La gaia scienza della vita di Federico Zappino (da Alfabeta2)
«C’era una volta una frocia!»: inizia nell’estate del 1973 il racconto di Porpora Marcasciano –presidentessa del MIT – Movimento Identità Transessuale di Bologna – e non erano affatto tempi facili per tutti coloro che eccedevano il paradigma eteronormativo della società.
Chiaramente Porpora non usa questa espressione nelle pagine dense di vite e di corpi di AntoloGaia: questa la usiamo noi oggi, in modo forse troppo accademico – e troppo timoroso di non urtare la sacra sensibilità degli eterosessuali, la sacra proprietà delle loro parole, dei loro confini, dei loro paradigmi di riconoscimento e di intelligibilità del mondo, della loro società tutt’oggi perfettamente eteronormata ed eteronormativa, e anzi, se possibile, ancora di più. Già, perché le storie e le personaggie che Porpora narra e di cui narra le gesta, al contrario, non si limitavano a eccedere la norma(lità) eterosessuale, ma erano più che mai decise nella direzione della sua sovversione. Non solo contrasto all’omo-transfobia, non solo contrasto al sessismo, ma sovversione attiva, pratica, desiderante, politica, delle norme che producevano e riproducevano tutte quelle forme di odio, gerarchizzazione, esclusione.
Nonostante il Sessantotto, nonostante la strada maestra aperta dal femminismo italiano del Manifesto di Rivolta Femminile del 1970, tutt’intorno «il grosso delle persone faceva ancora i conti con duemila anni di repressione»: tutt’intorno vigeva infatti inalterata quella che il giovane Mario Mieli definiva «educastrazione», che Monique Wittig definirà dopo qualche anno «eterosessualità come regime politico», che dopo circa vent’anni Warner definirà «eteronormatività» e poi Judith Butler, il queer ecc. Posizioni teoriche tutt’altro che sinonime, anzi per certi versi antitetiche.
Mieli – punto di riferimento per il movimento italiano di liberazione omosessuale – nei suoi Elementi di critica omosessuale (1977) sosteneva che la società castrasse, appunto, i bambini e le bambine dei propri istinti sessuali altrimenti polimorfi («la transessualità originaria»), per farli diventare tutti soldatini al cospetto della grande missione etero-riproduttiva dell’umanità. E, da una prospettiva tanto psicoanalitica quanto marxista e rivoluzionaria, riteneva che fosse dunque necessario «liberare» la sessualità, e innanzitutto il piacere anale, i cui effetti «prevedibili e imprevedibili sull’assetto eterosessuale dell’umanità» sarebbero stati del tutto simili, si potrebbe dire, a quelli che Carla Lonzi immaginava potessero derivare dalla liberazione della clitoride. Liberare la sessualità dai gioghi del perbenismo piccolo-borghese, dalla morale cattolica, dagli obblighi di riproduzione imposti dal Capitale, da cui la «via anale contro il Capitale», o l’inequivocabile appello: «D’ora in poi non batteremo solamente, ma com-batteremo! Proletari di tutto il mondo: inculiamoci!».
Nello stesso periodo, ma in Francia, la Storia della sessualità di Foucault diceva invece che non c’era proprio nulla da cui il soggetto dovesse essere liberato, che non esisteva nessuna presunta transessualità ontologica, ma che era solo il «dispositivo di sessualità» (eterosessuale, chiaramente, ma storicamente rintracciabile) a produrre tanto le sessualità conformi quanto quelle difformi, e che in ogni caso tutte le forme della sessualità e del desiderio, lecite o illecite che fossero, derivavano dai rapporti di potere le proprie paradossali condizioni di possibilità, così come quelle di sovversione. E che dunque non occorreva «liberare» proprio niente e nessuno, nessun desiderio preesistente alle condizioni che ne determinavano l’emersione. La sfida, semmai, era quella di «creare», di «sperimentare», forme di libertà, di piacere, di soggettivazione e di relazione alternative, a partire dalle quali desiderare.
Differenze non di poco conto, da un punto di vista teorico, e cruciali se pensate in funzione della calibrazione di controcondotte sul piano dell’azione politica. Ma insomma, senza entrare troppo nelle dispute teoriche – sebbene la prospettiva mieliana e rivoluzionaria pervada ogni parola di AntoloGaia – quale che fosse il modo teoricamente più corretto per analizzare la (nostra) società eteronormata e omo-trans-sessuo-fobica, per Porpora non v’erano dubbi circa gli effetti che essa produceva sui soggetti e sulla loro vita affettiva: «disarmonia», «incoerenza», ma soprattutto «sofferenza», una indicibile «malinconia». E alla sofferenza, alla malinconia, non c’era altro modo di rispondere se non costituendo comunità e spazi di gaia liberazione e di gaia sperimentazione, in cui si istituivano regole diverse da quelle del mondo fuori.
