Il romanzo, gli scacchi e il senso della storia – Pasquale Palmieri su DOPPIOZERO
Nel gennaio del 1630 Samuele si trova a Livorno nel bel mezzo di un’epidemia di peste, che segue anni di guerra e devastazione. L’uomo è indotto dalle circostanze a ricordare un altro grande momento di crisi, risalente a 60 anni prima. Si trovava infatti a Ferrara, sua città di origine, il 16 novembre del 1570, quando un terremoto aveva provocato crolli devastanti. L’ondata di panico aveva generato reazioni di diversa matrice, oscillanti fra la ricerca di spiegazioni razionali e l’abbandono alle paure più istintive. Il papa Pio V aveva letto l’evento traumatico come una punizione divina, generata dalla decisione del potere secolare di accogliere popolazione di origine ebraica nei confini del dominio. Diversi predicatori avevano annunciato un’imminente fine dei tempi. Il duca Alfonso d’Este aveva convocato un convegno di esperti, affinché spiegassero le cause naturali del sisma. Ciò nonostante, i discorsi divergenti che avevano invaso lo spazio pubblico erano rimasti ben lontani dal diffondere fiducia e tranquillità nei sudditi, aumentando al contrario le ansie nei confronti degli scenari futuri.
In questi spazi narrativi si muove Lo scacchista del diavolo, l’ultimo romanzo di Girolamo De Michele (Alegre, 2023). L’autore prova a restituire nelle sue pagine la pluralità di voci che accompagna gli sconvolgimenti sociali, politici, religiosi e culturali della penisola italiana fra XVI e XVII secolo. Sviluppa il suo racconto servendosi di un fitto susseguirsi di frammenti, che riproducono il linguaggio dei documenti dell’epoca, esplicitando in alcuni casi l’identità dei testimoni e scegliendo in altri casi di tenerle nascoste. Entra nelle stanze delle corti nobiliari in cerca di sentimenti e desideri taciuti, ma posa l’orecchio anche sui discorsi pronunciati nelle chiese, nelle taverne, nelle fiere, nei porti e nei cortili dei quartieri umili.
Con la palese ambizione di costruire un’opera corale, De Michele raccoglie storie d’amore, di rovinose cadute verso la follia, di eroiche imprese cavalleresche, di duelli sanguinosi, di omicidi efferati, di penurie alimentari, di infezioni letali. Riproduce con dovizia di particolari testi finalizzati a diffondere ardite elaborazioni filosofiche e false profezie. Tutti i fili della trama convergono verso un unico grande evento: un torneo di scacchi fra i campioni dei grandi sovrani del mondo cattolico. È il potere estense a organizzarlo, sperando di trarne l’impulso necessario per ritrovare un prestigio internazionale ormai perduto. Il duca Alfonso sceglie di affidarsi alle abilità del famoso giocatore Paolo Boi, già noto negli ambienti delle grandi competizioni. Una vittoria potrebbe generare clamore in tutto il continente e aiutarlo a raggiungere gli scopi prefissati.
Il filo conduttore del libro è l’inaffidabilità della fonte storica, che spesso risulta ingannevole agli occhi di chi desidera dare un senso ad accadimenti confusi, inspiegabili, atroci e inesorabili nel loro svolgersi, come le catastrofi naturali, i conflitti armati e le epidemie. Uno degli ostacoli più spinosi si annida nel funzionamento della memoria degli scriventi, che dovrebbero fornire punti di vista affidabili e si rivelano invece menzogneri. Sono proprio questi ultimi ad ammettere nei loro testi che i ricordi smettono “di procedere ordinati, ciascuno secondo il proprio andare, gli uni con gran passata, gli altri con una camminata di misura, altri ancora giungendo impreveduti”. Si scambiano “di posto e giocano a rimpiattarsi come fanciulli”, rendendo impossibile qualsiasi distinzione fra “le storie romanzesche” e le ricostruzioni di fatti accaduti, generando irrisolvibili confusioni. Le pretese di esercitare un dominio razionale sui fatti accaduti, fondate su “evidenze” che dovrebbero risultare chiare “anche ai ciechi”, si affiancano a dichiarazioni di impotenza di fronte alla possibilità di comprendere la verità i tutti in suoi risvolti: “non so bene”, “ignoro”, “dubito del giorno esatto”.
Con i suoi complessi meccanismi, il gioco degli scacchi offre uno stimolo agli esseri umani per cercare un ordine in una realtà sociale dominata dal caos, e per rendere efficaci processi conoscitivi destinati a infrangersi contro ostacoli insormontabili. Ogni singola pedina ha una sua funzione e “un suo luogo preciso”, che resta immutabile anche con lo spostamento della superficie – la “tavola”, la “scacchiera” – sulla quale gli sfidanti mettono a confronto le loro abilità. Per la durata di una partita, sembra prevalere una “regola immutabile come quelle che si pretendono esistere in natura”. Tuttavia l’incantesimo si interrompe quando i pezzi vengono riposti nella borsa. Si mescolano e si rendono irriconoscibili, come i corpi degli esseri umani che cadono sul campo di battaglia o sotto i colpi di un morbo epidemico. Cessano di essere fanti, cavalieri o sovrani per arrivare a mescolarsi fra loro e a confondersi nella loro ritrovata, anonima normalità, rendendo impossibile qualsiasi interpretazione compiuta delle loro azioni.
