La morte di Roberto Franceschi e il coraggio di mamma Lydia: “Così ho lottato per avere giustizia” – Silvia Morosi dal “Corriere della Sera”
Il giovane ventenne fu ucciso all’angolo tra via Bocconi e via Sarfatti, a Milano, il 23 gennaio 1973. Iscritto al secondo anno della facoltà di Economia e Commercio, aveva da sempre unito all’impegno nello studio la passione per la politica. Ora un libro del collettivo N23, curato da Claudio Jampaglia, ricorda la sua vicenda e la battaglia della madre per ricostruire l’accaduto e chiarire le responsabilità delle forze dell’ordine
Testi di Silvia Morosi/ Citazioni dal libro di Claudio Jampaglia e del collettivo N23 / Grafica Fabio Mascheroni Grafici Corriere
«Dottor Franceschi, mi scusi per l’ora, è meglio se venite al pronto soccorso del Policlinico. Roberto ha avuto un incidente». È Mario a rispondere al telefono quel martedì sera. Lui, sua moglie Lydia Buticchi e la figlia Cristina sono appena tornati da teatro. Il telefono ha già squillato una volta ma, ancora fuori dalla porta, non sono riusciti a trovare le chiavi di casa in tempo. È il 23 gennaio del 1973, al Quirinale siede Giovanni Leone, al governo da pochi mesi è tornato Giulio Andreotti. A Milano fa freddo: il ricordo della strage di piazza Fontana è ancora vivo, quello dell’attentato alla Questura non è ancora scritto nelle pagine nere della città. Quella sera gli «Anni di piombo» bussano alla porta di casa Franceschi. Oggi quei giorni tornano a vivere proprio nelle parole di Lydia, raccolte nel libro Perché non sono nata coniglio del collettivo N23 e curato dal giornalista Claudio Jampaglia (edizione Alegre). La storia di una madre che perde un figlio e lotta per la giustizia, anche quando dietro la giustizia si nasconde lo Stato e la battaglia appare impari.
Nell’Italia del fermento culturale e della rivoluzione dei costumi, delle conquiste dei diritti civili e dell’avanzata delle sinistre, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del XX secolo il Paese vive quelli che vengono chiamati “Anni di piombo”, espressione ripresa dall’omonimo film diretto da Margarethe von Trotta (1981) che metteva al centro l’esperienza storica analoga e contemporanea vissuta dalla Germania Ovest. L’onda del Sessantotto è ancora viva, gruppi eversivi di destra e sinistra mettono in discussione e minacciano con attentati, stragi e uccisioni l’intera istituzione repubblicana e gli uomini che la difendono. Sono gli anni della “perdita dell’innocenza” dell’Italia repubblicana, che da quel momento è travolta da più di un decennio di violenza terroristica alla quale la politica non sa trovare subito una risposta. Le Brigate Rosse dopo la campagna di sequestri di uomini legati alle fabbriche rapiscono nel 1974 il magistrato Mario Sossi, mentre le sigle di estrema destra nello stesso anno portano avanti la “Strategia della tensione”, e compiono le prime stragi come quelle dell’Italicus e di Piazza della Loggia. L’idea è quella di bloccare l’evoluzione della società con il terrore.
