Recensione sul sito Lankelot
Da http://www.lankelot.eu
Credo sia soprattutto nei momenti di disorientamento, quando ai frantumi di un’epoca in caduta libera andrebbero opposti pilastri costruttivi per un tempo a venire, quando si sente il bisogno di porre fine alla putrescenza del presente e slanciarsi verso la costruzione di un ennesimo “nuovo”, che si avverte la necessità di riascoltare la Storia, di risentirne la voce e il monito; meglio ancora sarebbe andarsi a nutrire non tanto alla fonte marmorea da cui sgorga la Storia maiuscola, generalmente scritta e interpretata dal vincente, quanto ai mille rivoli particolari, alle storie minuscole, alle voci singole che declinano lo scorrere del tempo condiviso nei travagli emotivi individuali, e ci raggiungono alla schiena con la carica e la vitalità, appunto, d’altri tempi. Sfogliare le pagine di questo libro è un mettersi all’ascolto d’un tempo trascorso che in qualche modo uncina il presente, con l’intento, anche, di farlo sanguinare; è come accendere una radio che si sintonizzi su frequenze di trent’anni fa e passando di racconto in racconto sembra di cambiare stazione, ascoltando di volta in volta la storia di un protagonista, la cui voce rivive per magia di letteratura. Dal 1969 al 1978. Dieci anni. Dieci storie. Si va dal chitarrista Brian Jones, prematuramente scomparso nel 1969, a Salvador Puig Antich, l’ultimo prigioniero ad assaggiare la garrota di Francisco Franco nel 1974; dallo splendido racconto “corale” della Bloody sunday irlandese (1972), alla voce di Yoghi, il matto del manicomio di Via della Ghiara, a Ferrara (1978). Storie piuttosto diffuse come l’assassinio del leader delle Black Panters, George Jackson, nel 1971, ma osservate da un angolo particolare: un detenuto bianco del carcere di San Quentin, “un vero americano anticomunista”. Oppure la tragica sorte dell’attrice del Living Theater, Carolyn Lobravico, raccontata da un infermiere del carcere criminale di Pozzuoli. E ancora la voce proveniente da un buco nero della storia: la lettera di un desaparecido argentino; un ricordo di Francesco Lorusso, ucciso a Bologna, nel 1977, durante gli scontri di piazza; un “dibattito inter-generazionale” sul Festival del Proletariato Giovanile, svoltosi a Parco Lambro nel ’75 e nel ’76.
Racconti che ci conducono nel cuore di conflitti che man mano vengono a comporre il mosaico storico degli anni Settanta, decennio la cui memoria è forse fra le più controverse e meno condivise del secondo Novecento. Il franchismo spagnolo, la dittatura militare argentina, la lotta dei neri d’america, la guerriglia dell’Ira, gli anni di piombo italiani che oltre al sangue videro vitali esperimenti e conquiste. Sono finestre che si aprono su singole storie e su determinati personaggi e che nel complesso illustrano quello che qualcuno definirebbe lo Zeitgeist di quegli anni. Ma la memoria non è fine a se stessa. Non è esposizione museale. In ogni racconto c’è il bisogno e la cura di fare in modo che quel tempo venga a mordere il presente, a scuoterlo dalla sua fessità. Per capirci, basta citare il passo del racconto Parco Lambro, dove, nel dialogo fra un giovane giornalista e un reduce di quegli anni, si esplicita questo attrito generazionale, che negli altri racconti è presente sottotraccia:
«Gli stalinisti, il servizio d’ordine…Scusa, ma certi termini mi sembrano così antiquati che a sentirli usare adesso un po’ mi viene da ridere…E allora ridi, ridi pure! Credi che io non sappia quanto siamo distanti tu ed io? Per la maggioranza di quelli della tua età noi siamo una specie di morti viventi, dei residuati di un secolo finito da almeno un altro secolo…E sai qual è il problema? Che io non farei cambio per nessuna ragione al mondo, nemmeno per i tuoi vent’anni. Non amo fare generalizzazioni, ma con molta franchezza devo dirti che non mi piacete. Se dovessi usare quel linguaggio che tu non capisci, dovrei dirti che siete dei “codini”, delle persone sempre pronte a stare dalla parte di chi vince, incapaci di esprimere un minimo di senso critico. Ma come, dico io, c’è un ministro che sta distruggendo la scuola pubblica, un altro, di un governo precedente, che vi ha insultato chiamandovi bamboccioni e un presidente del Consiglio che ha cominciato a prendervi per il culo dieci anni fa con la storiella delle tre “i” e continua a farlo ogni volta che parla di voi e voi che fate? Assolutamente nulla. Nessuna ribellione vera, di quelle che fanno male al potere, ma solo qualche brevissima occupazione…Davanti alle telecamere dei Tg proprio non riuscite a resistere alla tentazione di ripetere in coro “noi non facciamo politica!”, “noi non abbiamo niente a che fare con il ’68!”, “noi non c’entriamo niente con i violenti degli anni Settanta!” ed altre amenità di questo tipo.» [Parco Lambro, p.96].