Il rapporto con la fonte storica costruito da Girolamo De Michele ricorda in maniera palese quello tracciato da Alessandro Manzoni. Il primo nesso è tanto diretto quanto scontato: la ricostruzione della peste del 1630 mette l’autore dello Scacchista del diavolo di fronte agli stessi cronisti studiati dal celebre scrittore milanese prima della stesura dei Promessi sposi e della Colonna infame, come ad esempio il medico Alessandro Tadino e il presbitero Giuseppe Ripamonti. Il secondo nesso riguarda invece il metodo di indagine sviluppato intorno a testimonianze che appaiono incerte, claudicanti, lacunose, talvolta ingannevoli e fasulle. De Michele si muove con abilità su un territorio già battuto da Manzoni. Ha ben presenti i rapporti di forza vigenti fra il XVI e il XVII secolo. Gli esempi possibili sono tanti: basti pensare alla possibilità di produrre testimonianze scritte, che resta prerogativa di una ristretta minoranza, impegnata a esercitare il diritto di fermare su carta le tracce delle esistenze di un mondo di illetterati, chi non hanno mai stretto fra le mani una penna. Ne consegue una lucida consapevolezza su ciò che è possibile rinvenire negli archivi: non le vite reali degli esseri umani, ma le strategie adoperate dai poteri costituiti per governare i loro comportamenti, le loro scelte, le loro idee, i loro bisogni materiali, le loro fedi religiose, i loro desideri, le loro tentazioni e persino le loro emozioni.
Non c’è quindi da stupirsi se molti aspetti dell’agire concreto delle persone finiscano per essere offuscati. Persone animate da buone intenzioni o assetate di giustizia appaiono nelle fonti storiche come pericolosi criminali o perturbatori dell’ordine sociale. Parlando delle relazioni sulla peste prodotte dai contemporanei, Manzoni sottolinea come non ce ne sia “alcuna che basti da sé a darne un’idea un po’ distinta e ordinata”, capace di restituire “i fatti essenziali”, scevra da “errori materiali”. Analizzando la cieca caccia agli untori, lo stesso autore della Colonna infame ammette di essersi imbattuto in testimonianze che sarebbero tacciate di essere inverosimili anche in un’opera d’invenzione. Da questo scomodo punto di osservazione, il passato appare come un grande affresco corroso dal tempo, nel quale ampie zone d’ombra prevalgono su sporadici segmenti di nitidezza. Si resta impigliati nei “sogni de’ dotti” che cercano nei movimenti degli astri la spiegazione di eventi terreni, o in grovigli inestricabili di citazioni, che legano Omero a Livio, Tacito a Ovidio, Dante a Machiavelli. La ricerca di una via d’uscita è compito del romanziere, chiamato a riempire i vuoti della storia attingendo all’archivio della propria immaginazione, mescolando documenti esistenti a documenti inventati di sana pianta, ma pur sempre fondati su un concetto condiviso di plausibilità.
I personaggi di Girolamo De Michele provano a riparare con i loro ricordi le omissioni dei loro interlocutori, mettendo in moto un ingranaggio di soccorsi reciproci, col solo fine di trovare un orientamento in un passato vissuto in prima linea e, ciò nonostante, ancora imperscrutabile. Questa tendenza risulta ben chiara nel paragrafo incentrato su Samuele Ferrarese che rivolge i suoi pensieri al rogo di Magdeburgo, uno degli episodi più sanguinosi della guerra in corso nel 1630 (oggi nota come Guerra dei Trent’anni). Il protagonista legge e rilegge le narrazioni dell’evento, cercando “un segno” utile a “cogliere un senso, una ragione di quell’insensato macello”. Alza gli occhi al cielo e guarda le stelle. Comincia a collegarle “disegnando con linee visibili a lui solo le figure delle costellazioni”. È giunto ormai al termine dei suoi giorni e comprende di essere rimasto irretito in una molteplicità di nodi, tutti appartenenti a “una sola trama”, che si riflette nel “rovescio del gran tappeto del mondo”, distendendosi “sulle città, sui regni, sulle altezze dei monti e sulla vastità dei mari”.
In queste parole si ritrova forse uno dei fili essenziali del progetto narrativo sviluppato da Girolamo De Michele. Lo scacchista del diavolo si configura a tutti gli effetti come un romanzo storico, e parrebbe del tutto scontato sottolinearlo. Se infatti ci accontentassimo della sola ambientazione nel passato per far rientrare l’opera dentro i canoni di questo genere letterario, rischieremmo di commettere un errore di prospettiva o di restituire un’informazione incompleta. Lo scacchista del diavolo compie – è importante evidenziarlo – un passo ulteriore: si interroga e ci interroga sul senso profondo della ricerca storica, ponendoci di fronte alla necessità di emanciparci dal carattere contradditorio e friabile dei racconti disponibili per ritrovare i contorni di un disegno unico (transitare dalle “storie” alla “storia”), dotato di una qualche coerenza, capace di offrire a chi legge – usando le parole di Manzoni – “osservazioni più generali”, di un’utilità “se non così immediata, non meno reale” (Colonna infame).
Lo stesso De Michele ammette, nelle note finali del libro, di aver messo mano all’opera subito dopo il terremoto dell’Emilia del 2012 e di averla conclusa nel 2020, in una delle fasi più delicate dell’epidemia di Covid-19. Il collegamento fra passato e presente non è affatto da intendersi come volontà di stabilire parallelismi arbitrari, e meno che mai come tentazione di imporre paradigmi anacronistici all’interpretazione di un’epoca lontana. Appare al contrario come espressione sincera di un bisogno di verità estraneo a qualsiasi forma di pacificazione, portatore silenzioso di sofferenza e disagio. Avvicinarsi alla realtà è un processo faticoso. Chi prova a farlo può andare incontro a cocenti delusioni e rimanere nel buio. Ma chi non ci prova rimane un semplice osservatore, una pedina, pronta a muoversi sulla scacchiera sotto l’impulso di un sapiente giocatore, e a ritornare nella borsa come un corpo morto quando la partita è finita.