Studente modello sin dal Liceo scientifico «Vittorio Veneto», Roberto Franceschi è iscritto al secondo anno della facoltà di Economia e Commercio della Bocconi, con un libretto pieno di trenta. Allo studio ha sempre unito la passione politica, e quel 23 gennaio a un’uscita di famiglia (c’era un biglietto anche per lui) preferisce la militanza. Il Movimento Studentesco vuole tenere presso l’ateneo un’assemblea, aperta anche ai lavoratori: incontri del genere sono già stati autorizzati, non hanno mai portato a nessun incidente e, nel caso specifico, si tratta di chiudere una discussione iniziata alcuni giorni prima. Il rettore Giordano D’Amore decide, però, che all’assemblea possano prendere parte solo gli studenti iscritti, mostrando il libretto universitario, e per imporre il rispetto della decisione chiama un reparto di Polizia. La notizia del divieto scatena le proteste e, mentre la folla si allontana per rientrare allo studentato, c’è uno scontro e partono dei colpi. Ad essere colpite, alle 22.40, alle spalle, sono due persone, un operaio e uno studente: Roberto Piacentini della Cinemeccanica, alla schiena; Roberto Franceschi, alla testa. In condizioni disperate, dopo essere stato soccorso da alcuni compagni, viene portato al Policlinico. Sarebbe morto dopo una settimana in stato vegetativo, il 30 gennaio 1973. Il 31 gennaio, in prima pagina, il Corriere della Sera di Piero Ottone riporta la notizia in un trafiletto sulle pagine del nazionale, e in modo più ampio nella sezione milanese: «Si è spento ieri alle 15.30 al Policlinico di Milano Roberto Franceschi, lo studente ventunenne della Bocconi che martedì 23 gennaio scorso era stato raggiunto alla nuca da un proiettile esploso dalla polizia, nel corso di un breve ma violento scontro fra dimostranti e forze dell’ordine, davanti all’ateneo. L’agonia del giovane è durata sette giorni… La salma del giovane è stata traslata all’obitorio, dove sarà sottoposta ad autopsia. L’indagine necroscopica consentirà ai periti, soprattutto, di esaminare il proiettile mortale, al fine di accertarne senza ombra di dubbio la provenienza». Il quotidiano di via Solferino seguirà le vicende, dando spazio anche agli scontri che animeranno la città nei giorni seguenti.
Egli non ha mai ripreso conoscenza dopo essere stato colpito alla nuca da un proiettile di pistola. Sarebbe morto dopo poche ore, se non fosse stato mantenuto in vita dal respiratore automatico in quanto il protettile — come probabilmente rileverà l’autopsia — aveva leso anche i centri cerebrali che controllano la respirazione… La scienza ha fatto tutto il possibile per mantenere in vita lo studente, ma ci si domanda se erano proprio necessari questi sforzi… Ma al di là delle questioni legali e scientifiche su ciò che deve intendersi per morte, c’era e c’è sempre un principio deontologico che ispira il medico nelle sue decisioni di tentare l’impossibile, anche quando la situazione appare senza alcuna speranza se questo non causi sofferenza al paziente… II povero Roberto Franceschi, dal momento in cui fu colpito alla nuca, è caduto come in un sonno profondo privo anche di sogni. Perciò non ha sofferto per la sua lunga agonia. Almeno la sofferenza fisica gli è stata risparmiata.
1 febbraio 1973, accanto all’articolo di cronaca che dà la notizia
della morte di Franceschi, siglato B.L.
La Polizia, inizialmente, parla di un sasso lanciato dai manifestanti che avrebbe colpito il giovane, ma ben presto è «costretta» ad ammettere che gli agenti hanno aperto il fuoco. Nei primi giorni si fa strada anche l’ipotesi, poi smentita, che anche un civile abbia aperto il fuoco e che un agente sia stato colto dallo choc dopo il lancio di una molotov. Ma le versioni che si susseguono nei primi giorni sono contrastanti. Scrisse Camilla Cederna in Sparare a vista. Come la polizia del regime Dc mantiene l’ordine pubblico (Feltrinelli, 1975): «Reticente la versione del Corriere secondo il quale “sarebbero stati esplosi colpi di arma da fuoco”; falsa quella del Giorno che racconta come “alcuni studenti si sono affollati all’entrata e sembra proprio che in questo drammatico momento il giovane Franceschi sia rimasto schiacciato dalla calca”. La Notte insinua che a Franceschi abbia sparato “qualche provocatore infiltratosi tra gli studenti”; l’Unità invece scrive: “Uno studente in gravissime condizioni. Secondo il Movimento studentesco è stato raggiunto da un colpo d’arma da fuoco”».