Ecco un esempio di come la scrittura di Tassinari recuperi quelle storie per aprire un dibattito che riguardi questa storia, quella che stiamo scrivendo in questo tempo. Salva episodi dall’oblio facendo in modo che siano chicchi di sale da gettare sulle ferite anestetizzate del presente. E chissà perché sembra di risentire la voce di Pasolini che si scagliava contro la bruttezza dei giovani del suo tempo e sentiva l’esigenza di portare allo scoperto quel dialogo, sempre atavico e rimosso, sul conflitto politico fra i Padri e i Figli. Bipolarismo, berlusconismo, antipolitica, bulimia mediatica, schiavitù del consumo. È nebbia fitta. Qualcuno potrebbe forse negare il fatto che la nostra generazione abbia bisogno di intessere un dialogo politico forte, attivo, partecipato, non cellularizzato? E in mancanza delle piattaforme, delle piazze, delle agorà, ci viene in soccorso la letteratura, rivitalizzando la linfa e la rabbia d’altri tempi, ma non tempi qualunque: tempi forse complementari a questo presente, com’erano quelli degli anni Settanta.
Un’ultima notazione vorrei farla sullo stile di Tassinari. Le dieci voci dei dieci racconti corrispondono infatti a dieci stili diversi. O, per essere più corretti, dieci diverse modulazioni dello stile personale. Le armoniche della scrittura sono ritagliate in base al personaggio o ai personaggi che di volta in volta prendono la parola: dal tono franco del defunto Brian Jones, alle sospensioni da racconto orale dell’infermiere del carcere di Pozzuoli; dal coro di personaggi che da angolature diverse racconta la Domenica di sangue di Derry, al passo da intervista di Parco Lambro. Quasi sempre c’è una narrazione in prima persona. Come nell’Antologia di Lee Masters, o nel meno conosciuto L’ora di tutti di Maria Corti, spesso chi prende la parola è deceduto. Si rivolge a noi che siamo nel tempo, da un oltre indefinito, distante e prossimo allo stesso tempo, da cui si libera a volte un delicato lirismo:
«Se solo tu fossi qui, e non in un luogo sconosciuto della mia mente, che un tempo era e adesso non è più, potrei voltarmi indietro ad osservare lo stupore dei tuoi occhi, che guardano attraverso questa polvere di pioggia che ora m’allontana dal tuo cercarmi a vuoto nel silenzio di certe mattinate, che lì da te sono girate verso il mare e qui si perdono di vista in un istante..»[ A Passo d’ombra, p.109].
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE: Stefano Tassinari, D’altri tempi, Edizioni Alegre, Roma 2011, pp.136, euro 13.
Stefano Tassinari (Ferrara 1955) è scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Otto i romanzi al suo attivo. Numerose le pubblicazioni in antologia. Ha collaborato e collabora con numerosi musicisti, fotografi e attori per messe in scena d’opere teatrali e letterarie. È il vicepresidente dell’Associazione Scrittori Bologna. È fondatore e direttore di Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, ed. Alegre.
Vedi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/Stefano_Tassinari