Che fine hanno fatto gli intellettuali?
Che fine hanno fatto gli intellettuali? Quei “tipi sociali” che interrogavano il potere, contestavano il discorso dominante, introducevano un punto di vista critico non solo nelle loro opere ma anche all’interno di uno spazio pubblico? Quel luogo di intermediazione, secondo la definizione di Habermas, tra la società civile e lo Stato. Due fatti emblematici indicano le estremità della traiettoria degli intellettuali nel lungo ‘900: il J’accuse di Emile Zola nella Francia al tempo dell’affare Dreyfus in cui il termine “intellettuale” da aggettivo diventa sostantivo e l’immagine di Edward Saїd che nell’estate del 2000 lancia una pietra contro un check-point israeliano alla frontiera libanese, come atto di protesta e presa di parola.
Enzo Traverso, dopo Il secolo armato pubblicato in Italia lo scorso anno, prosegue la sua ricognizione sul ruolo degli intellettuali in un libro-intervista, Où sont passés les intellectuels ? (Les éditions Textuel, 17 euro, 2013). Se la figura dell’intellettuale, citando Bobbio, ha in gran parte oscillato tra il “filosofo-re” – secondo la visione platonica – che entra in politica per assumere il potere nella città ideale e il consigliere che mette a disposizione del principe il suo sapere e le sue competenze, il XX° secolo ha conosciuto una terza variante: l’intellettuale come critico del potere nelle sue molteplici articolazioni. Jean Paul Sartre è stato tra i principali esempi di intellettuale “in situazione”, convinto che ogni parola e ogni silenzio avessero delle conseguenze sulla storia che si stava facendo. In poche parole l’intellettuale come trasgressore dei tabù per rompere il conformismo, che si “deve immischiare anche in quello che non lo riguarda”. Traverso ragiona su una data simbolo, il 1989, intesa come un periodo temporale spartiacque tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso in cui avviene un doppio cambiamento nella visione del mondo.
Il crollo del socialismo reale investe direttamente anche l’utopia comunista, al di là del giudizio su quei regimi, e coincide con l’accelerazione del processo di reificazione dello spazio pubblico in cui la creazione culturale viene trasformata in oggetto di consumo. La logica dell’industria culturale fa sì che il mercato sovradetermini le idee e la cultura dell’immagine rimetta in causa lo statuto della pagina scritta. Nel sistema mediatico multipolare del web, della stampa, radio, televisione, grandi case editrici il marketing aggressivo diventa la strategia per vendere i contenuti di una merce che si chiami libro, video o materiale audio. Tutto ciò si combina con il passaggio epocale dalla grafosfera alla videosfera in cui il linguaggio dell’impresa è generalizzato all’insieme della società. L’intellettuale subisce una metamorfosi che lo trasforma in esperto ed oggi, tra l’altro, è molto apprezzata la sua immagine come consigliere del principe.
L’esperto non si impegna più per dei valori, usa le sue competenze per supportare i vari aspetti del potere e gioca un ruolo ideologico non trascurabile. L’intellettuale mediatico comprime i tempi della riflessione e si assesta su un habitus antropologico che tende a smussare le contraddizioni reali di una società e di un modo di produzione. Assistiamo al paradosso di un’epoca definita post-ideologica in cui la performatività dell’ideologia ha raggiunto livelli difficilmente preventivabili. L’università è diventata il luogo della fabbricazione degli esperti e dell’organizzazione gestionale in termini di produttività e redditività del fare ricerca e della produzione del sapere. L’expertise è un mezzo efficace per uccidere il pensiero critico. L’analisi supposta neutrale, puramente tecnica, mira a neutralizzare la riflessione critica e a naturalizzare l’ordine politico.
In un mondo caratterizzato dal regime del “presentismo”, in cui l’accelerazione delle nostre vite avviene in un ordine sociale bloccato, se non si può immaginare il futuro spesso non rimane che contemplare il passato. E non è una novità che si sia verificata anche una rottura tra intellettuali critici e nuovi movimenti sociali. Questi oscillano tra un rigetto del passato e l’assenza di futuro mettendo a dura prova una concezione della storia come tensione dialettica tra un passato come “campo di esperienza” e il futuro come “orizzonte atteso”.
Traverso, tuttavia, non è d’accordo a decretare la fine dell’intellettuale critico. Oggi l’intellettuale non è lo scrittore, il giornalista, il docente universitario mediatizzato ma piuttosto il ricercatore che al tempo stesso è “specifico” e critico. La dominazione, l’oppressione, l’ingiustizia non sono sparite. Il mondo non sarà vivibile se nessuno le denuncia. In ultima analisi il mondo non può vivere senza utopie e ne inventerà delle nuove. E le future rivoluzioni? Probabilmente, secondo l’autore, non saranno comuniste e si faranno per i beni comuni contro la reificazione del mercato. Ipotesi suggestiva che però richiede un supplemento d’indagine sulla natura, il valore, i modi d’uso e di scambio del beni comuni nel capitalismo contemporaneo.