Sfuggire alla cattura delle élite – Cinzia Arruzza intervista Olúfẹ́mi Táíwò su “Jacobin Italia”
Cinzia Arruzza – Jacobin Italia – 29 Ottobre 2024
Nel suo libro La cattura delle élite, appena tradotto in italiano, il giovane filosofo afroamericano Olúfẹ́mi Táíwò cambia la consueta e poco produttiva prospettiva delle polarizzanti discussioni intorno alle «guerre culturali» e le «politiche delle identità». Attingendo dalla tradizione del pensiero anticoloniale, mostra infatti quanto il concetto di identity politics oggi in voga sia molto distante da quello introdotto negli anni Settanta dal Collettivo femminista nero Combahee River. Indica però come causa di questa degenerazione non l’attivismo antirazzista contemporaneo ma le élite liberali dominanti: quel concetto è divenuto infatti preda della «cattura delle élite», che – come per altri contenuti politici radicali – spogliano le identità del loro potenziale di liberazione per utilizzarle a proprio vantaggio.
In questo dialogo con Cinzia Arruzza, professoressa di filosofia alla Boston University e tra l’altro autrice, con Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, di Femminismo per il 99%, discute di come i movimenti sociali possano riconoscere e sfuggire alla «cattura», e di quanto questo processo possa servire a interpretare le dinamiche della campagna elettorale per le elezioni presidenziali americane.
Nel tuo libro descrivi e analizzi i processi attraverso i quali le élite sono in grado di «catturare» i concetti politici radicali, compreso quello della politica delle identità. Ma insisti anche sul fatto che il problema non risiede nelle identity politics in sé e che qualsiasi tipo di progetto di trasformazione sociale può in linea di principio essere catturato (si pensi al movimento sindacale statunitense, per esempio). Qual è l’antidoto a questi processi? Esiste un antidoto o sono inevitabili?
Il movimento sindacale statunitense può essere considerato da alcuni un esempio di cattura delle élite, forse a causa della sovrapposizione dei sindacati statunitensi con il «sindacalismo d’impresa», con una leadership forse troppo contigua ai padroni e troppo avversa alle azioni di sciopero. Ma prendiamo, ad esempio, la recente svolta all’interno dello United Auto Workers (Uaw): un caucus riformista all’interno del sindacato ha costruito una sfida dal basso alla leadership consolidata in ogni sezione locale e alla fine ha presentato una lista per conquistare la direzione dell’intero sindacato. Il risultato è stato un sindacato con una nuova militanza che l’anno scorso ha lanciato uno sciopero storico, che ha strappato importanti concessioni alle grandi aziende automobilistiche, chiedendo esplicitamente ai sindacati di altri settori di costruire uno sciopero generale nel 2028 per cercare di ottenere ancora di più al momento del futuro rinnovo del contratto. Quindi, anche se non direi che esiste un «antidoto» alla cattura delle élite, ci sono culture e forme organizzative che sono più efficaci nel limitare il ruolo dei membri più carismatici, potenti o dotati di risorse all’interno di un dato movimento: compreso il tipo di politica dal basso che ha puntato a ricostruire l’Uaw in una direzione diversa. Questo è un buon esempio di ciò che nel mio libro definisco «politica costruttiva»: degli sforzi per costruire o ricostruire istituzioni per raggiungere obiettivi concreti.
Per la prima volta nella storia degli Stati uniti, una donna nera di origine indiana è candidata alla presidenza. Questo è stato salutato in tutto il mondo come un momento storico e di trasformazione. È così? Oppure si tratta di un chiaro caso di «cattura delle élite»? Basta pensare, ad esempio, al fatto che Kamala Harris sta provando ad accaparrarsi il voto Repubblicano «moderato», scaricando invece immigrati e palestinesi…
Penso che sia effettivamente un momento storico, il che ovviamente non lo rende necessariamente un momento stimolante per la nostra parte politica. La politica del XX secolo avrebbe sicuramente escluso la possibilità che una donna nera come Harris potesse essere una candidata credibile alla più alta carica del paese: il fatto che possa vincere, proprio come il fatto che prima di lei abbia vinto Barack Obama, dimostra che c’è un vero cambiamento nella politica del XXI secolo rispetto a quella del XX.
Detto questo, si può sostenere che la candidatura di Harris rappresenti un caso di «cattura delle élite», nel senso che rappresenta un ulteriore radicamento dell’élite politica nera nell’élite politica statunitense più generale, il che non è un’accusa da poco dato che anche i livelli più alti della politica nera negli Stati uniti hanno avuto una posizione esplicitamente di opposizione rispetto all’establishment politico più ampio. Tuttavia, credo che la candidatura di Obama e quella di Harris siano significativamente diverse tra loro da questo punto di vista: Obama si è descritto come un «organizzatore di comunità» che si è poi orientato verso la politica elettorale, il che contribuisce all’accusa che lui abbia rappresentato un processo di cooptazione dell’energia dei movimenti di base della sinistra da parte dell’establishment politico. Mentre, nonostante i legami con una potente sorellanza afroamericana e la sua laurea alla Howard University, storicamente nera, le conferiscano un certo status di insider culturale, dal punto di vista politico Kamala Harris era una figura già assolutamente interna all’establishment: le sue credenziali sono infatti incentrate sul suo precedente ruolo di «top cop» (procuratore generale) della California.
