di appena vent’anni, vecchio prima ancora di cominciare a vivere». Ci sono i figli dei pacifisti degli anni Sessanta partiti quasi per far dispetto ai genitori e gli immigrati appena sbarcati negli States arruolati per avere accesso alla mitica Green Card.
Tutti quanti però, una volta giunti sul fronte, sono stati costretti a riscoprire l’antica verità di ogni guerra: poveracci che sparano su altri poveracci, nel tentativo di portare a casa la pelle.
E’ davvero l’altra faccia del conflitto iracheno quella che emerge dalla lettura di un libro piccolo, ma dal peso specifico davvero consistente. Sono le lettere raccolte nell’arco di un anno sul sito dei familiari dei militari, Military Families Speak Out (letteralmente: Parlano le famiglie dei militari), e di quelle comparse sul sito di Bring Them Home Now!, ovvero, Riportiamoli a casa adesso, lo slogan della campagna di cui fanno parte numerosi gruppi, dai Veterani del Vietnam contro la guerra a Soldato cittadino, passando per i Veterani per la pace, in prima linea nel soccorrere gli abitanti poveri di New Orleans. Presenti insomma tutte le realtà del pacifismo statunitense fra i militari, ovvero il pacifismo più pericoloso per Bush e compagnia, come scrive Piero Sansonetti nella prefazione, ma che vanta in America una lunga tradizione – una storia poco nota, raccontata nelle ultime pagine del libro.
E sono davvero pericolose, per la cricca che siede alla Casa Bianca, queste parole di prima mano che riportano una realtà quotidiana spaventosa, non addomesticata dalla censura – anche se la censura ha già colpito pesantemente condannando questi racconti a non uscire dal libero ma limitato mondo della rete telematica. Ma la testimonianza delle violenze e della brutalità delle truppe occupanti, quando arriva per bocca degli stessi colpevoli, rende perfettamente idea delle devastazioni psichiche di migliaia di ragazzini quasi impuberi trasformati in spietati carnefici.
Un vero e proprio dramma sociale, quello dei reduci disadattati, traumatizzati e spesso mutilati (grazie ai giubbotti anti-proiettile in Iraq l’esercito Usa contiene le perdite rispetto ad altre guerre, ma registra un numero esorbitante di feriti), descritto negli innumerevoli film hollywoodiani dedicati alle altrettanto innumerevoli guerre sporche scatenate dall’Impero nell’ultimo secolo.
Ma non è tanto la descrizione dei traumi psicologici – o del dolore e della rabbia dei familiari – né le analisi – puntuali, accurate, taglienti – di Stan Goff, soldato in pensione fra i coordinatori nazionali della campagna Bring Them Home Now!, né i primi tentativi di dare vita a una sorta di internazionalismo dell’obiezione di coscienza alla guerra, come la toccante lettera inviata da un obiettore di coscienza israeliano – un refusenik – a un marine statunitense che si è rifiutato di combattere in Iraq. A rendere il dissenso militare così minaccioso per l’establishment, è l’immagine di un esercito impreparato e fatiscente che emerge dalle parole dei soldati al fronte. Più che una trionfale macchina da conquista, il nuovo modello di difesa partorito dalla mente di Donald Rumsfeld sembra un discount della guerra, e le testimonianze di prima mano sono un vero e proprio atto d’accusa contro la politica del subappalto giocata sulla pelle degli adolescenti in divisa. «Vorrei sapere perché i nostri militari sono costretti a comprare con i propri soldi le protezioni per le ginocchia, i gomiti, le spalle e via dicendo» scrive il padre di un soldato l’11 gennaio 2004 «Perché le scorte sono finite? Stanno perfino comprando alcuni pezzi dell’attrezzatura per l’artiglieria». Rancio scadente, carne marcia, armi difettose: è questo l’esercito che dovrebbe conquistare il mondo? Assomiglia piuttosto alla punta dell’iceberg di una colossale e sanguinosa truffa pensata per fare arricchire poche aziende amiche – Halliburton, Betchel, Kellogg, tanto per citare le più note – a spese di un’intera generazione di giovani iracheni e di una fetta consistente di quelli americani.