È stato interrogato a Milano dal magistrato inquirente. L’inchiesta giudiziaria per i sanguinosi incidenti davanti all’università Bocconi è proseguita ieri con l’interrogatorio dell’agente Gianni Gallo. Il poliziotto è stato sentito dal magistrato inquirente all’ospedale di Baggio, dove si trova ricoverato, ma non ricorda nulla di quanto è successo la sera del 23 gennaio scorso. La sua memoria si è bloccata al momento in cui la «jeep» su cui si trovava venne raggiunta da una bottiglia incendiaria. L’agente non è stato in grado di dire all’inquirente se ha sparato oppure no. Allo stato egli sarebbe indiziato di omicidio colposo e lesioni colpose, rispettivamente, per la morte dello studente Roberto Franceschi e il ferimento dell’operaio Roberto Piacentini. Stamane, intanto, verrà eseguita l’autopsia sulla salma del Franceschi… Oltre che nei confronti del Gallo sarebbero state emesse dal magistrato una decina di comunicazioni giudiziarie che riguarderebbero, oltre a funzionari e agenti di polizia, anche alcune persone che avrebbero fatto parte del gruppo di dimostranti che assalì, con lancio di sassi e di bottiglie incendiarie, le forze di polizia. A Milano si è avuto ieri un altro episodio inquietante nel sempre più travagliato mondo della scuola. Una insegnante dell’istituto tecnico per geometri e ragionieri «Cattaneo» è stata spinta da alcuni allievi ed è ruzzolata per le scale, riportando escoriazioni. La professoressa aveva avuto poco prima un vivace contrasto con gli stessi studenti in quanto voleva fare togliere due bandiere rosse esposte nella scuola.
Prima pagina del Corriere della Sera, 2 febbraio 1973
Il 3 febbraio 1973 una folla immensa e silenziosa partecipa ai funerali di Roberto. Oltre ai familiari e agli amici, ci sono anche l’allora sindaco ed ex partigiano Aldo Aniasi; il presidente della Camera (e futuro presidente della Repubblica) Sandro Pertini; i membri della Federazione milanese del Psi e alcuni dirigenti dei sindacati; giovane dirigente socialista Bettino Craxi; l’ex partigiano e deputato dell’Assemblea Costituente Alcide Malagugini e altre personalità politiche. «Folla silenziosa e commossa ai funerali dello studente», titola la prima pagina dell’edizione milanese del Corriere della Sera del giorno dopo.
«Decine di migliaia di persone, soprattutto giovani, hanno seguito il feretro dalla Bocconi a piazza Santo Stefano, ma non mancavano rappresentanze di operai, cittadini di diversa età e condizione», riuniti per l’ultimo saluto a «Roberto Franceschi, l’allievo della Bocconi ucciso da un proiettile sparato dalla polizia», scrive Luciano Visentin. «Nell’atrio più interno dell’università, intanto, i parenti di Roberto Franceschi immobili davanti alla bara, davano l’impressione di voler prolungare il momento dell’estremo commiato. Il feretro era circondato di ghirlande di rose, garofani, papaveri: tutti fiori rossi, così com’erano rossi i drappi alle pareti e le bandiere abbrunate che facevano corona. “Tutti devono morire” — questo il pensiero di Mao scritto a grandi lettere su un foglio affisso a una parete — “ma non tutte le morti hanno uguale valore. La morte di alcuni ha più peso del monte Tai…».
Il primo processo nei confronti degli assassini di Franceschi si apre solo nel maggio del 1979, a sei anni di distanza dall’omicidio, e porta all’assoluzione di quasi tutti gli imputati. La vicenda giudiziaria si protrae per oltre vent’anni, al termine dei quali sono stabilite responsabilità da parte del corpo di polizia ma non il nome dell’assassino. Solo nel 1999 la famiglia Franceschi ottiene un risarcimento in denaro con cui finanzia una fondazione intitolata al giovane militante ucciso. Intanto, sul Corriere del 15 febbraio del 1973, i genitori Roberto, Lydia e Mario, hanno scritto una lunga lettera per chiedere giustizia.