Ritieni che il continuo sostegno materiale, militare e politico del Partito democratico statunitense al genocidio in Palestina possa incrinare la sua capacità di catturare le identity politics attraverso il withewashing della nozione di «diversità»? Le contraddizioni di questo approccio non sono forse sempre più visibili, visto che le vite delle persone palestinesi e arabe sono apertamente ritenute sacrificabili?
No, penso che il continuo sostegno del Partito democratico al genocidio non cambierà la sua capacità di catturare le politiche dell’identità, del resto le sue contraddizioni erano già molto evidenti nella Guerra contro il Terrorismo all’estero e in patria, e nella totale capitolazione alla politica della polizia anche dopo il meritevole sostegno simbolico a Black Lives Matter sulla scia delle proteste del 2020. I Democratici sono in grado di persistere nella loro capacità di cattura per una semplice e noiosa ragione di cui noi negli Stati uniti ci lamentiamo ogni quattro anni: il sistema a due partiti, combinato con la svolta sempre più di estrema destra del Partito repubblicano, rende i tentativi dei progressisti e/o della sinistra di migliorare quel partito simili ad atti di autolesionismo.
La politica delle identità è spesso criticata, da sinistra, perché rende molto più difficile la solidarietà tra diverse comunità. Secondo questa critica bisognerebbe invece astrarsi da ciò che ci differenzia e potenzialmente ci divide e concentrarsi, invece, su ciò che abbiamo in comune. Qual è la tua risposta a questo punto di vista?
L’idea che dovremmo astrarre da ciò che ci differenzia e potenzialmente ci divide e concentrarci su ciò che abbiamo in comune può sembrare ottima sulla carta. Forse qualche generazione fa poteva esserci qualche motivo di ottimismo sul fatto che il risultato di questa procedura di astrazione avrebbe portato a un’attenzione alla categoria «del lavoratore e della lavoratrice», e che a sua volta questa tendenza avrebbe portato alla sedimentazione di una solidarietà costruttiva e di una politica umana basata su di essa. Ma se chiedeste oggi ai palestinesi o agli israeliani quale sia la «vera» divisione sociale e quale sia quella illusoria, quanti di loro vi risponderebbero che si tratta della divisione tra coloro che possiedono il capitale e coloro che possiedono solo il proprio lavoro piuttosto che, ad esempio, tra coloro che possiedono le alture del Golan e chi invece possiede solo il proprio corpo (e, con il progredire del genocidio, forse neanche questo)?
Non essendo stato in Medio Oriente, non ho idea di quale sia la risposta. Ma se gli israeliani o i palestinesi non danno una risposta sufficientemente universalistica, non credo che la colpa sia delle identity politcs, un’innovazione concettuale apportata da un piccolo collettivo femminista socialista nero nella Boston degli anni Settanta.
Immagino che Marx avesse in mente proprio questo tipo di problema quando disse che «la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi», un pensiero che introdusse notando che non facciamo la storia «in circostanze che scegliamo da noi, ma in circostanze già esistenti, date e trasmesse dal passato». Non possiamo far finta che le identità sociali che definiscono i conflitti politici del nostro tempo non esistano, così come non possiamo far finta che non esistano le condizioni politiche che rendono rilevanti quelle categorie. Immagino che la rilevanza della distinzione tra le categorie «identitarie» di israeliano e palestinese sarà oggetto di rinegoziazione quando il rapporto politico tra Israele e Palestina sarà risolto ma, sospetto, non un momento prima.
In Palestina, ovviamente, la posta in gioco politica materiale che spiega perché le persone possano tracciare le categorie identitarie di «israeliano» e «palestinese» piuttosto che semplicemente «operaio» e «capitalista» non potrebbe essere più chiara. Ma la posta in gioco materiale tra «bianco» o «nero», «musulmano» o «indù», «colono» e «indigeno» non è da meno. È possibile riconoscere l’importanza politica sia delle categorie condivise sia di quelle che non lo sono. È questo il ruolo delle parti del mio libro in cui analizzo un esempio storico concreto: il Partito Africano per l’Indipendenza di Capo Verde e della Guinea-Bissau (Paigc). Questo gruppo si organizzò sia attraverso categorie religiose, etniche e nazionalità diverse, ma anche attraverso obiettivi comuni: la lotta per l’indipendenza contro l’impero portoghese. In ultima analisi, almeno per Amílcar Cabral, questo metteva i rivoluzionari e il popolo portoghese dalla stessa parte di una lotta comune, che comprendeva anche i prigionieri di guerra portoghesi. Tutti costoro avevano un interesse comune nella liberazione dalla dittatura fascista che deteneva il potere in Portogallo. E in ultima analisi, dal punto di vista della storia mondiale, la lotta per la liberazione basata sullo status coloniale che differenziava i capoverdiani e i guineani di Bissau dai portoghesi è ciò che portò sia all’indipendenza delle colonie africane del Portogallo sia alla sconfitta del regime dell’Estado Novo nella Rivoluzione dei Garofani.