Le storie che Porpora racconta in AntoloGaia, infatti, sono tanto storie di liberazione quanto storie di sperimentazione, poiché tale è innanzitutto la sua storia. Un percorso personale di liberazione che parte dall’illuminante viaggio post-diploma a Christiania, «luogo liberato e liberante», poi dalla «fuga» dal paese natale alla volta di Napoli, e poi Roma – e San Lorenzo in particolare, scenario di incontri che decisamente deragliavano dal binario omo/eterosessuale. Poi Bologna, Londra, Milano. E in ogni città una casa piena di compagni (anche quelli delle «frange estreme»), di femministe, di froci, di trans. E tutte queste figure irrompono costantemente nel resoconto che Porpora dà della sua storia: vi fanno irruzione così spesso al punto da costituirlo, da rendere manifesta l’idea di una biografia che non è possibile senza gli altri e le altre.
Una vita che non è al di qua né al di là della relazione. E una vita, soprattutto, in cui le relazioni che la costituiscono disfano, trasformano la sua continuità, e diventano esse stesse istanze politiche: e dunque le battaglie per i diritti civili, l’aborto, il divorzio, la conquista della 164 per il cambio di sesso tramite intervento chirurgico. E dunque l’istanza della libertà, su tutte, che chiedeva di non essere disgiunta da quella dell’eguaglianza e della giustizia sociale, in quel ’77 caldissimo e rivoluzionario, anche quando i compagni rispondevano con l’invito «ad andare in Russia». Perché «anche se il capitalismo non ci piaceva affatto», chiosa Porpora, «credo che fossero pochi quelli che vedevano i paesi comunisti come l’alternativa possibile»: «sinceramente sognavamo di meglio».
Un «muoversi su un altro piano», dunque, per chi, come Porpora, avrebbe sperimentato la vertigine – spaventosa, eccitante – della libertà di sottrarsi all’obbligo di scegliere tra alternative imposte da altri – quella tra essere uomo o donna, innanzitutto, quanto quella tra il capitalismo o l’esperimento del comunismo di Stato. Le storie di AntoloGaia ci parlano esattamente di questa libertà di disfare le alternative e di provare a rifare, a riorganizzare il mondo: sono storie in cui, cioè, si creano e moltiplicano gli spazi e le forme della libertà insieme agli altri e per gli altri, in cui la sperimentazione degli stili di esistenza alternativi alla norma è intrisa di quell’afflato etico e politico che l’idea rivoluzionaria di una liberazione si porta inevitabilmente dietro.
Ed è più che mai importante, oggi, ricordare che è questa libertà ad aver segnato la storia del movimento gay, lesbico e trans. Una libertà che non è stata del tutto in grado di aggirare le lusinghe del nuovo ideale neoliberista di libertà che proprio in quegli anni iniziava a sedimentarsi, a mimetizzarsi, a minare le relazioni creatrici di senso, all’insegna della competizione, della spoliticizzazione, dell’individualizzazione. Una libertà con la quale, tuttavia, nulla aveva da spartire sul piano dei principi: ma quale movimento, d’altronde, è riuscito a resistere anche solo un giorno a quel processo totalizzante?
Il racconto termina nel 1983. È l’anno del suicidio di Mieli, l’anno in cui forse culmina il processo di restaurazione di quella libertà gaiamente conquistata, in favore di una libertà tutta interna al mercato. L’anno dopo morirà anche Foucault, positivo al virus dell’HIV: e l’AIDS («il rimedio che Dio ha trovato per diserbare l’orto», esultava Pat Robertson, e molti con lui), metterà quasi ovunque a tacere i desideri di trasformazione di una società che di trasformazione avrebbe invece ancora avuto molto bisogno, insinuandosi, per ironia della sorte, proprio in quegli spazi che sembravano essere stati liberati – la sessualità, le relazioni tra i corpi – favorendo quasi ovunque, in maniera quasi spontanea, il loro ridisciplinamento, la loro chiusura reazionaria.