La rabbia è un sentimento al quale il dolore non lascia molto spazio. Ma essa cresce col passare dei giorni e accompagna il nostro disperato sforzo di dare ancora un senso a questa vita. Dopo la severa e commovente partecipazione di tanti giovani al funerale di Roberto, preceduta e seguita da continue manifestazioni di affetto e conforto verso di noi, abbiamo sentito che potevamo ancora accettare con qualche serenità i giorni che ci restano solo coltivando nella coscienza e nel cuore gli ideali cui Roberto aveva scelto di dedicare la sua vita, solo vedendoli riflessi nella vita di nostra figlia e di migliaia di altri giovani, solo offrendo alla memoria la nostra volontà di farla rispettare. La notizia che un altro magistrato della Procura della Repubblica è stato, in così breve tempo, esautorato dall’inchiesta giudiziaria, fa crescere in noi la rabbia e l’angoscia di non poter neppure contribuire, con la nostra presenza, con la partecipazione al giudizio, a rendergli in qualche modo giustizia. Noi parliamo di ideali, Roberto avrebbe detto lotta di classe. Vorremmo poter dire che abbiamo ragione anche noi, che una società democratica si distingue per gli ideali, o i principi, che persegue e realizza nell’interesse di tutti malgrado il conflitto delle classi. Uno di essi è la giustizia. Tragica giustizia, per noi, ma essenziale per la società e i giovani che crescono in essa. Quello che accade negli uffici della magistratura ci smentisce, ci dà torto. La classe di governo si regge sulle forze di polizia, ne è protetta e la protegge, offre loro l’impunità. E viola le regole del gioco, anche le più elementari, per non mancare alla promessa. Il dolore è nostro, ma la verità appartiene a tutti. Però scriviamo nella speranza che le nostre parole, e l’impegno civile del giornale, servano a far capire a ogni persona che l’indifferenza di fronte a queste manovre equivarrebbe alla rinuncia e al tradimento.
Lydia Franceschi e Mario Franceschi











La storia di Lydia, la mamma di Roberto, parte da quella dei suoi genitori, i nonni di Roberto: Amedeo Buticchi e Lidia (con la i…) Pavani si incontrano a Odessa, in Unione Sovietica: sono due dei tanti italiani che fuggono a Est per non finire nelle prigioni fasciste e si mettono al servizio della Rivoluzione. La mamma di Lydia muore subito dopo il parto, e lei ne eredita il nome; suo padre è costretto a tornare in Italia per mettere al sicuro la figlia, la sua seconda Lydia, e qui viene ucciso dal cognato. Lydia ricorda che suo padre le chiedeva sempre, come sussurrando, «perché non sei nata coniglio», soffrendo per averla messa al mondo, innocente e orfana. Lydia nel suo destino ha scritto qualcosa: è una donna nata per lottare, per portare avanti gli ideali di giustizia civile dei suoi genitori e di quel figlio che, giovanissimo, lo Stato le ha strappato. «Appartengo a un’altra generazione, quella venuta dopo, negli anni ’80. Ho conosciuto Lydia intervistandola per Diario e dopo l’intervista le chiesi se avesse mai pensato di scrivere la sua biografia. Lei si schernì e le proposi di farla intervistare da una collega sensibile e intelligente (Federica Sasso) che in tre appuntamenti le ha consegnato una sbobinatura di decine di pagine del suo racconto. Poi più di dieci anni dopo, in cui sono rimasto in contatto con la Fondazione Roberto Franceschi, Cristina, la figlia di Lydia, mi chiese di leggere i materiali raccolti… Ho pensato che la storia era talmente vibrante che sarebbe stato bello rovesciare la prospettiva ovvero non una donna che parla di sé, ma un insieme di persone che l’hanno incontrata e che parlando di lei, delle situazioni, dei fatti, tracciassero un ritratto del Novecento, vero, doloroso e così pieno di speranza per il futuro», racconta Jampaglia al Corriere. Franceschi è stato il martire del Movimento Studentesco, anche se prima di lui era già morto Saverio Saltarelli ucciso da un candelotto lacrimogeno in piazza Santo Stefano. «Fu l’icona – continua l’autore – La famiglia lottò perché quell’icona non fosse travisata, trascinata in un clima di odio e violenza. Nel libro si legge e si capisce, grazie anche al contributo di Franco Fabbri, autore e cantante degli Stormy Six che al giovane hanno dedicato una canzone. Pochi giorni fa ho incontrato Haidi Giuliani, la mamma di Carlo ucciso al G8 di Genova, e mi ha detto che Lydia è stata un insegnamento e un esempio per lei. Così per decine di madri delle vittime di violenza poliziesca, non solo perché ha aperto una strada giudiziaria, ma perché ha aperto un modo politico e umano, che chiede anche alla polizia di riconoscere e di democratizzarsi (Lydia ha scritto su Nuova Polizia diversi articoli e ha collaborato con il primo sindacato dei poliziotti, ndr). Credo paradossalmente che oggi sia più Lydia di Roberto che parli ai giovani. Anche se a sentire i giovani ricercatori che hanno vinto il premio a lui dedicato, Roberto rimane l’esempio di studente, critico e bravo, che vorrebbe contribuire a cambiare il mondo in cui vive».
Ora la striscia è proprio rossa, rossa viva, capisco che se toccassi il marciapiede con una mano l’alzerei grondante di sangue; del suo sangue, di quello di Pinelli, di Ardizzone, dei cittadini di piazza Fontana, di Saltarelli, di Marino, di Varalli, di Zibecchi, di Lupo, di Serrantini e di centinaia e centinaia ancora. Ho freddo, mi sento un pezzo di carne congelata, come quella di mio figlio quando l’hanno restituito all’obitorio.
Le parole di Lydia tratte dal libro
Un libro scritto da 23 persone diverse, che hanno avuto come leva l’affetto per la famiglia Franceschi: per quel padre allora dirigente Eni, per quella donna insegnante di matematica e preside di una scuola, per quella sorella, che hanno perso un figlio e un fratello. Il desiderio di far conoscere i fatti e soprattutto di non permettere che si dimenticasse quel ragazzo nato il 23 luglio 1952 e colpito il 23 gennaio del 1973.
Col sangue di Roberto ancora fresco sul marciapiede erano già in atto, come una consuetudine, le manomissioni e i depistaggi. Una schiera di bugie divise per gradi e conoscenza parziale dei fatti, così che nessuno potesse sapere precisamente la menzogna altrui. Una mano spara, tutti la proteggono: lo chiamano spirito di corpo. A ciascuno un pezzetto.
Le parole di Lydia tratte dal libro
Una storia privata che racconta una lotta collettiva e lega la storia del Novecento all’oggi. Una vicenda ricordata anche da un maglio di acciaio alto sette metri posto nel 1977 nel luogo in cui Roberto cadde, a Milano, di fronte alla sua Università. Scelto al termine di un lungo processo di elaborazione collettiva da parte del mondo artistico milanese sia per le sue proporzioni architettoniche, sia in quanto simbolo primario del lavoro, ai piedi riporta la targa: «A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella Nuova Resistenza dal ’45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato». «So che l’insegnamento di affrontare il dolore, di farne senso e rivendicazione, condivisione politica, è di un’attualità mostruosa. Lydia fa un lungo percorso che la porta a tradurre quella frase che suo padre le diceva stringendola a sé: “Perché non sei nata coniglio?”. Ci metterà ottant’anni a elaborare il senso di colpa di quella frase e capire invece che c’era un perdono, una gratitudine, una dolcezza tragica e potentissima al suo interno. Ecco. Succede a tutti noi, con ogni dolore della nostra vita. Questo è forse, per me, la più straordinaria vittoria di Lydia, il privato e pubblico, la rivoluzione che essa contiene», conclude Jampaglia.