È quanto mai necessaria questa opportunità che Porpora ci offre di ripensare alla nostra genealogia, proprio oggi che i tentativi di restaurazione si moltiplicano, nonostante l’ottimismo di tutti coloro che pompano la retorica dei tempi che sono cambiati abbastanza. Retorica alla quale occorre rispondere con risolutezza: «i tempi», occorrerà rispondere, saranno cambiati non solo quando sapremo dare una risposta univoca e politicamente centrata ai ridicoli, e tuttavia pericolosi, attacchi clericali, fascisti e rossobruni (si pensi all’allucinato dibattito su ideologia/dittatura del gender), o quando le coppie gay e lesbiche porranno l’istanza del matrimonio anche in termini di classe, o quando Israele o gli USA cesseranno di usare pretestuosamente i diritti degli omosessuali per bombardare intere popolazioni – o quando gay, lesbiche e trans cesseranno di accontentarsi di tutto ciò, ossia di essere usati retoricamente a mo’ di diversivo.
I «tempi» saranno cambiati anche quando vi rivolgerete a un uomo etero, brizzolato, un po’ malinconico, conosciuto nel giardino di uno spazio occupato, e gli direte che vi siete innamorati di lui, follemente. E lui, dopo un periodo di straniante disorientamento, acconsentirà a farsi catturare il cuore, a non sacrificare nulla, a pluralizzare i suoi schemi di intelligibilità delle cose, a sperimentare con voi una parola e una pratica di libertà a cui non avrebbe mai pensato prima, ma dalle quali, quel giorno, ricevette interpellazione.
Nella quasi totalità dei casi tutto questo continua a non accadere. Occorre allora ricordare che è solo quando tutto questo sarà ritenuto invece possibile, e non una ingenua impossibilità, che i tempi saranno cambiati davvero, che l’idea di una gaia trasformazione e di una gaia liberazione diventerà una prassi. Occorre ricordare che sono l’ordine eterosessuale e, oggi più che mai, il Capitale gli unici a trarre giovamento da una società composta di identità perimetrate, riontologizzate, ben individualizzate e individualizzabili: il primo, per preservare i propri privilegi simbolici e materiali; il secondo, per mettere a valore e incasellare meglio «le differenze» nell’universale human resource management.
La parola di Porpora è quanto di più distante da tutto ciò: la sua storia ci esorta a resistere alla neutralizzazione, a desiderare una trasformazione sociale che passa innanzitutto dalle condizioni di intelligibilità e di possibilità delle alleanze, dei corpi, delle relazioni – e dell’amore, tra tutte le forme di relazione, di quell’amore con cui, non a caso, chiude il suo racconto. Quell’amore che la rapì e lo salvò, «l’amore che move il sole e le altre stelle». D’altronde, è sul piano dell’amore che la nostra storia è una storia di oppressione, come di desiderio (una «cotta continua»): di conseguenza, è sul piano dell’amore che siamo chiamat* oggi come ieri a persistere, a portare il nostro contributo di trasformazione di questa vita, che è l’unica vita che abbiamo.
Amore inteso non come qualcosa che ci riconduce nel privato, ma come una risorsa politica che ci parla di desideri, di interdipendenze, di legami, di erotizzazioni silenziose, e tuttavia già fluttuanti nell’aria. E dunque de-costruire e ri-costruire paradigmi, spazi e condizioni ideali e materiali che consentano di farlo e di viverlo, che consentano di rendere giustizia ai froci che si innamorano degli etero, alle persone disabili che vogliono amare ed essere amat*, alle butch con la passione per la conversione, alle persone intersex che ci esortano a ripensare i nostri paradigmi di riconoscibilità dell’umano – e a tutt* coloro che devono rinunciare all’amore perché non hanno un reddito o una casa, perché i processi in atto di precarizzazione del vivente ne minano pesantemente la possibilità. A ogni necropolitica, a ogni forma di produzione di morte sociale si deve rispondere con più vita, e più vita significa amore. E la loro derisione non sarà che la riprova del fatto che siamo nel giusto.
Anche perché a volte, occorre ricordare, nei giardini degli spazi occupati l’incontro che ho evocato accade; quando accade, il possibile eccede il reale. Che si tratti di una liberazione, di una sperimentazione, di una trasformazione, lì c’è qualcosa che resiste alla morte: è gaio, in senso proprio, e come tale chiede di essere vissuto.
*Fonte articolo: http://www.alfabeta2.it/2015/04/19/la-gaia-scienza-della-vita/